"Les Mains que voici"

IL CROCEFISSO DI ABRAMO
Sono venuto qui perchè l'altro giorno nell'autobus Nazareth-Haifa ho conosciuto Alberto, Abramo nel kibbutz.
Da quando aveva saputo che mi interessavo alla vita dei kibbutz mi aveva invitato a visitare Ginossar. Mi fa vedere con orgoglio le loro istallazioni e il piccolo porto. Parliamo di pesca, del radar, poi di religione... D'un tratto, tirandolo fuori di tasca mi mostra un crocefisso di metallo, abbastanza grande. Io rimango interdetto.
«Ecco, vedi - mi dice - sono stati degli italiani venuti qui per iniziarci alla pesca che me lo hanno dato».
Io sono stupefatto, tanto più che Abramo usa il suo crocefisso come portachiave. Io gliene faccio un rimprovero:
«Perchè se non sei cristiano tieni questo crocefisso? Tu ne fai un uso offensivo».
Ora è Abramo ad essere meravigliato. Mi guarda con aria di compassione, come se volesse dirmi - ma come, non capisci? -. Finalmente dice:
«Si, lo uso come portachiavi, ma in questo modo lo tengo sempre su di me».
Poi mostrandomi Cristo sulla croce mi dice: «E' ebreo, Lui».
Siamo rimasti in silenzio. Fra Abramo, ebreo, e me, prete, si è venuto a formare un legame che nessuno ha mai potuto ne potrà rompere. Abramo non aveva nemmeno bisogno di portare su di se un crocefisso. Ogni ebreo ha in sé qualcosa di Gesù Cristo. Questo popolo crocefisso tante volte lungo i venti secoli trascorsi dal dramma del Calvario rimane il popolo scelto da Cristo per prendere dal seno della Vergine immacolata carne e sangue, questa carne che sa sofferto e che si è fatta crocefiggere, questo sangue sparso per la redenzione del mondo. Tutti i giorni tengo nelle mie mani, nell'Eucarestia, questa carne e questo sangue. Abramo ha ogni diritto di tenersi almeno questo crocefisso, e sperare perchè «è un ebreo, Lui».

NESSUNO MI HA INSEGNATO A PREGARE
Oggi Abramo è venuto nella baracca dove vivo, mentre stavo leggendo il mio breviario.
«Cosa fai?»
«Prego».
«Sei fortunato. Mi piace vedere gli altri pregare. Quand'ero in Egitto mi piaceva andare a vedere i religiosi e le religiose pregare. Ma io non so farlo, nessuno mi ha mai insegnato».
Gli spiego che è una cosa molto semplice: pensare a Dio. AmandoLo.
«Penserai qualche volta a Dio Lo amerai quando peschi sul lago».
«E' vero, mi risponde, ci sono dei momenti nei quali si è obbligati a pensarLo. Ci prende così, come un grido «Ah!» e tutto è troppo grande, troppo bello. A volte, invece è dalla parte della Siria, vicino alla frontiera, là dove c'è pericolo: anche in quella occasione bisogna per forza pregare».
Queste preghiere di Abramo, questo slancio dell'anima, questo gridare del cuore «Ah!» davanti a Dio grande e misericordioso nessuno glielo ha insegnato, nessuno se non Colui che grida nel nostro cuore «Abba» (Padre ), quel nome che Giacobbe, il bimbo di Abramo gli grida quando gli si getta fra le braccia: Abba.

