Il dovere del nuovo

Con queste nostre pagine mensili (non è di più e di diverso di un parlare serenamente, anche se un po' appassionatamente, fra fratelli che si sentono famiglia) non intendiamo che offrire, con umiltà e quindi con sincerità, quello che pensiamo, ciò di cui normalmente si parla nella nostra comunità, con gli amici che vengono a trovarci, quando ci troviamo a parlare con gruppi che sono venuti da noi o che ci hanno invitato a casa loro.
Ci può essere rimproverato che spesso può venire fuori forse un discorso intellettualizzato, ma vorremmo dichiarare che non è né per capacità, né per volontà: probabilmente può darsi che sia per una rimanenza dura a morire di un ecclesiasticizzazione secondo la quale una cultura, vera o posticcia, vi doveva essere e inevitabilmente ne veniva un manierismo teologico e intellettualistico attraverso il quale Dio, il Vangelo, la ricerca cristiana, ecc. doveva essere filtrata fino al punto che inevitabilmente non era più il «sì, sì e no, no», ma quasi un non capirci più niente e quindi, certo non intenzionalmente, un qualcosa di «maligno», cioè di intenzionalmente sistemato.
Ce ne dispiace molto di questo «non riuscire a rientrare nel seno di nostra madre e a rinascere di nuovo» fino al punto di poterci offrire creature nuove, come sarebbe giusto e doveroso. Anche perché può decidere assai seriamente della possibilità di essere Regno di Dio. E angoscia in noi (e in tutti coloro che desiderano e cercano di essere «diversi») il desiderio di una Chiesa-Madre, capace di generarci ad esistenza nuova, a nuova creazione. Perché sappiamo bene che per essere figli occorre una Madre e per figli nuovi e diversi è indispensabile una Madre nuova.
Nel frattempo (cioè mentre tutto sta mutando, perché non vi è forza di conservazione che possa bloccare il muoversi dello Spirito che muove la storia e quindi anche la Chiesa), nel frattempo non possiamo non prenderci come siamo e gettarci a capofitto nella lotta che è Amore (non accettiamo nessun'altra specificazione della lotta) per la chiara responsabilità di impegno nella ricerca, faticosa e rischiosa, quanto si vuole, di raccogliere tutto quello che si ha e specialmente quello che si è per trasformarlo, quasi da renderlo strumento adatto per condurre avanti la lotta, se non altro perché non si plachi ma si accenda sempre più.
E' molto bello guardare al passato, alla storia, alla tradizione (lettera minuscola), alla educazione avuta, anche in tutte le sue limitazioni e miserie, alla spiritualità inculcata, al moralismo-diritto canonico, all'essere preti così come dagli stampi, inventati dal Concilio Tridentino, siamo usciti, dalla chiesa insomma invecchiata e incartapecorita di secoli, guardare al passato, raccoglierlo coscienziosamente responsabilmente e cioè con Amore. E quindi non per gettarlo via (che sarebbe facile specialmente se non si avverte il vuoto e l'incapacità di riempirlo di qualcosa che sia veramente «nuovo») ma per trasformarlo, per farne partenza di nuovo cammino.
Rimane dietro le spalle, è vero, ma unicamente perché si cammina, perché si va avanti. Forse è anche ciò che è alle spalle che ci costringe, a spinta violenta, irresistibile spesso, a riprendere il cammino e tentare, costi quello che costi, ad andare avanti.
Pensiamo il nuovo, il diverso, perché il vecchio è logorato, usato ormai fino allo straccio. Non è più possibile un rammendare, un ricucire pezze nuove. La veste dì Cristo è senza cuciture. Al massimo può essere tirata a sorte. E i nostri tempi la stanno di nuovo mettendo in gioco e in maniera impressionante.
Quindi tutto un rispetto, una considerazione, un Amore, non per salvare però ciò che ha fatto il suo tempo (il giudicare se bene o male non ci interessa e è sempre tempo perso), ma piuttosto per l'atto di Fede (che necessariamente è un rischio) che occorre sempre a! pellegrino sulla strada e poi perché è realtà vissuta da fratelli e quindi antecedenza sacra e indispensabile e sicuramente fedeltà e poi ancora perché ha lasciato scoprire (volente o no) i suoi limiti, l'essere arrivati cioè fino a quel punto, creando le premesse, le condizioni urgenti di liberazione, di maturazione, di rinnovamento e cioè semplicemente di crescita.
