LA VOCE DEI POVERI: La VdP settembre 1971

Lo schema presinodale: la giustizia nel mondo

Come per lo schema di lavoro «sul ministero sacerdotale» del prossimo Sinodo dei Vescovi, abbiamo cercato - e, lo speriamo vivamente, con umiltà e semplicità e con Amore sincero alla Chiesa - di manifestare il nostro dissenso su alcuni punti, anche fondamentali riguardanti il Sacerdozio e di offrire, senza curarci della possibile utilizzazione o no, alcune nostre riflessioni e proposte, così intendiamo fare anche per lo schema del secondo tema che sarà trattato dallo stesso Sinodo: la giustizia nel mondo.
E' vero che non abbiamo particolare preparazione scientifica e culturale per un tema del genere e non possiamo né volutamente vogliamo rifarci per le nostre considerazioni al trattato «de justitia» studiato nel corso teologico del Seminario per l'amaro ricordo di orrore che quelle aritmetiche e geometriche tesi moralistiche ci hanno lasciato nell'anima e nella sensibilizzazione che doveva essere teologico-morale, della nostra educazione sacerdotale.
Non siamo però influenzati dalla necessità di voler salvare qualcosa o difendere posizioni faticosamente acquisite o privilegi ormai connaturati.
Non crediamo ai mezzi ricchi (cioè alle risorse specialmente economiche e di potenza che la nostra civiltà offre e che stipulazione di trattati legalizza facendone disinvoltamente realtà di giustizia da non poter mettere più nemmeno in discussione).
Viviamo da povera gente e cioè mantenendoci col lavoro delle braccia, abbandonati all'andamento economico di ogni giorno, sottostando agli sfruttamenti come succede a chi lavora per l'arricchimento degli altri, partecipi assai (ma certamente ancora non nella misura giusta) alle condizioni del vivere umano che soffre l'ingiustizia, ma che deve affidarsi a tutti quelli che dicono di essere la giustizia fino al punto che è perfino giudicata e repressa come «ingiustizia» anche soltanto il mettere in dubbio quella «giustizia».
Leggiamo i giornali - per quanto riusciamo - anche noi e viviamo questa povera umanità affamata, oppressa, schiavizzata che per il fatto di avere fame, di essere sfruttata e dì ribellarsi, di essere in catene e di tentare di spezzare le sbarre della propria schiavitù, viene fatta passare come belva feroce, «giustamente» (cioè per il bene comune) mantenuta in condizioni di non nuocere e cioè d'impedimento che salti fuori e si mangi e si divori tutta «la giustizia» di una civiltà e di un benessere così faticosamente accumulato in secoli e secoli e millenni di spaventosa, indicibile ingiustizia.
Leggiamo anche noi il Vangelo e cerchiamo fra le tante cose, ma specialmente, di scoprirvi e adorarvi Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo fino a farne realtà di Fede e di Amore e di Speranza da giocarvi interamente la vita. Ma non soltanto per cogliervi le possibilità e i sacramenti della salvezza eterna, ma anche le indicazioni per la costruzione esistenziale della vita, precisamente della vita cristiana, nei suoi rapporti con Dio concretamente vissuti e nei rapporti di esistenza vissuta in comunione con l'umanità intera.
Pensiamo che sia lì, nelle pagine del Vangelo e cioè nel Pensiero, nella Parola, nella Vita e quindi in Gesù Cristo perché Lui è Pensiero, Parola, Vita, il tutto unica realtà senza la minima ombra di dissonanza, pensiamo che noi Chiesa, continuità storica del suo vivere la vita dell'umanità, sia in Lui che dobbiamo cercare di sapere con esatta discriminazione cos'è e dove é la Giustizia e che cos'è e dove si annida il satanasso dell'ingiustizia.
Prima del pensiero di Paolo VI e di Giovanni XXIII e di Pio XII e di Pio XI e di Leone XIII e di tutta la dottrina sociale della Chiesa, c'è Gesù Cristo.
E non è un discorso da ridere e tanto meno devozionale se è vero (come riconosce il documento) che «il problema della giustizia nel mondo è uno dei problemi più vasti, più gravi e più urgenti della società umana contemporanea. Si potrebbe anche affermare che è il problema «centrale» che preoccupa oggi la società mondiale».
E bisogna leggere tutta l'introduzione e la passione con cui sono descritti «i segni dei tempi» e «cioè le nuove situazioni storiche che comportano un nuovo impegno, quello di un sincero riesame del messaggio cristiano e di un ritorno coraggioso all'essenziale del Vangelo: in questa maniera la parola di Cristo sarà per il mondo di oggi «parola di verità e di vita».
«Infatti questi segni dei tempi hanno un'intima coerenza con la fede cristiana, che sottolinea fortemente il valore della persona umana come esigenza assoluta di rispetto e di amore, che considera come missione principale della Chiesa quella di testimoniare nella sua dottrina, nella sua vita e nella sua azione l'opera liberatrice del Cristo». E continua subito dopo: ... «la comunità cristiana deve dunque diventare per tutti gli uomini un segno efficace, attuando la giustizia, abbattendo ogni forma di schiavitù, apportando speranza a ogni generazione umana».
Ottime cose che aprono il cuore alla fiducia. E questa cresce nella prima parte «descrizione della situazione reale della giustizia nel mondo» che si risolve tutta in una assai seria analisi dell'ingiustizia nel mondo fino all'accenno cauto e rispettoso di possibilità d'ingiustizia nella Chiesa stessa. «La Chiesa» sempre renovanda «deve perciò interrogare se stessa a riguardo della giustizia, sia nei suoi membri come nelle sue istituzioni. In alcuni casi infatti sembra che determinate sue istituzioni siano dalla parte delle classi più ricche. Con grande apertura d'animo e di spirito bisognerà vedere il bene e il male, il chiaro e l'oscuro (la giustizia o l'ingiustizia, precisiamo noi) nella situazione attuale della Chiesa».
E veniamo alla seconda parte del tema promettente «la giustizia alla luce del Vangelo».
