Storie di lavoro: officina meccanica

Lavoro in una officina meccanica; tra il ronzio delle saldatrici, il lamento del seghetto, l'urlo della troncatrice e tutti gli altri rumori delle macchine che lavorano il ferro passo buona parte della mia giornata.
In officina facciamo soprattutto dei pezzi per macchinari più grandi che montano nella industria; il lavoro richiede grande precisione ed attenzione e non dà quasi mai la soddisfazione di vedere un oggetto costruito dal lavoro e dalla fatica degli uomini che sia finito, autonomo; fare sempre dei pezzi fa essere fieri solo della tecnica che si dimostra nella loro costruzione, perché di nostro c'è solo la tecnica del lavoro e niente altro.
Capita a volte di fare lavori di carpenteria diversi, quali costruire strutture portanti per capannoni, tralicci, fare ringhiere o cancellate. Sono questi lavori che hanno la possibilità di ricevere in se stessi una certa impronta di chi li ha fatti, che fanno sentire il peso e la noia di tutto il resto del lavoro, che è di gran lunga la massa più consistente, fatto per l'industria.
Quando un anno fa sono andato a lavorare, ho trovato molto disagio nel dovermi mettere ad imparare da principio, ho sentito davvero come la mia cultura, gli studi e tutto ciò che avevo fatto non mi servivano a niente e come dovevo cominciare come tutti fanno, anche se in una età che non è la più favorevole per essere il piccino di bottega.
Del mio lavoro sono contento, anche se, tutto considerato, è abbastanza duro e mi impegna assai nel tempo e nelle forze.
Il mio essere prete è conosciuto da tutti nell'ambiente e non mi ha mai fatto ostacolo in nessuna circostanza.
E' un anno circa che ho preso questa strada del lavoro in officina e che cerco di vivere in questo modo il mio sacerdozio e sento sempre forte il bisogno di rivedere e di giudicare quello che faccio, anche perchè sono piuttosto solo e devo porre in discussione con me stesso i motivi della mia vita.
Qualche giorno fa, in cattedrale, partecipando alla ordinazione sacerdotale di due giovani amici, mi sono trovato a ripensare a tutto. Sono quattro anni che vivo il Sacerdozio; quattro anni di ricerca e di vita nella Chiesa e con la Chiesa, con il peso e la gioia di una responsabilità che diventa tormento quando è vissuta da soli.
Al di là di tutte le amarezze, le solitudini e la fatica quotidiana del tirare avanti, ho sentito con forza di essere quello che Dio mi ha voluto; ho visto passare davanti a me tutti i motivi e le ragioni di un mio stare nel popolo di Dio come sacerdote.
Ho sentito in modo particolare come il mio essere, la mia vita, il tutto di me richiede che io sia «luogo di incontro»; ho capito come le esigenze del Cristo nei miei confronti sono assolute e certe, e come il mio impegno di fedeltà a Lui si realizza nell'essere sempre più disponibile, sempre più povero, sempre più aperto all'incontro con tutti.
Mi sono passate alla mente le mie giornate, povere giornate fatte di lavoro in officina, di impegno ad ascoltare tutti e a vivere con tutti, dividendo il cammino di ciascuno ed il peso del camminare lungo la strada.
Anche se qualcuno, a volte, mi ha detto che sono fortunato perché lavorando sono in grado di scoprire e di vivere tante cose che arricchiscono il mio essere, io spesso riesco solo a vivere e sentire la mia stanchezza, il desiderio di farla finita, la noia di ripetere tante e tante volte lo stesso gesto, lo stesso lavoro senza soddisfazione e apparentemente senza alcun costrutto. Ciò che davvero salva è sapere che tutti gli uomini sono nella stessa condizione, che tutti vivono le stesse tensioni, le stesse divisioni, gli stessi contrasti, e che è nel vivo di una esistenza fatta di queste cose che Cristo esiste e si esprime e che non dobbiamo lasciarci stancare dalle difficoltà di una ricerca di Lui e non dobbiamo abbandonare il compito di annunciare la sua presenza, la sua vita, il suo amore.
