Lettere fra amici

Caro Don Sirio,
nell'ultimo numero di «La voce dei poveri» ho letto con particolare interesse - com'è naturale - gli articoli che si riferiscono alla vocazione e alla missione sacerdotale e cerco - scrivendoti - di chiarire a me e a te le impressioni che ne ho riportate, quasi per prender parte, così al colloquio al quale mi avevi invitato ai primi di luglio, in un giorno in cui avevo altri impegni.
Ho udito in quegli articoli come il grido di uno scalatore impaurito ed entusiasmato insieme dalle estreme difficoltà dell'ascesa, dallo sforzo sovrumano che non lo fa progredire di un passo, dalla vertigine del vuoto. Vi spira quasi un vento di tragedia. Ma tu sai che il cristianesimo spesso è dramma, mai tragedia.
Insieme vi ho sentito il «gusto» per una estrema semplicità e verità umana, che inserisca il prete in mezzo alla folla e ne faccia «uno del popolo della terra, uno degli innumerevoli figli di Dio, mescolato nella grande folla... »). Ma tu sai che il sacerdote, anche se «mangia coi peccatori» non fa massa con essi.
Non voglio affermare che le due posizioni sono contraddittorie, anche perchè mi rendo conto come la tragedia sarebbe proprio questo mescolarsi col mondo, fin quasi - non dico caricarsi - a ricoprirsi e macchiarsi di tutte le miserie di esso, con una sete insaziabile di santità e di purezza.
Voglio semplicemente notare che le due posizioni tendono troppo al di qua o al di la dello spazio disegnato dalla luce serena del Vangelo, oltre il quale ci sono posizioni o vocazioni rare e particolari.
Credo che - per quanto riguarda i casi generali e normali - la sostanza del cristianesimo sia una felice simbiosi fra natura e sopranatura, fra umano e divino, attuata senza asprezze e contorcimenti psicologici da tragedia. Non si devono far rivivere, su piani diversi, le «compagnie dei flagellanti». Il dolore, la miseria, l'ingiustizia, le preoccupazioni personali o pastorali debbono cadere sulla fede e la speranza e la carità, che ne attutiscono l'urto «ut non contristemur sicut ceteri qui spem non habent». Per soffrire basta essere uomini, per portare e santificare il dolore bisogna essere cristiani e ciò deve bastare. Per peccare basta essere uomini, per non essere soffocati dal male è necessario Gesù e Lui basta.
Quando la simbiosi, di cui si parla, si realizza senza compromessi psicologici, come due parti di un incastro che si corrispondono e si completano a vicenda, si assiste al fenomeno pieno di luce serena dell'uomo-cristiano. E nota che in quell'uomo-cristiano c'è tutto l'uomo con le sue miserie, negligenze, debolezze, peccati. Basta che l'incastro regga, anche se una parte grava verso il basso.
Mi ha colpito, pochi giorni or sono, durante un funerale, una frase della liturgia in cui si prega per il defunto «ut factorum suorum in poenis non recipiat vicem, qui tuam (Dei) in votis tenuit voluntatem». Si direbbe situazione tragica quella di uno che aspira a un ideale, sapendo di non poterlo raggiungere. Invece per il cristiano è normale che aspiri ad una perfezione che non raggiungerà mai sulla terra. Il peccato fa veramente paura quando spenge questo anelito - ed è un male in proporzione al grado di freddezza che vi porta.
Queste scarne e sommarie osservazioni sembrano riferirsi solo alla massa dei cristiani, ma gli stessi criteri si possono applicare alla vita e alla missione del sacerdote.
Questi deve lavorare con serenità, senza perdere la fede la speranza la carità, qualunque sia l'ambiente morale, la sordità e durezza delle coscienze, la sterilità della sua opera. Non gli rimprovero le debolezze, le comodità, gli svaghi, purché non ne venga offuscata la figura di un uomo che crede e spera nella vita eterna e fa con impegno il suo «lavoro», con pazienza, costanza, carità e umanità.
Tutto questo non lo mostra sempre (e lo «spettacolo» è bellissimo) su passaggi di sesto grado.
Le circostanze o una vocazione particolare possono richiedere l'eroismo.