Cosa viene da aspettarsi e con viva e profonda ansietà? Semplicemente un cercar di cogliere alla luce nuova dei segni dei tempi, una nuova chiarificazione e precisazione del pensiero di Cristo circa la giustizia e l'ingiustizia.
Perché interessa sapere e va detto dalla Chiesa con coraggiosa chiarezza, anche se può suonare a sua condanna, cos'è nel Vangelo la giustizia e dov'è l'ingiustizia. Perché una distinzione chiara e netta e anche gridata con violenza e pagata fino alla Croce, Gesù Cristo, la deve pure aver precisata.
E' questa precisazione quella che conta e sulla quale bisogna verificare la giustizia e l'ingiustizia e è da questa Fede che devono nascere i doveri assoluti di lottare per la giustizia cominciando e perseverando a costo di tutto nella lotta contro l'ingiustizia,
E invece l'amarezza è terribile quando subito dopo il titolo, la prima riga di un discorso confusionario se non proprio equivoco, suona così: «Di fronte a tutte le ingiustizie che esistono oggi nel mondo non bisogna aspettarsi che la chiesa gerarchica dia delle soluzioni tecniche perfette, queste non sono di sua competenza...». Ma nessuno gliele chiede, anzi dispiace che troppe volte abbia tentato (e continuerà anche nel sinodo) a propinarle «queste soluzioni tecniche» se non altro sotto forma di raccomandazioni ed esortazioni, auspicando la manna del cielo e l'intenerimento dei cuori di quelli che sono i padroni de! mondo.
Chiediamo altro: che la Chiesa operi un giudizio sulla giustizia e ingiustizia nel mondo esattamente come l'ha operato Gesù, storicamente, sulla giustizia e l'ingiustizia del suo tempo e attraverso quel giudizio (Lui che è Dio) offrendo criteri e termini alla Chiesa per un giudizio storico in ogni tempo sulla giustizia e ingiustizia nel mondo.
Altrimenti viene in mente, inevitabilmente, Pilato che con tutto il suo giuridicismo e tatticismo arriva a lavarsene le mani sulla giustizia e ingiustizia e risolve, mettendosi l'animo in pace, con un «pensateci voi».
E il Cristo di tutti i secoli che sono le vittime dell'ingiustizia continua a morire di fame, di dissanguamento nei paesi sottosviluppati, di sfruttamento nelle miniere e nelle fabbriche, nel fondo delle prigioni, sui banchi di tortura, appiccati ad un patibolo, fucilati come erba falciata, umanità carne da macello se non accetta di essere animale da soma, vinti e schiacciati e disumanizzati dal bisogno della carota ci dalla paura del bastone.
Ma il documento conclude questo assurdo secondo capitolo sulla giustizia alla luce del Vangelo, con la materna e classica soluzione esortativa «la Chiesa esorta i cristiani ad adempiere con sollecitudine e fedeltà i compiti terreni a loro affidati, né approva (!) il modo di agire di coloro che, col pretesto dei beni della città eterna, trascurano i doveri umani. Il cristiano infatti che diserta gli obblighi terrestri, viene meno ai suoi obblighi verso il prossimo e soprattutto verso Dio e pone in pericolo la sua salvezza eterna». E pare che sia un discorsino fatto da una madre superiora particolarmente aperta e sensibile ai problemi sociali, alla sua comunità di suore addette ad un asilo infantile.
Non è facile e semplice (e noi vorremmo tanto che la chiesa gerarchica che si riserva con esclusivismi così pesanti la responsabilità della pastorale - rapporto fra Dio, Gesù Cristo, l'umanità... - nel mondo, se ne preoccupasse di questo presentarsi e tentare di essere presente nella storia del nostro tempo così carica di ricerche e di esigenze di liberazione e di giustizia) non è facile e non si riesce, nemmeno con l'atto di fede-occhi chiusi, ad accettare e condividere questo modo di porsi di fronte al terribile» bruciante problema della giustizia e dell'ingiustizia nel mondo, come si dichiara al n. 25 dello stesso capitolo della giustizia alla luce del Vangelo.
«La Chiesa di Cristo desidera servire i singoli uomini e tutto il genere umano e deve guardare questo servizio con umiltà incessantemente rinnovata: con quella umiltà cioè che promana dalla forza e dalla debolezza del proprio compito pastorale. La chiesa infatti può sentirsi debole e povera non avendo accesso al potere tecnico, economico o politico che costringono ad agire in un determinato modo; ma si sente anche forte perché possiede la forza di Cristo, forza che illumina di luce evangelica la coscienza degli uomini e le loro reazioni e azioni personali e comunitarie».
C'è soltanto un grosso problema, risolvibile unicamente uscendo insolitamente da un equivoco che ormai dura da troppo tempo: che si manifesti finalmente, se c'è, questa debolezza senza umiltà ma semplicemente con sincerità e prorompa chiara e appassionata quella forza di Cristo con tutta quella violenza liberatrice nell'uomo fino alle misure dell'essere gli uomini figli di Dio e fratelli dell'unica famiglia di cui Dio è Padre.
Allora la Chiesa sarà giustizia nel mondo capace di gettar luce anche negli angoli più oscuri e tenebrosi dove si annida e trama l'avvelenamento del mondo, l'ingiustizia.
Respingiamo tutto il resto dello schema come si respinge un piatto a tavola che è stato ammannito ormai troppe volte. Ma particolarmente respingiamo l'ultimo capitolo, il quarto, «Linee per l'azione».
Se questa è l'azione per la giustizia nel mondo che il Sinodo dei vescovi proporrà alla chiesa, allora c'è sinceramente da sgomentarsi, se non proprio da disperarsi.
Ma forse tutto è perché rimanga l'unica Speranza che è lo Spirito Santo. Ma non però come rifugio e un arrendersi ad una rassegnazione passiva e quindi assurda, ma piuttosto per un aprire di più il cuore e disporre l'anima alle indicazioni e alle spinte di violenza di Amore che lo Spirito Santo riversa, nonostante tutto nella Chiesa e nella storia dell'umanità.
Per essere preparati e pronti a giocare tutto di noi nel Regno di Dio che sicuramente viene ad ogni giorno che passa e che porta con sé la vera giustizia a realizzarsi fra gli uomini.