VISO SENZA SORRISO
A tavola, nella sala da pranzo comunitaria sono stato più volte colpito dall'espressione di alcuni visi profondamente tristi. Mai un sorriso a illuminare il loro sguardo. È forse l'influenza di una vita austera, di una concezione esistenziale senza una dimensione trascendente? La risposta mi viene data dal braccio di una mia vicina, una donna dal viso senza sorriso. Il suo braccio porta il marchio del campo di concentramento dal quale è scampata. Molte braccia portano simili stimmate. Come fanno i volti a non esprimere la tristezza dei campi della morte?
Sei milioni di ebrei, dei quali un milione e cinquecentomila bambini sono stati bruciati nei forni crematori di Hitler. I sopravvissuti conservano nella memoria quelle visioni di spavento che i loro tatuaggi o i loro marchi a fuoco ricordano continuamente. Quel camerata durante la sua deportazione è stato condannato ad alimentare i forni dove i suoi venivano bruciati.
Quella ragazza, al suo arrivo ai kibbutz, non osava spogliarsi di fronte alle compagne perchè portava sul petto, a marchio di fuoco, con lettere gotiche «Riservata agli ufficiali». Durante tre anni era stata prostituita ad uso degli ufficiali del fronte russo. Aveva quindici anni. Dopo la guerra mondiale venne in Israele, in un kibbutz, nascondendo ciò che credeva essere una vergogna. Finalmente, una sera, non potendone più, si aprì la camicia svelando la sua storia ai compagni. Un ragazzo le domandò di sposarla. Lei rifiutò per un anno, perchè non voleva la pietà. Convinta del suo amare lo ha sposato, e ora dà il seno a un bambino, non potendo purtroppo velargli quello che resta per lei un indicibile dolore. «Voi che passate guardate e vedete se c'è un dolore simile al mio». L'Uomo del dolore predetto da Isaia, continua la Sua agonia, nella umanità oppressa dal peccato.
Un camerata col quale parlavo di queste cose nel kibbutz di Degania mi aveva detto:
«Si, vedi abbiamo tanto sofferto durante la deportazione, tanto pregato di fronte ai forni crematori, che ora non osiamo più pregare. Avremmo l'impressione di ridicolizzare Dio».
Non conoscendo il senso del Mistero della Croce, quel camerata aveva ragione. Solamente la fede nella Redenzione attraverso la sofferenza permette di pregare Dio nel dolore. Ma, privati di questa fede, come potranno tornare a sorridere i visi di quelli che hanno tanto sofferto?

IL LAVORO: REDENZIONE E AMORE.
Nel kibbutz di Degania, a sud del lago di Galilea, i miei camerati mi mostrano orgogliosamente il museo Gordon. David Gordon riposa poco lontano, in un cimitero sulle rive del lago. Filosofo e scrittore è venuto a lavorare come sterratore a Degania, quando la regione non era che paludi, regno della malaria. Oggi, dopo quarant'anni è un paradiso terrestre.
Nelle sue «Lettere di un operaio in Palestina», Gordon ha sviluppato il tema del lavoro, redenzione per la terra e per l'uomo. Guardando questo paese, rinato sotto il lavoro degli uomini, e vivendo con questo popolo, rigenerato dai suoi sforzi, si comprende che Gordon aveva ragione; la mistica del lavoro ha portato frutti meravigliosi. Alla sua morte, estenuato dalla doppia fatica di scrittore e di sterratore Gordon lasciò ai suoi camerati questo testamento: «amatevi gli uni gli altri lavorando».
Sicuramente la mistica del lavoro potrebbe diventare un idolo al quale l'uomo viene sacrificato. Ma la luce del Vangelo può illuminare la civiltà del lavoro e della socializzazione. S.Paolo vedeva nel lavoro il mezzo per non pesare sugli altri e per aiutare i poveri: «Queste mie mani, come voi ben sapete hanno provveduto ai miei bisogni e a quelli dei miei amici... E' nella fatica che bisogna aiutare i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù che ha detto: vi è più felicità nel dare che nel ricevere». (Atti, 20, 34-39). Oggi, nella presente evoluzione tecnica e ideologica tutto questo è ancora più vero. E' per mezzo del lavoro che si possono portare gli uni i pesi degli altri e attuare così la legge dell'Amore. La solidarietà del lavoro, trasfigurata dalla Grazia diventa comunione di Amore.
Oggi, prolungando il pensiero di Gordon sul valore redentore del lavoro, offro la mia dura fatica.
Mentre porto i tubi di zinco che conducono l'acqua attraverso gli immensi campi di mais, penso che non è solo questa terra deserta che sarà fecondata, ne l'umanità solamente che si rigenera per mezzo del lavoro. Attraverso il sacrificio di Cristo che ha preso su di Sé la fatica e le sofferenze dell'umanità, il lavoro acquista una dimensione trascendente. Questa sera, alla fine della fatica, il Sacrificio Eucaristico dona a questo lavoro il suo pieno significato. Gordon, filosofo ha dato al lavoro una mistica di redenzione e di fratellanza terrestre e carnale. Il prete che lavora porta verso Dio questi valori, li fa passare per una autentica redenzione, in autentica comunione con l'Eterno.





PAUL GAUTHIER
(Editions Universitaires Chrètienté Nouvelle) - trad. di M. G.



in La Voce dei Poveri: La VdP gennaio 1965, Gennaio 1965

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