Ciò che impressiona profondamente nel nostro tempo di Chiesa è che in questa urgenza ineluttabile del nuovo (cioè il camminare avanti lasciando che il passato rimanga inevitabilmente dietro le spalle) non sappiamo inventare - almeno ufficialmente - cose nuove.
Forse si ha perfino paura di mettercisi anche soltanto a pensarvi. Dio non voglia, perché in fondo si ha coscienza, specialmente in chi è posto in autorità, che il vino nuovo ha bisogno di otri nuovi.
Sarebbe responsabilità terribile respingere il nuovo per non voler gettar via la vecchia contenenza. Perché è certo che molte strutture (quante?) della Chiesa sono vecchie e irrinnovabili.
Bisogna pensarne di nuove: logicamente quelle legate al tempo, alla storia, ai programmi e mentalità umane, non certamente quelle pensate e proposte e generate dallo Spirito Santo.
Perché una distinzione, cioè un poter distinguere bene, come il battesimo di Giovanni, se viene da Dio o dagli uomini, sarà pur sempre possibile (almeno secondo il pensiero di Cristo e la sua domanda, anche se la risposta la deve sempre attendere ancora dagli scribi di allora come da quelli di ora).
Vi sono liberazioni e purificazioni da fare. E non basta l'aver tolto il latino dalla liturgia e, come una delle note caratteristiche essenziali, il saperlo, per giudicare della vocazione o no di uno che voleva farsi prete. Né per il camminare più spediti nel nuovo è sufficiente che i preti abbiano le gambe più agevolate dall'aver abbandonato l'abito talare per il clergimen. E via dicendo con esemplificazioni del nuovo capaci soltanto di risultare un penoso tentativo di concessioni, buone soltanto a poter crearsi l'illusione di mantenere in piedi, anche se scricchiola più o meno paurosamente, la vecchia impalcatura.
Noi forse pecchiamo di fantasia e cioè di fanciullaggine (forse ci stiamo avvicinando, nel ritorno, al seno della Madre per rinascere di nuovo?) ma non possiamo impedirci di riflettere a queste purificazioni e liberazioni che comporta il lasciarsi il passato alle spalle perché si va avanti sulla lunga strada del Regno di Dio. Sogniamo un cammino nuovo per terre nuove.
E' per questo che ci apriamo al nuovo da qualsiasi parte ci sopravvenga purché vi riscontriamo chiaramente i segni dello Spirito e cioè la Parola e il Mistero di Cristo.
E l'offriamo questo nuovo così come riusciamo a raccoglierlo nella nostra Fede, nell'Amore a Dio, nella passione a Gesù Cristo, nella fedeltà alla Chiesa e logicamente nella responsabilità personale e comunitaria di cui ci carica - e la misura è spaventosa - la nostra scelta cristiana e sacerdotale.
Vorremmo tanto rendere tutto questo impegno non soltanto parola parlata o scritta, ma vissuta: cioè prima verificata in noi e poi così autenticata da un pagar di persona, semplicemente e fraternamente offerta.
Perché non è bene aspettare i tempi nuovi come si aspetta l'aurora al mattino o come quando si dice verrà il tempo bello perché il cielo alla sera rosseggia o pioverà perché il cielo è rosso e minaccioso al mattino. Sappiamo che è da generazione adultera e malvagia sapere del tempo bello o brutto e non sapere interpretare i segni dei tempi e stare ad aspettare un segno.
E tanto meno è Regno di Dio scaricare la fatica e il travaglio e il rischio del seminare riservandoci «le decime» a mietitura compiuta.
L'attesa è virtù cristiana per tutto quello che è il Mistero di Dio e il disegno del suo compiersi, ma è un tirarsi indietro quando si tratta della nostra crocifissione e tanto più quando si lascia tranquillamente gettare la croce sulle spalle degli altri.
Da dopo Gesù Cristo il compromettersi è fondamentale virtù cristiana: somiglia assai a quell'incarnazione che è il lasciarsi travolgere dalla storia cercando di mescolarvi dentro un pugno di lievito o di accendervi una luce.


La Redazione


in La Voce dei Poveri: La VdP aprile 1971, Aprile 1971

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