La Redazione

La trave nell'occhio

Di fronte al fatto che un certo numero di vescovi, in rappresentanza di tutto il «collegio apostolico» sparso nel mondo intero, si riunirà a Roma in un sinodo per affrontare il problema della «giustizia nel mondo» - con l'intenzione esplicita di fare di questo approfondimento un impegno per tutta la comunità della Chiesa - mi ha richiamato alla mente l'avvertimento severo di Gesù: «Come puoi dire al tuo fratello: «Fratello, permetti che ti levi il bruscolo che hai nell'occhio», tu che non vedi la trave che hai nel tuo?» (Luca 6, 42).
Rimane veramente difficile credere che da una Chiesa - intesa nella sua totalità e in tutte le sue molteplici ramificazioni - legata ancora così tanto al «regno dell'ingiustizia», possa venir fuori un discorso - seguito poi da fatti - che sia onesto e soprattutto fondato unicamente sulla forza dirompente del Vangelo.
Soprattutto è impossibile non provare l'impressione di un «gioco amaro» che viene portato avanti sulla pelle degli altri, quando non ci si ponga davanti al primo dovere di una «conversione radicale», di una rottura da operare prima all'interno della propria costruzione appoggiata su tante pietre che non sono il Cristo.
L'onestà di un discorso sulla «giustizia» proposto da vescovi cristiani, da «inviati di Dio» è misurabile solo in base ad una seria volontà di liberazione da tutto ciò che struttura la comunità cristiana - a diversi livelli - in una realtà di ingiustizia permanente che si risolve in complicità storica con l'ingiustizia del mondo.
Ulna chiesa che ancora una volta - il passato è pieno di esortazioni, di parole, di raccomandazioni - si rivolgesse attraverso i suoi Vescovi al «mondo» denunciandone le spaventose ingiustizie della guerra, dello sfruttamento, dell'odio razziale, dell'idolatria del denaro, dello schiacciamento dei poveri da parte dei potenti e dei ricchi di ogni specie, senza prima spezzare visibilmente le catene che la legano e in certi casi la confondono con quel mondo che condannerebbe, una chiesa simile non potrebbe non essere accusata di fariseismo, di ipocrisia, di «oppio del popolo e di Dio».
Prima di accingerci - com'è dovere cristiano urgente e irrinunciabile - a togliere dagli occhi dei nostri fratelli «ingiusti» il bruscolo, la trave, o la montagna che oscura il loro occhio, è assolutamente necessario - è serietà di Fede in Dio, in Gesù Cristo - ripulire il nostro occhio cristiano di tutto il gravoso peso con cui la storia l'ha oscurato, fino a fargli perdere lo splendore e la chiarezza liberante del Vangelo.
Sembra evidente che in nome di quella «Giustizia» di cui parla il Vangelo e che Gesù Cristo ha proclamato nella concretezza della sua storia, dalla nascita, alla Croce, alla Resurrezione - e che è appunto la «Giustizia» di cui 'intero Corpo della Chiesa deve rendere testimonianza - debba avvenire un processo di separazione all'interno della comunità fra ciò che è valore di Regno di Dio e tutto quello che essa ha preso dal regno del potere, della forza, del privilegio, della ricchezza di ogni genere.
Non si può ormai più accettare l'esistenza, nella struttura visibile della chiesa, di una serie di FATTI che contraddicono con lo spessore della loro concretezza storica qualunque annuncio in nome di Dio, ma che anzi lo rendono disprezzabile e inaccettabile da chi cerca seriamente la Verità: c'è una «chiesa» ancorata a realtà così assurde dal punto di vista cristiano, che ne fanno addirittura una argomentazione di ateismo, e una prova di come possa divenire alienante dalla vita il mondo religioso che essa vorrebbe offrire.
Questi «fatti» che fanno parte del tessuto storico della chiesa cattolica e che ne formano l'ossatura non cristiana e che quindi ci pongono in stato di «ingiustizia» di fronte al pensiero di Dio e agli occhi dei fratelli sono purtroppo assai evidenti:
(1) L'esistenza dello Stato Vaticano, con tutte le sue conseguenti ramificazioni economiche, politiche, diplomatiche, ecc..
(2) Il sistema dei Concordati (Italia, Spagna...) con tutti i tentativi a livello «civile» di una contrattazione per assicurarsi una «pace» evangelicamente assurda, privilegi e un «potere» effettivo all'interno dello Stato per coloro che, invece di profeti, sacerdoti, apostoli, sono finiti per diventare la «casta clericale».
(3) Il legame stabilito - qui da noi in modo inequivocabile - col mondo della scuola e con quello militare: per un falso concetto «pastorale» l'annuncio del Vangelo è scaduto a livello di un «mestiere» ed è diventato sostegno di un sistema oppressivo delle coscienze e alleanza pratica col più forte.
(4) Il modo di vivere della quasi totalità dei preti e dei vescovi, legato direttamente ai fatti sopra elencati, con la conseguenza di una sistemazione economica dipendente dallo Stato, di una «soggezione» al potere civile (vedi nomina dei vescovi, istituzione civile della parrocchia, ecc.), di un inserimento nel sistema della proprietà capitalistica e quindi di sfruttamento (proprietà di terreni, case, azioni).
Dai vescovi che si riuniscono per annunciare il messaggio della «giustizia nel mondo» noi attendiamo prima di tutto ed essenzialmente questo atto di cristiano coraggio e di Fede autentica e incarnata: prima di indicare il carico amaro dell'ingiustizia tra i fratelli, bisogna che essi - in nome del Vangelo di cui sono annunciatori e di Cristo di cui sono schiavi - abbattano con la forza nascente dallo spirito di Libertà i muri d'ingiustizia entro i quali la Chiesa - a certi livelli - si è barricata e sistemata.
Da essi, in fondo, attendiamo un'unica cosa: che dimostrino di essere uomini che prendono sul serio Gesù Cristo e che quindi non possono più sopportare che esista una Chiesa immersa nel labirinto dello sfruttamento, legata tramite il denaro ai potenti, ai forti, agi uomini del «potere», alleata e complice degli assassini autorizzati e legittimi quali sono gli uomini del mondo militare, di chi organizza lo schiacciamento dei fratelli mediante la forza delle armi, il sistema poliziesco, la repressione politica.
Vogliamo che finisca - e i vescovi lo devono annunciare, insegnare, proporre fortemente - tutta una presenza cristiana, sacerdotale, a benedire, incoraggiare, tenere in piedi strutture, meccanismi, «mondi» oppressivi e ingiusti: essi hanno il dovere e il diritto di riaccendere la violenza del fuoco che Gesù Cristo è venuto a far divampare sulla terra.
Non abbiamo affatto bisogno che essi ci indichino i «nomi» di cui si veste l'ingiustizia che incatena ancora milioni di uomini e li spezza sotto il giogo di mille oppressioni diverse: questi nomi ormai sono conosciuti da tutti, da quelli che li adoprano e da quelli che li subiscono. (L'elenco siamo noi che purtroppo possiamo offrirlo alla loro meditazione: guerra - sfruttamento - torture - dittatura - fame - razzismo - imperialismo - capitalismo...).
Da essi attendiamo l'offerta concreta di una proposta che liberi la Chiesa in ogni aspetto della sua « struttura » visibile, storica, dai compromessi con l'ingiustizia; attendiamo un atto di «rottura» da tradursi all'interno di ogni comunità, di ogni «chiesa locale», di ogni parte del «Corpo di Cristo», dalla Chiesa di Roma a quella nell'angolo più sperduto della terra.
Un atto di «rottura» che sia prova eloquente in se stessa, nel suo stesso compiersi che il Regno di Dio non è un'utopia, un sogno vuoto, un mito sterile, ma l'acqua viva che garantisce all'intero tessuto della storia umana la fecondità e la salvezza.
Se non saranno capaci di questo «segno» la loro opera assomiglierà - come tante volte è accaduto - a quella di coloro che chiusero il Cristo nella tomba.