E in questi casi - con la «grazia» di Dio - tutto deve andare avanti con umile fortezza e non turbata serenità. Non credo ai martiri che «corrono» al supplizio (Gesù pregò: si possibile est transeat a me...), non ho più simpatia per quelli che presentavano il petto ai fucili gridando «Viva Cristo Re ». Quanti umili soldati son diventati eroi «a tutto il mondo ignoti». E così non capisco le anime che respirano sempre aria da tragedia.
Non, mi fermo su le circostanze che possono esigere un eroismo: l'argomento sfugge ad una analisi. Una coscienza, retta, dirà a ciascuno se è stato un transfuga.
E' legittimo ammettere vocazioni particolari e non penso che dal papa all'ultimo prete «ugualmente dobbiamo dare tutto». Basta pensare che c'è il trappista e il certosino, il canonico e il monsignore diplomatico, il parroco e il prete studioso, il missionario e il prete operaio, per concludere che non tutti i sacerdoti debbono dare tutto ugualmente.
Se ci sono delle vocazioni particolari, bisogna prima di tutto che gli «eletti» si rendano conto che non tutti li debbono seguire nel loro arduo cammino. E' altrettanto necessario che non trasformino la loro vocazione in un inquieto e tormentoso problema morale - psicologico perchè non penso che ci possa essere la vocazione all'angoscia: nel caso si tratterebbe di patologia psichica.
Il rocciatore non si ferma a chiarirsi lo sforzo drammatico e la tensione psicologica nella sua ascensione, ma cerca di porre un passo sopra l'altro.
Uno si sente chiamato perchè ha anche sufficienti doti e inclinazioni naturali a vivere quella particolare perfezione: un radio-messaggio vibra in un apparecchio in sintonia con quello.
Il fatto di essere «solo», non che procura dubbio o sgomento, deve essere accettato come un dato intrinseco alla vocazione eccezionale. Non ci sarà mai una massa di santi eccezionali neppure fra i sacerdoti. Non conosco nessun tempo nella storia del cristianesimo in cui una santità straordinaria o eroica fosse vissuta, non dico da tutto, ma dalla maggior parte o dalla maggioranza o da una parte rilevante del clero.
Bisogna ammettere e legittimare una santità media per la massa dei sacerdoti come per la quasi totalità dei fedeli. E insistere su due punti: i doveri del proprio stato e la carità (Hai notato come S. Paolo, parlando della carità «quae nunquam excidit», quindi della 3a virtù teologale, nota: patiens est, benigna est ecc. «confondendo» la carità verso Dio e quella verso il prossimo?). I riti, i voti, i sacramenti, le regole del convento ecc. sono soltanto dei mezzi per assolvere i propri doveri e alimentare la. carità. Molti libri di formazione o di meditazione per sacerdoti, corsi di esercizi spirituali, conferenze, esortazioni al clero («nihil dat qui totum non dat»!) non possono riferirsi al clero in generale.
Ho notato all'inizio che dai tuoi articoli si potevano rilevare due aspetti della vita sacerdotale: un quasi spasmodico sforzo per vivere sulle vette e un profondo senso di semplice umanità. L'uno e l'altro possono coesistere o si possono pensare complementari, se si attenuano un pò le tinte. Ma sarebbe errore porli come antitesi e condanna di una vita sacerdotale media, che a me sembra insostituibile.
Se mai si dovrebbero opporre, per condannarlo, a quel genere di preti che vivono su un piano di «distinzione», di «classe» fondato sulla «dignità», sul prestigio, sul potere, sull'influenza perché la vita del prete deve poggiare sulla verità e la realtà della sua vita umana e la fedeltà al suo compimento di evangelizzatore.
A questo vorrei delineare la figura di quest'uomo-prete, che non risulta dalle direttive di formazione né dai «canoni» che riguardano i chierici. Ma ora non me la sento, ed ho soltanto una piccola speranza di poterlo fare in seguito.

Aff.mo in Gesù Cristo
don X X


in La Voce dei Poveri: La VdP novembre 1963, Novembre 1963

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