Per me il compito di essere «luogo di incontro» si è chiarito in questo senso: devo fare la vita degli uomini, accogliere e vivere in me tutto ciò che fa e costituisce la vita, pur nelle sue asprezze e nei suoi contrasti, e devo dentro il mio essere prete porlo in dialogo con l'amore di Dio.
Il mio andare ogni giorno al lavoro in officina non ha e non vuole avere motivi di apostolato, nel senso ristretto col quale ancora si prende questa parola, ma vuole avere motivi di vita, di una esistenza umana.
L'officina è artigianale ed il mio lavoro non è fatto a fianco di quello di molte altre persone, come può accadere in un grande ambiente di industria, ma per me ha tutto il suo significato, in quanto dice, a me prete - e spero anche agli altri - la realtà di una condizione, l'impegno necessario a tirare avanti, a «scamparsi» la vita in un modo umano, che abbia significato. Il fatto di lavorare mi aiuta anche a scoprire come tutto ciò che faccio esercitando il ministero di prete, nella parrocchia che mi è stata affidata ed altrove, sia davvero «dono», qualcosa che io ho ricevuto da Dio e che a Lui rendo nel servizio che compio verso i fratelli, arricchito giorno per giorno dalla sofferenza della vita, dalla fedeltà.
Negli incontri più svariati motivati spesso dalle esigenze del lavoro, a volte sono rifiutato come prete, a volte le persone che mi capita di incontrare hanno qualcosa contro il prete e pensano di difendersi rifiutandolo, debbo dire però che non ho ancora incontrato nessuno che mi abbia rifiutato come persona, che mi abbia chiuso la porta e non abbia sentito di poter scambiare due parole ed anche qualcosa di altro con me. Questa penso che sia autentica grazia di Dio e autentica disponibilità di fondo degli uomini e che è proprio compito mio di prete di raccogliere tutto ciò e di viverlo a fondo e farlo venire a confronto, per realizzare quel dialogo che manca, perché tutto e tutti possano ritrovarsi in un luogo che Dio ha scelto e voluto perché in esso tutto si ritrovi nell'unità dell'amore: e quel luogo sono io, sono anch'io con tutti i sacerdoti e con la Chiesa, e lo sono nell'officina, lo sono all'altare, lo sono nel dolore e nella gioia, nella solitudine e nella comunità.
Queste cose ho rivissuto a distanza di quattro anni dalla mia Ordinazione ed ora mi trovo «prete nel lavoro» sento profonda tutta la responsabilità di ciò che sono come uomo, come cristiano e come prete e sento che tutto questo: uomo, cristiano e prete deve essere vero dentro di me, che non devo sfuggire al mio compito e alle mie scelte e come, la volontà di Dio che mi ha chiamato a servire mi indica davvero nella vita la scelta degli uomini in quanto sono tali, mi dice di farmi fratello di tutti, di dividere il peso di una esistenza e soprattutto di fare senza esitazioni la scelta più vera anche se più cruda, quella della povertà.
Sulla base della mia vita e per i motivi che mi hanno portato a questa mia scelta, ritengo che il servizio oggi nel nostro mondo,, un servizio autentico e rivolto davvero verso tutti gli uomini richiede che si faccia una scelta di classe, che abbiamo il coraggio di abbracciare la condizione dei poveri e farla nostra, perché è ancora vero che sono i poveri a cui il Vangelo è indirizzato ed è ancora vero che solo dal basso, per così dire, si può raggiungere quella posizione di base che sia significativa per tutti e che tutti possano sentire propria.


don Giuseppe Giordano


in La Voce dei Poveri: La VdP maggio 1971, Maggio 1971

menù del sito


Home | Chi siamo |

ARCHIVIO

Don Sirio Politi

Don Beppe Socci

Contatto

Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455

Link consigliati | Ricerca globale |

INFO: Luigi Sonnenfeld - tel. 0584-46455 -