don Beppino

Un prete uguale per tutti


Sono molti a credere che la crisi del prete si identifichi con la perdita di un suo ruolo specifico in mezzo agli uomini. Da una posizione chiara e indiscutibile si è lentamente confinati su posizioni ambigue: una nota sempre più stonata, sempre meno sopportata.
Da qui tutto uno sforzo per recuperare il terreno perduto e ritrovare la precedente condizione.
Fino ad ora il prete era ministro di un signore potente e conosciuto. Come tale godeva di diversi privilegi che insensibilmente sono divenuti, almeno di fatto, dei veri e propri diritti (comunque pretesi come tali). Ora che la potenza rappresentata è resa insignificante agli occhi degli uomini (ed è terribile pensare alla responsabilità di questi ministri), il problema è quello di conservare il proprio stato e di non essere, a loro volta, svalutati agli occhi di tutti. Gente incapace di capire che un rovesciamento di posizione può nascondere la volontà del signore di essere rappresentato in ben altro modo.
Per esempio una delle cose date per scontate e che costituivano un preciso punto di riferimento, era il fatto che il prete fosse uguale per tutti. Dispensatore della giustizia divina era accolto come arbitro nelle questioni più diverse sia da chi rifiutava, per proprio tornaconto, ogni confronto diretto, sia da chi, vivendo nell'ignoranza, temeva la virtù sacra delle leggi. Cresceva cosi questa figura più che rivestita, direi corazzata di neutralità con tutta una serie di attributi, di qualifiche, di particolarità che la estraniavano dal mondo degli uomini per darle un alone di purità. Una neutralità evanescente, destinata ad essere assorbita dal polo di attrazione della proprietà e quindi del potere; senz'altro il polo più forte.
Cosi nello stretto rapporto di servitù instaurato nel M. E. tra suddito e principe. Ed ancor più nell'epoca moderna in cui il prete si è inserito addirittura in uno strato ben qualificato della società: la borghesia, il ceto medio, facendo così una cosciente scelta di classe ben motivata da una precisa fedeltà ad un ruolo di neutrale mediazione.
Venivano fuori le figure di preti tesi a sanare la divisioni tra famiglie e tra paesi, nonostante costasse il sacrificio delle persone più deboli, e, nella tensione sociale nascente, le campagne e i sobborghi venivano disseminati di immagini di Madonne Addolorate e di Cristi sul Calvario. La umiliante sopportazione dei poveri e il furbo silenzio dei ricchi erano le richieste di questo mediatore di pubblica tranquillità che, in molte occasioni, è stato il prete.
La Risurrezione, prima di essere un mistero perduto nei cassetti dei teologi, è stata la grande realtà assente nella fede e nell'annuncio della Chiesa di questo periodo. La Risurrezione dimenticata: quasi a significare lo sforzo per impedire ogni novità di vita capace di rovesciare lo equilibrio faticosamente raggiunto.
E l'equilibrio si è rotto. Non per la forza della fede, ma per l'inarrestabile cammino della storia. E' difficile essere l'uomo di tutti in una realtà sbriciolata come quella d'oggi. Il pianto sommesso dei poveri è divenuto il boato di una folla che non si riconosce più nei cuori trafitti. I ricchi non si fidano più di una Chiesa già monolitica nelle sue manifestazioni ed ora incapace di reggere al dubbio e all'opinabilità.
E' duro per questo poveruomo che è il prete, essere uguale per tutti.
Spera di poter legare tra loro padri e figli, ed è sopraffatto dalla richiesta di soddisfazione e di sistemazione. Sogna di poter essere punto di incontro tra ricchi e poveri, e si scontra con una sempre maggiore politicizzazione di rapporti. Si rompe la testa contro quel gran muro che è il sistema richiamandosi alla coscienza personale quando è quella stessa coscienza addormentata dai precetti e dalle leggi, svuotata dalla mancanza di ogni responsabilità in ordine alla fede.
Sarebbe povero tra i poveri questo prete carico di insuccessi se accogliesse questa nuova condizione di impotenza. !'
C'è invece chi non si rassegna e cerca impossibili recuperi, cedendo inevitabilmente sempre più al potere e alla forza del denaro che si infiltra sottile ad avvelenare ogni ricerca che non sia totalmente disinteressata.
E' duro perdere ciò che ci appartiene di «diritto», e soprattutto la posizione che di «diritto» ci si è conquistata davanti agli uomini. E' duro per un prete operare una scelta precisa in ordine ad una realtà di povertà. Come per un impiegato dover lavorare con le mani.
E' duro, ma ordinato ad una indicazione del Vangelo che non lascia dubbi: la scelta di Gesù per la vera giustizia.
Gesù si è incarnato ed è vissuto in una condizione umana di chiara povertà. Come ogni scelta di Gesù anche questa non è fine a se stessa. E' scelta di una situazione umana di ingiustizia perchè diventi, in tal modo, in quanto condivisa da Dio, situazione di vera giustizia. E' scelta di tale condizione, non per un rivestirsi di virtù, ma in ordine ad una chiara relazione di fede, perchè la povertà è la più grande affermazione esistenziale della presenza di Dio come Colui che è Tutto, in opposizione alla ricchezza che, in questo senso, è altrettanto chiara indicazione di un calare di fede.
Se il sacerdote è segno di Cristo nella totalità della Sua esistenza e deve riprendere i valori accolti da Cristo per offrirli con la propria vita, si trova davanti la scelta della povertà come il valore iniziale. Una povertà globale che abbraccia con uno sguardo di fede ogni frammento della propria vita perchè sia sempre più precisa indicazione che Gesù è il Signore.
Questa scelta va resa concreta ogni giorno di più per un precisarsi sempre crescente, fino ad accogliere oggi il problema di una scelta di classe, non per una opzione politica, ma per motivi di fede avendo riscontrato la coincidenza tra una classe e la condizione umana di povertà.
E' su questa strada che il sacerdote può veramente essere uguale per tutti. Non uguale nel senso della giustizia amministrata dagli uomini, ma uguale per una spinta di amore che raggiunge tutti per una totale comunione di fratelli.
Uguale non perchè tende all' equidistanza, ma in quanto fa suo l'estremo in stato di ingiustizia perchè possa essere accoglienza totale di giustizia.
Uguale non perchè sogna un astratto interclassismo, ma in quanto opera una scelta concreta motivata dalla fede, allungata a tutti nell'amore, resa presenza assoluta di Dio nella condizione di povertà.
don Luigi


Chi sono gli autori degli scandali, se non quelli cui accenna l'Apostolo Paolo quando scrive: «Essi fanno i loro interessi e non quelli di Gesù Cristo».
S. AGOSTINO

La condizione operaia condizione d'ingiustizia

Come sacerdoti che vivono una vita di lavoro, ci è sembrato un dovere dire qualcosa sulla condizione operaia.
Sono riflessioni semplicissime, pensieri sparsi, che non hanno davvero la pretesa di esaurire un argomento cosi grosso tantomeno di presentare delle ricette per una soluzione.
Sinceramente, ci sembra di balbettare. Ma ci è parso giusto cercare di dire chiaramente, anche se in maniera incompleta, su quali linee vogliamo impegnarci perchè il mondo operaio sia sempre più radicato nella Giustizia.
Vivendo di un lavoro operaio, come salariati, è subito evidente il fatto di trovarsi dentro un sistema dove l'ingiustizia è una condizione permanente, continua.
La giustizia esiste come aspirazione, come desiderio profondo, come molla potente di tutta una lotta: le sue conquiste sono sempre frutto di una dura fatica, come una strada aperta nel vivo della roccia.
Il mondo operaio, - in genere tutto il mondo del lavoro - ricerca, dal profondo della sua storia, una soluzione che sia di autentica «giustizia», una risposta a ciò che di più vero e di più bello matura e cresce nella coscienza di ogni uomo.
Noi pensiamo di poter offrire onestamente la nostra testimonianza di sacerdoti che vivono nella condizione operaia, denunciando in nome di Gesù Cristo, figlio di Dio e fratello di tutti, il carico d'ingiustizia che i sistemi della nostra cosiddetta civiltà impongono alle spalle dei poveri.

