La vera amicizia

Secondo il Vangelo esiste un legame tra la povertà e l'amore. Amare è dare, dare qualcosa e dare se stessi. Ora, perchè ci sia la possibilità di dare qualche cosa, bisogna esserne liberi, esserne distaccati: non si dà una cosa a cui si tiene. E' così che al primo grado di povertà che consiste nello staccarsi dai beni terreni e dalle ricchezze, corrisponde il primo grado dell'amore, il più umile, quello dell'elemosina: si dà del denaro. Il secondo grado di povertà è una povertà interiore e ci porta ad un grado più alto di amore: si darà la propria vita, il proprio tempo, la propria salute, e ci si dedicherà fino sull'esaurimento, alla malattia e forse alla morte. Questa purissima forma di carità è capita e vissuta da molti: essa ha mandato tanti missionari per il mondo, ha dato origine a tanta abnegazione in coloro che curano i malati o che insegnano. Ma non ci sarà ancora un altro grado di amore? Il nostro amore non deve essere umile, rispettoso degli uomini? Forse abbiamo dato il nostro tempo e la nostra vita, ma senza pensare abbastanza a dare noi stessi in una vera ed umile amicizia. Scopo della carità non è unicamente di dare delle cose o anche di darsi in tutto ciò che vi è - diremmo di fisico - nella nostra vita; non è forse anche dare se stesso nell'amicizia? E non si dica che l'amicizia esiste per il fatto che ci sono dati dei beni, e forse tutto ciò che si aveva: ci vuole un'altra specie di dono.
L'amore di amicizia fa tacere ogni facile critica, dà un pregiudizio di simpatia, evita soprattutto l'ironia sulle questioni razza. Non siamo stati noi pure spesso vittime, inconsciamente, di un pregiudizio di razza o di classe? Mi pare che ci sia talvolta una reale illusione che snatura lo sguardo che portiamo sugli uomini e ci impedisce di vedere le esigenze della vera carità.
Perchè è quasi impossibile stabilire dei legami di vera amicizia tra un datore di lavoro ed i suoi operai? Questo non è un problema immaginario. Non vi sono forse dei datori di lavoro cattolici e generosi che pure non hanno capito e che non riuscirebbero mai a mettersi al posto dei loro operai? Essi giudicano con bontà, certamente, ma con condiscendenza; hanno talvolta un senso elevato dei loro doveri sociali, ma nel senso in cui loro li capiscono, e sono pronti a fare tutto il possibile, ma senza un sufficiente rispetto né una reale stima della personalità dell'operaio. Non ci arrivano.
Si hanno allora delle mancanze gravi contro la carità e anche contro la giustizia, e vi sono atteggiamenti che scoraggiano. Mettetevi al posto di un povero che è colmato di doni, ma che sente in colui che glieli dà la coscienza della propria superiorità: non pensate che in questo povero ci sarà una ferita, forse inconscia, ma che niente guarisce? E il datore di lavoro o il coloniale che hanno costruito dei dispensari o avranno messo dei capitali in una «maternità» per curare i bimbi dei propri operai, si stupiranno di raccogliere solo amarezze e persino talvolta dell'odio, perchè essi hanno umiliato senza rendersene conto. Allora si accusa il povero di essere orgoglioso o il colonizzato di essere un rivoltoso. Ma, prima, non dovremmo noi interrogarci? Abbiamo noi il diritto di giudicarci superiori? Perché è proprio su questo punto che si pone il problema: superiori per che cosa? per la cultura, per la razza, per la ricchezza, per il Cristianesimo? Ed il possesso di un bene deve portare ad una mancanza di rispetto o al disprezzo? E' fino a questo punto che il cristiano deve essere «povero». Che abbiamo fatto noi per poterci considerare proprietari di questi beni?


R. Voillaume


in La Voce dei Poveri: La VdP gennaio 1964, Gennaio 1964

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