Storia di chiesa e di CHIESA

Sulla pista di Fiumicino sbucò fuori dal ventre del quadrigetto con l'aria smarrita di chi non sa dove aprire la sua tenda. Nell'andirivieni delle pratiche doganali si muoveva con la semplicità disarmata dell'uomo del «Nord est», che sa lottare contro la siccità ma non sa difendersi dall'aggressione dei consumi. Veniva da Santiago del Cile, e prima ancora dal Brasile, dove aveva passato più di un anno nelle prigioni dei generali, e aveva conosciuto l'orrore della tortura. Nel dicembre del 70 lo scambiarono con un diplomatico svizzero sequestrato dai guerriglieri. Ormai a Roma era libero di andare e venire, ma non aveva passaporto; era un «apolide», per dirla con voce dotta, ma lui sapeva solo che nessuno ancora, in nessuno luogo, lo aveva invitato a rimanere, benché in teoria potesse scegliere dove fermarsi. Era stato messo al bando dalla sua patria: se ci tornasse, il primo poliziotto che lo identificasse aveva il dovere sacrosanto di ucciderlo. E' giovane e vuole essere prete. Appartiene all'ordine dei domenicani del Brasile, ma qui a Roma non pensò di andare a chiedere ospitalità nella casa generalizia di S. Sabina, sull'Aventino, dove non conosce nessuno e nessuno parla la sua lingua... il numero dei membri, che fa la «gloria» delle congregazioni religiose, distrugge la qualità dei rapporti interpersonali. Andò diritto al seminario brasiliano, sulla via Aurelia, dove ha degli amici e si parla la sua lingua, e dove sperava di sentirsi finalmente in casa. In portineria lo fecero entrare e gli assegnarono «d'ufficio» una camera. Rotto dalla stanchezza e dalle emozioni, si buttò sul letto e si addormentò. Dopo mezz'ora qualcuno bussò alla porta:
«Scusa, c'è stato un equivoco, tu non puoi restare qui»...
«Perché?».
«Perché tu sei messo al bando dal nostro paese e la tua presenza ci rovinerebbe i rapporti con l'ambasciata del Brasile a Roma».
Il ragazzo del «nord-est» silenziosamente rifece la sua valigia e uscì sulla strada. Quasi nessuno si era accorto del suo rapido passaggio per i grandi corridoi del seminario sulla via Aurelia.
Si chiama Tito de Alencar. Ha 26 anni. E' nato nel nordest del Brasile.
Fu arrestato a S. Paulo nel novembre del 69 insieme a molti altri preti e religiosi, sotto l'accusa di avere aiutato dei fuggiaschi (membri del Fronte di Liberazione) ad attraversare la frontiera meridionale del paese. Fu torturato selvaggiamente a due riprese, per lunghi giorni; una volta il sadismo degli aguzzini arrivò alla raffinatezza di escogitare una finta Eucarestia: gli misero in bocca una ostia che gli provocò scariche elettriche in tutto il corpo e rimase tramortito... quando si accorse che gli veniva meno la capacità di resistere e che avrebbe denunciato gli amici, si tagliò le vene. Ebbe salva la vita a stento.
Nel dicembre del 70 l'Avanguardia Popolare Rivoluzionaria sequestrò il Signor Bucher, ambasciatore della repubblica svizzera a Rio de Janeiro, e chiese in cambio la libertà per settanta prigionieri politici, tra cui Tito.
Dopo un periodo di ricupero in Cile, Tito è venuto in Europa e continua gli studi di teologia a Parigi, dove non ha ancora trovato il suo spazio umano, nella metropoli anonima degli esiliati. A Roma era di passaggio.
Due sere dopo, aveva scoperto degli amici e cenava a casa loro.
Qualcuno accennò all'ospitalità rifiutata ma egli non sembrò dare importanza all'episodio, disse che il carcere e la tortura gli avevano insegnato a non dar peso agli incidenti «secondari».
Alcuni dei presenti decisero di contestare il fatto e si recarono dai superiori del seminario brasiliano. Furono accolti con molta gentilezza ma fu ribadito il criterio della prudenza e dei buoni rapporti con l'ambasciata. L'affare finì in una assemblea generale degli alunni (anche perché uno dei superiori si era ricreduto e voleva fare pubblica ammenda); la discussione si insabbiò nelle divergenze di opinioni circa l'interpretazione del fatto. Niente di più.
Intanto quella sera anch'io ero a cena con Tito e i suoi amici e ascoltai molte cose che venivano dai sotterranei della storia dove nascono le radici della speranza. All'inizio Tito era restio a parlare, si schivava come se temesse di essere forzato a raccontare. Quando capì che nessuno chiedeva, cominciò a sentirsi a suo agio, smise di sfregarsi nervosamente i polsi e si rivelò. Ci disse che in carcere aveva scoperto la comunità. Con i fratelli nella fede e i fratelli nella sofferenza. Nella cella del penitenziario «Tiradentes» di S. Paulo, costruita per 15 persone e occupata da 40, ogni sera il gruppo dei preti si metteva insieme per riflettere sul Vangelo e trovarci la forza di non disperare dell'uomo. Dopo un po' di tempo i guerriglieri marxisti chiesero di partecipare: ascoltavano in silenzio, a volte interloquivano, ed erano straordinariamente fedeli «all'appuntamento». Una volta i preti prigionieri celebrarono l'Eucaristia e un guerrigliero di 20 anni (in seguito liberato con operazione-sequestro, poi ritornato clandestinamente in patria e ucciso dalla polizia) chiese di fare la comunione: «Vorrei tanto mangiare con voi questo pane, anche se non ho la stessa fede vostra, perché mi sento vostro fratello e fratello degli uomini e di questo Cristo di cui parlate tanto».
Queste cronache ci facevano mulinare mille inutili domande nel cervello, quella sera durante la cena, e uno di noi chiese a Tito se lui si considerava un cristiano-marxista. Non colpì nel segno evidentemente, e Tito rimase perplesso, parve non capire la domanda e poi disse: «ma io sono cristiano e mi basta, non sento il bisogno di aggettivi!».
Parlava lentamente, come se rivivesse una ad una le amare esperienze fatte. Evitò due argomenti: i suoi torturatori e i fratelli nella fede che per paura gli avevano negato l'ospitalità.

una sorella di Roma



in La Voce dei Poveri: La VdP novembre 1971, Novembre 1971

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