SFRUTTATORI
La grossa ingiustizia del mondo operaio - quella più evidente e più pesante - è di essere in mano a tutta una serie di uomini (individui e gruppi) che approfittano del loro potere economico per arricchirsi col sudore degli altri.
Il «padrone» o i «gruppi azionari» sono l'anello più grosso della catena che inchioda al ceppo dell'ingiustizia tutti coloro che vivono di un lavoro salariato: in nome di un presunto «diritto di proprietà» - che non è altro che legge del più forte - essi sfruttano il lavoro, la fatica, i rischi, l'intelligenza, l'iniziativa di quelli che essi trattano come i loro servi.
Considerano «propria» la fabbrica, il cantiere, la azienda, che invece è di tutti quelli che vi operano: il fatto di possedere denaro li autorizza a disporre a loro piacimento della produzione, degli orientamenti commerciali, delle assunzioni, dei licenziamenti, dell'economia dell'azienda.
Il guadagno venuto fuori da tutta una fatica e uno sforzo comune, finisce nelle loro casseforti private: sono ladri, autorizzati legalmente a rubare.
E' logico che per reggere un simile sistema essi hanno bisogno di numerosi «Fedeli servitori» - che non mancano in nessuna azienda - pronti a ragionare non in base alla loro coscienza di uomini, ma unicamente in forza dell' interesse, della «ragion di stato», dello egoismo.
Tutto questo contribuisce a rendere il luogo di lavoro una "caserma" circondata di cancellate, recinti: un posto dove non si va volentieri, consapevoli di compiere un'opera di libera e responsabile partecipazione allo sviluppo della vita, della creazione, del progresso; ma dove si entra come sotto un giogo, spinti dalla necessità del pane quotidiano.

SFRUTTATI
Il grosso del mondo operaio e salariato è fatto di un intero popolo sfruttato: uomini e donne (con le loro famiglie alle spalle) che sono derubati della loro dignità, della libertà, del rispetto, dei frutti delle loro fatiche quotidiane.
La fabbrica, l'azienda, il laboratorio è di loro, proprietà comune, e attraverso di loro è dell'intera comunità umana che essi sono chiamati a servire e a far sviluppare. Invece che primi artefici del lavoro, essi si ritrovano ad essere numeri di un sistema che sfugge loro di mano e finisce per schiacciarli fisicamente e moralmente e spesso li rende complici del sistema che li sfrutta a causa dell'attrattiva potente del «dio quattrino».
La nostra scelta è di stare con loro, di vivere come loro, di essere di loro: tra chi sfrutta e chi è sfruttato la scelta cristiana è chiara e indiscutibile. Vogliamo assumerci il peso di questa condizione per mettere dentro questo popolo di cui siamo orgogliosi di poter far parte la forza del lievito di Cristo, la spinta rivoluzionaria dell'amore di Dio, il soffio della Libertà e della Giustizia di colui che è Padre di tutti e vuole tutti fratelli.

LOTTARE
Questa situazione di «ingiustizia radicale» va combattuta: non può essere accettata, «giustificata», benedetta. Esiste da tanti secoli la «lotta di liberazione» dalla schiavitù: essa è un dovere, un atto d'amore allo uomo, alla sua dignità di creatura e di figlio di Dio.
Il mondo del lavoro conosce bene questa lotta: la porta avanti da tempo, l'ha pagata con prezzi durissimi, anche di vite umane. Essa ha il sapore amaro del sangue, del carcere, delle percosse. E' la storia di una speranza senza fine.
Forse oggi, nel nostro mondo occidentale, in questa civiltà spesso cosi assurda e cosi venduta al denaro, questa lotta rischia di finire in una pura rivendicazione economica, per una migliore sistemazione dentro la struttura del sistema.
E' chiaro che questa lotta contro la «radice» del male, va fatta insieme, con unità, con partecipazione cosciente di tutti.
Ci sono obiettivi chiari di questa lotta, per i quali vogliamo offrire il nostro contributo e il nostro impegno, a seguito dei valori scoperti nel Vangelo.
1 ) - Il «padrone» (individuo o gruppo) deve sparire dalla vita operaia. Un uomo non può essere padrone di un altro, del suo tempo, della sua intelligenza, della sua fatica.
2 ) - La fabbrica, l'azienda, deve essere una «comunità di lavoro», dove tutti sono ugualmente responsabili e partecipi. La fabbrica è di tutti: tecnici, operai qualificati, manovali, impiegati. Non devono esistere categorie o «classi» all'interno, ma solo una divisione di competenze.
3 ) - Le assunzioni, i licenziamenti, l'orientamento produttivo, le modifiche del lavoro sono tutte decisioni da prendersi attraverso la riflessione comune.
4 ) - Il guadagno netto deve essere diviso fra tutti in parti uguali.
5 ) - Il lavoro deve acquistare il suo vero senso di partecipazione creativa al progresso umano, di costruzione del mondo, di servizio all'intera comunità umana. Pur nella fatica, nel rischio, nelle difficoltà che esso comporta, l'uomo che lo fa non dovrà aver l'impressione d'essere uno «schiavo» che vive in una prigione, più o meno dorata. Il lavoro ha una sua armonia, ha bisogno di tempi di riposo, di soste, di pause.
La «produzione» non deve essere la prima e quasi esclusiva regola del lavoro operaio.
Dire queste cose è come raccontare un sogno; ma poiché certamente questa è la «Giustizia» a cui il mondo operaio ha diritto, lottare per renderlo realtà è semplice e urgente dovere di fedeltà all'uomo e a Colui che l'ha creato non perchè fosse schiavista o schiavo, ma libero e fratello di tutti.



Mario, Giuseppe e Beppino


Giustizia e ingiustizia nel Vangelo

Anche questa volta la nostra testata «La voce dei poveri» si trova, come già nel numero precedente dedicato al Sacerdozio, ad essere espressione di tutto un problema. Mai come in queste pagine vorremmo essere responsabilmente voce dei poveri.
Perché quando si tratta, di giustizia nessuno ha diritto alla parola, ad avere una voce fino a potere e dovere gridare sui tetti come e quanto i poveri.
Chi può dir qualcosa intorno alla giustizia è chi ha sempre sofferto l'ingiustizia, è chi è stato oppresso e schiacciato dall'ingiustizia.
Chi ha diritto perché bisogno estremo, immediato, irrimandabile di aria buona, di ossigeno, è chi è come un affogato in mare, chi ha da sempre il cappio al collo dell'impiccato.
E' lo schiavo che può dir qualcosa su cos'è la libertà e può indicare in cosa consiste la sua liberazione: dove finisce la sua schiavitù e dove si inizia la sua libertà.
E' l'affamato che sa bene cosa vuol dire la fame e fino a quali misure può arrivare il suo bisogno e il suo diritto a mangiare.
Che i poveri siano l'ingiustizia è constatazione chiara, lampante. Anche se ne è convinto e ne sa qualcosa perché la subisce e ne è schiacciato soltanto chi è povero.
Semmai bisognerebbe chiarire chi è che è povero e in cosa consista la povertà e dove e quando è povertà che porta in sé, quasi connaturata e diventata tutt'uno con questa povertà, l'ingiustizia.
E qui, come è sempre successo, il discorso può diventare complesso, artificioso, intellettualistico, furbesco e spaventosamente penoso, specialmente perché viene sempre fatto da chi sta bene, da chi ha un presente e un avvenire sicuro, poggia il suo esistere su solide basi e la sua tavola da pranzo su gambi sicuri.
Il povero: ma chi è povero? E piovono giù le distinzioni, le precisazioni, le argomentazioni più impensate e più gratuite fino al punto che va a finire che i poveri sono dei fortunati nella vita e i ricchi invece dei poveracci che devono portare il peso del mondo sulle spalle con la fatica di dividerselo fra loro e l'incombenza di darne le briciole agli altri: ai poveri, per esempio, i quali sono i fortunati che hanno per destino sempre quello di ricevere mentre i ricchi hanno per destino sempre quello di pagare e qualche volta anche di donare.
Ma lasciamo andare e torniamo alla giustizia. Si diceva che i poveri sono l'ingiustizia. E se questo è chiaro si deve concludere che i ricchi sono la giustizia. E questa affermazione è così vera che nella storia i ricchi, i potenti, si sono, oltre a tutto, accaparrati anche la giustizia fino al punto che ogni attentato (di qualsiasi specie) a loro e ai loro privilegi è sempre stato considerato e giudicato e quindi trattato come un'ingiustizia (anche dai manuali di storia delle scuole, oltre che dai trattati di morale in mano al clero fino ai nostri giorni).
Il risultato è che i ricchi, i Mammona (per intenderci con parola riassuntiva del Vangelo) hanno sempre avuto anche la ricchezza della giustizia (e la migliore e più facile possibilità della "carità"), i poveri (quelli che sono indicati con parola «beati» nel discorso della montagna di Gesù) sono sempre rimasti più poveri anche perché a loro riservata e ormai connaturata è diventata l'ingiustizia, fino al punto che qualsiasi cosa facciano per respirare, per svincolarsi dal collo il cappio, è stata sempre giudicata e quindi sistematicamente trattata da tentativo ingiusto e cioè come una vera e propria ingiustizia, da «giustiziare» sempre in ogni modo e senza scrupoli.
In fondo - e è constatazione amarissima - questo mondo conosce e apprezza e accetta soltanto un solo passaggio obbligato, un'unica via, una sola possibilità di arrivare dall'ingiustizia alla giustizia: non essere più poveri e diventare ricchi.
Perché è la ricchezza, secondo il criterio comune dei ricchi e dei poveri (e degli ecclesiastici) che decide circa la giustizia e l'ingiustizia.
Quindi - e la conclusione è sconcertante, ma disgraziatamente anche troppo evidente - l'ingiustizia è la povertà (e più ancora proporzionalmente la miseria) e la giustizia è la ricchezza.
Ciò che Gesù Cristo ha rovesciato (e lo scandalo è stato gravissimo e gli è costato la Croce e ogni volta che questo scandalo avviene è sempre a prezzo di croce, pagato in un modo o in un altro) ciò che Gesù Cristo ha rovesciato (rivoluzionato, si direbbe oggi) è che insieme alla povertà Lui ha unito la giustizia e tutt'uno con la ricchezza (in tutto quello che ricchezza è e comporta) Lui ha considerato, giudicato e condannato l'ingiustizia.
Gesù Cristo e cioè il suo essere Dio che ha «annientato» fino all'obbedienza e all'obbedienza della Croce (povertà totale, suprema). Come uomo fino a respingere la ricchezza come Satana. E a scegliere per sé (e per i suoi) la povertà più sconcertante, dalla stalla di Betlem alla nudità della Croce.
Gesù Cristo della Fede cristiana: il servo-Figlio di Dio, l'Amore totale per ogni uomo, per tutta l'umanità.
Lui solo può dichiarare dove è giustizia e ingiustizia.
Chi è giusto e chi è ingiusto.
E nel Vangelo si annuncia con estrema chiarezza: ingiustizia la ricchezza nei confronti di Dio, come contrapposizione a Lui, come alternativa letteralmente paragonabile ad un fatto idolatrico di fronte al quale è giocoforza scegliere, perché è inevitabile, che si adori l'Uno e si disprezzi l'altro e viceversa.
Ingiustizia la ricchezza nei confronti del prossimo in quanto affermazione egoistica: e cioè radicale annullamento dell'«altro» fino a non accettare di non essere prossimo all'altro: e questo «altro» è nientemeno che fratello, a tutti i livelli: dall'avere in comune il Padre fino al prezzo di pane, al bicchiere d'acqua, il vestito ecc.
Cristianesimo è la condanna e la respinta di questa ingiustizia e l'affermazione della giustizia che arriva fino alle misure dell'Amore: Amore a Dio e all'uomo. E qui è l'unico comandamento, questa è la Volontà di Dio, qui sta la verità e la dignità dell'essere umano. Questa è la legge. (Che sono tutte le altre leggi se non per sistemare l'ingiustizia in parvenze di giustizia?). E qui stanno tutti i profeti (evidentemente non gli avvocati, i professori di diritto, i sistematori della morale legalitaria, ecc. e nemmeno le cosiddette forze dell'ordine, i tribunali, i giudici sempre trovabili per rendere giustizia in base e in forza di leggi appositamente emanate perché sia giustizia l'ingiustizia: è spaventoso e orribile nella storia questo far le leggi capaci e fatte apposta per rendere giustizia l'ingiustizia, giusta la violenza, la repressione, la schiavitù di popoli, lo sfruttamento, l'affamamento, l'assassinio politico ecc.) e ingiustizia la lotta di liberazione, l'abolizione di privilegi, la difesa della dignità dell'essere umano, l'uguaglianza fra i popoli, la pace nel mondo, ecc.
Non per nulla è Lui, Gesù Cristo (quello che sdolciniamo sacrilegamente in immagini irriconoscibili di parole e di dottrine devozionali e alienanti e in figurazioni spesso oscene di una religiosità sentimentale) è Lui, Gesù Cristo che giudicando e giustiziando tutti i criteri di giudizio della storia, tutti i codici zeppi di leggi del giuridicismo di dominio di tutta l'umanità, tutti i tribunali rizzati su dall'interesse maledetto d'imporre e di mantenere l'ingiustizia come giustizia, giudicherà il mondo, l'umanità e tutta la sua storia, nell'ultimo giorno (ma ogni sera è l'ultimo giorno).
Non sarà un giudizio sull'Amore fra gli uomini come normalmente si dice e si predica, ammorbidendo sentimentalmente anche il giorno del giudizio universale e le norme che questo tribunale supremo e senza appello userà come criterio assoluto.
Questo giudizio sarà sulla giustizia e l'ingiustizia rovesciando (già come nelle Beatitudini, ma allora come indicazione struggente di Amore e ora come implacabile risoluzione definitiva) rovesciando le parti fino al punto che la povertà (il non possedere nulla, ma l'essere stati derubati di tutto) è di per sé giustizia e il tribunale non è per ciò che è già giustizia. E così tanto giustizia che quella povertà il giudice la identifica con se stesso.
Per la ricchezza è il tribunale, per la proprietà, il possesso, il dominio, la padronanza...
E non sulla «carità» di aver dato qualcosa o no. Ma sull'avere o no mantenuto questa posizione ingiusta del possedere e del tenere per sé o no. Dal separare gli altri dal «tuo» e quindi da te o dal metterli a partecipare del tuo e quindi di te.
Insomma il giudizio sarà sul mantenimento o sul superamento del divisorio così invalicabile del mio è mio e anche ciò che è tuo (il pane, l'acqua, il vestito, ecc.) è mio.
E sarà un bruciare con fuoco inestinguibile (perché definitivamente la giustizia sarà giustizia) la ricchezza, la proprietà, il dominio, l'egoismo, il classismo, il razzismo... con tutto l'apparato così sapientemente e prepotentemente organizzato perché questa spaventosa ingiustizia sia sempre potuta mascherarsi di giustizia.
Ma l'ultimo giorno è perché si sappia come dev'essere ogni giorno.
Il cristiano, quello nato a Betlem in una stalla e morto nudo sulla croce e risorto ogni volta che mangia e bene della Resurrezione di Cristo, il cristiano non può non portare nel suo destino l'indicazione esatta della giustizia e della ingiustizia colta nel Cuore di Cristo e imparata nelle Beatitudini e in ogni pagina del Vangelo e lottare perché avvenga nella storia il giudizio dell'ultimo giorno perché questa lotta è Amore ai fratelli come è vero che «l'unica Carità che si può avere per i ricchi è costringerli a passare dalla cruna dell'ago». Perché è di lì unicamente che possono entrare nel Regno dei Cieli.
I Segni dei tempi e ormai non più soltanto i segni ma la realtà dei tempi nei quali viviamo e sicuramente molto di più in quelli che verranno, dichiarano che il discorso sulla giustizia e sull'ingiustizia non corre più lungo le leggi, i codici, i legislatori, ecc. secondo cioè i millenni di storia che hanno stabilito, con una carenza impressionante di secolo in secolo, di regime in regime, di civiltà in civiltà, di codice in codice, una linearità mai interrotta anche se temporaneamente spezzata, da movimenti, ribellioni, rivoluzioni, scontri e guerre fino ai nostri giorni (spezzata ma immediatamente ricucita) una linearità codificante perpetuamente la giustizia in base e a seconda del diritto vigente (sempre quello della potenza, della forza, della ricchezza, della proprietà, del possesso, ecc.).
Questa giustizia a misura d'uomo, di regimi politici ed economici, di potenza e di ricchezza, di privilegi e assolutismi... sta andando sempre più in crisi. E la conservazione (qualsiasi denominazione abbia - da qualsiasi forza sia sostenuta) fatica a vuoto, nonostante tutto a mantenere l'impalcatura sulla quale fin qui la giustizia ha dettato le sue leggi per dichiarare in arresto l'ingiustizia e condannarla.
E' difficile sapere o intuire su quali basi, con quali criteri, su quali forze sarà possibile contare perché realmente una buona volta il rovesciamento si compia, la nuova giustizia capace di rendere giustizia a tutto ciò (e i valori s'iniziano alla radice dell'uomo e corrono per tutto l'arco dell'esistere umano) che fin qui da sempre ingiustamente è stato giudicato - con tutte le conseguenze fino alle più spaventose - ingiustizia.
Noi cristiani però sappiamo bene chi questa rivoluzione ha iniziato, predicato, sostenuto fino alla Croce.
Noi cristiani conosciamo bene (o almeno si dovrebbe) quell'unica legge che stabilisce in termini inequivocabili (nonostante gli studi degli studiosi e le sbriciolanti e confusionistiche chiarificazioni dei canonisti e dei moralisti) cos'è la giustizia e l'ingiustizia e dove si annida la cosiddetta giustizia e dove abita di casa come inquilina permanente la cosiddetta ingiustizia.
Si tratta semplicemente di chiudere una storia di equivoco e di compromessi in cui risulta molto dolorosamente che Gesù Cristo non è una precisa concreta giustizia che nasce insieme al suo nascere da Dio e, nel tempo, dal suo nascere da Maria, fino a poter guardare a Lui come alla giustizia prima e assoluta, fino ad essere capace di rendere giusti tutti gli uomini (salvati cioè dall'ingiustizia davanti a Dio e davanti agli uomini col suo essere l'Amore che viene da Dio e si dona a tutti gli uomini) e tutti gli uomini costituisce figli di Dio e fratelli fra loro.
Si tratta semplicemente di cancellare l'equivoco circa la sua parola (la Parola che Lui è e la parola che Lui esprime e grida) interpretata così disinvoltamente come esortativa e devozionale, offendendo in questo modo a morte la Sua Parola che è Parola di creazione dell'uomo nuovo, della nuova esistenza, quella nata dall'acqua e dallo Spirito Santo.
Diversamente ogni possibilità di presenza incisiva, creativa, che sia veramente salvezza e cioè liberazione totale dell'uomo, il cristiano e tanto più la Cristianità, la sta progressivamente perdendo e in maniera irrecuperabile, storicamente parlando.
Vi sono occasioni nella storia che a perderle non si ritrovano più e segnano perdite imperdonabili di doni di Dio e di miracoli di Spirito Santo.
Anche la storia della Chiesa (cioè della continuità visibile del Mistero di Cristo nel mondo, della testimonianza della sua Risurrezione e quindi nel suo essere vivo e vivente fra gli uomini) anche la Chiesa nel suo camminare si trova davanti ad un crocevia: è inevitabile una scelta.
Nel nostro momento, il crocevia davanti al quale la Chiesa, la cristianità, il sacerdozio, il cristiano si trova è quello segnato da una strada sulla quale il cartello indicatore porta inchiodato il Vangelo con sopra scritto a lettere di sangue: Giustizia e ingiustizia, e un'altra strada sulla quale il cartello indicatore è carico di codici stampati dove è scritto a pagine e pagine senza fine: giustizia e ingiustizia.
Il prossimo Sinodo (ma tutta la Chiesa) speriamo che chiarisca (e basterebbero poche parole) cos'è giustizia e ingiustizia, dov'è la giustizia e l'ingiustizia e dichiarare qual'è la giustizia che è ingiustizia e l'ingiustizia che ha il diritto di essere considerata e cercata e liberata perché è giustizia.
Dopo duemila anni sarebbe l'ora (e per grazia di Dio sta urgendo, è alla porta) che questa Parola fosse di nuovo chiaramente e coraggiosamente fatta carne e gridata sui tetti all'umanità intera.
Anche se per questa Parola vi può essere già preparata una Croce.

don Sirio


Il ricco sovente commette ingiustizia e poi grida come se fosse l'offeso, il povero è maltrattato e deve chiedere anche perdono (Eccl. 4,9)



Secolo XX

La mia terribile notte squarciata da gridi

«Addormentarsi adesso
E risvegliarsi fra cent'anni,
amore mio...

- No,

Io non sono un disertore.
Del resto, il mio secolo non mi fa
paura,
il mio secolo miserabile, scandaloso,
il mio secolo coraggioso, grande
ed eroico.
Non mi è mai dispiaciuto d'esser venuto
troppo presto al mondo,
Lo sono del ventesimo secolo,
e ne sono fiero.
Mi basta esser là dove sono,
fra i nostri,
E di lottare per un mondo
nuovo...

- Fra cent'anni, amore mio...

- No, più presto, e malgrado tutto.
Il mio secolo che muore e rinasce,
Il mio secolo i cui ultimi giorni
saranno belli,
La mia terribile notte squarciata da gridi
d'amore,
Il mio secolo splenderà di sole,
amore mio, come i tuoi occhi».

Nazim Hikmet

Giustizia per l'obiezione di coscienza

Io sottoscritto, Zardoni Franco, dichiaro che spontaneamente non mi sono presentato per prestare il servizio militare, per motivi politici. Dichiaro inoltre di aver rinunciato, intenzionalmente, a godere di qualsiasi beneficio di legge per il rinvio del servizio militare di leva, per poter concorrere personalmente - con il mio rifiuto - ad evidenziare tutti i motivi attraverso cui si manifestano con una incidenza più o meno diretta, i vari momenti della discriminazione di classe esistente nella nostra società.
Mi dichiaro pertanto obiettore di coscienza...
...Questa scelta è in primo luogo un rifiuto cosciente del principio di autorità per cui l'ordinamento dello stato, così come è voluto e costruito dalla classe dominante, è investito del potere di decisione sulle libertà dell'individuo. In secondo luogo rifiuto l'esercito in quanto strumento di oppressione militare, cioè di guerra.
Lo stato utilizza questo strumento per l'esercizio del dominio capitalistico: se anche questa concezione può apparire inattuale oggi, perchè l'esercito appare più come strumento di difesa che di offesa, la realtà rimane sempre la stessa. Si tratterà sempre di difendere interessi capitalistici. L'integrazione dell'esercito italiano con quello americano attraverso la NATO, la presenza delle basi americane in Italia, l'appoggio diretto e indiretto che attraverso questi viene dato alle guerre capitaliste in Indocina (il recente intervento in Cambogia dopo averne pretestuosamente determinato il colpo di stato, ne è solo un esempio) e alla dittatura militare in Grecia - per fare solo un secondo esempio - sono la conferma che l'esercito è strumento di oppressione, giustificano la mia scelta e la rafforzano anche dal punto di vista morale.
In terzo luogo, rifiuto l'esercito come strumento di oppressione politica. Infatti l'esercito può trovare una sua utilizzazione all'interno del paese per reprimere le libertà conquistate dal popolo. E' noto da un lato che nell'esercito si viene addestrati anche alle cosiddette attività anti-sovversive, mentre dall'altro lato le vicende del SIFAR e del tentativo di colpo di stato del 1964 sono un chiaro esempio di una utilizzazione particolare del potere politico che l'esercito fornisce ai militari che lo comandano. Le implicazioni politiche dell'esercito sono però più vaste. Attraverso le forniture militari, l'esercito ha fortissimi legami economici con l'industria, tanto che si parla correntemente di «industria bellica». L'interesse economico e l'interesse politico a potenziare le strutture militari, trovano in questo modo un punto d'incontro: le forniture militari diventano essenziali per molta parte dell'industria, il potere militare diventa una sicurezza e una garanzia per la classe politica che detiene il potere.
In quarto luogo, rifiuto l'esercito come strumento di oppressione individuale. Nell'esercito i diritti dell'individuo sono negati, i concetti che vengono insegnati sono quelli della gerarchia e della disciplina, il potere è imposto dall'alto e la base - cioè la truppa - ha solo la funzione di obbedire. Non ha alcuna forma di partecipazione, non ha in alcun modo quei diritti civili che peraltro lo stato borghese dice di concedere.
L'esercito diviene così parte integrante e culmine di tutto quel processo formativo che si esprime anche nella scuola e che mira a fare di ogni soggetto un individuo funzionale a quello che è la struttura sociale e, in definitiva l'espressione stessa del rapporto economico-produttivo.
Nell'esercito si impara ad obbedire e si opera una prefigurazione di quello che sarà poi l'ordinamento della fabbrica: uguale l'ordinamento gerarchico, uguale la disciplina. Infine, l'obiezione di coscienza rappresenta un diritto civile che non può essere negato, perchè consiste nel riconoscimento del diritto del singolo a non obbedire ad ordini che vadano contro i suoi convincimenti: e cioè una estensione della libertà di coscienza, cioè di un valore - la libertà individuale - che lo stato borghese pone a suo fondamento.
Se lo stato nega il diritto alla obiezione di coscienza, rinnega in realtà i principi su cui si fonda. Applicata al servizio militare, l'obiezione di coscienza consiste nel rifiuto di obbedire ad un ordine che è contrario ai miei convincimenti, cioè nel rifiuto di far parte di uno strumento che è oppressivo per tutto quanto ho già detto. Da ultimo, dichiaro che è mia intenzione consegnarmi entro breve tempo, al completo esaurimento di tutti quei compiti che ritengo connessi direttamente con quelli che sono i principi stessi della mia militanza e perciò all'origine del mio attuale rifiuto.

Giugno 1970.
FRANCO ZARDONI




menù del sito


Home | Chi siamo |

ARCHIVIO

Don Sirio Politi

Don Beppe Socci

Contatto

Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455

Link consigliati | Ricerca globale |

INFO: Luigi Sonnenfeld - tel. 0584-46455 -