LOTTA COME AMORE: LcA Ottobre 2019

Di idee e di sassi si fa presto a caricassi

La pubblicazione di questo giornalino - semestrale ormai da diversi anni - ha rischiato questo anno di non vedere la luce. Solo uno scatto di orgoglio mi sta portando verso la stampa del primo numero che arriverà agli indirizzi postali degli amici nel mese di novembre o agli inizi di dicembre. Il secondo numero - giusto per mantenere il diritto alla spedizione in abbonamento postale - verrà inviato solo agli amici di Viareggio e conterrà il materiale inserito nel volantino pubblicato in occasione del ripristino del grande murale sulla parete nord della Chiesetta, "Il Cristo dei pescatori" di Giovanni Lazzarini (1976). A tutti, lo invieremo come primo numero del 2020.
Nell'anno prossimo ricorre il centenario della nascita di don Sirio! Anniversario che vorrei celebrare con alcune semplici, ma significative iniziative insieme a Maria Grazia Galimberti che con me condivide l'affetto e la memoria della vita con Sirio qui alla Chiesetta del Porto. Una di queste iniziative sarà la pubblicazione di un numero di Lotta come Amore che riproporrà la lunga traccia dei "giornalini" così come Sirio (e, in genere, questo tipo di pubblicazioni periodiche legate alla vita quotidiana di testimonianze personali o di piccoli, ma di grande spessore di spirito, gruppi in comunità di intenti. "Di idee e di sassi si fa presto a caricassi!", ripeteva spesso anche Sirio citando un proverbio popolare, nel mentre dalla sua mente fervida e dal suo cuore fluivano idee e progetti di lotta e di amore. E così anch'io me lo ridico sottovoce come un mantra per trovare quell'energia che l'età mi ha molto consumato. Vediamo... e, intanto, secondo un motto molto viareggino, "tinimisi strinti!".
Il materiale inserito in questo numero descrive il mio impegno quale parroco di S. Pietro a Vico, un paese nell'immediata periferia di Lucca di circa 3000 abitanti, che si estende su un territorio pianeggiante tra il fiume Serchio e il territorio del Comune di Capannori, non identificato da un centro, ma disperso per vecchie corti ora riedificate, intervallate a stabilimenti industriali e cartiere. Sono in pratica distante una trentina di kmetri da Viareggio e, da più di sei anni vivo la vita di chi, come me, si autodefinisce "parroco a distanza". Segue una descrizione della comunità parrocchiale, scritta e approvata dagli "operatori pastorali" nel giugno scorso nell'occasione del primo incontro di zona con il nuovo vescovo di Lucca Paolo Giulietti. Ed è così che a lui la "mia" gente si è presentata. Quindi una mia presentazione e commento al libro di Antonio Schina, "Bruno Borghi - Il prete operaio", edito dal Centro di Documentazione di Pistoia e già pubblicato sulla rivista Pretioperai. Un uomo mai da me incontrato, ma sempre presente fin da quando ebbi conoscenza che esistevano i preti operai. Di seguito il ricordo di Carlo Carlevaris, prete operaio di Torino, storico punto di riferimento per coloro che iniziarono questo percorso agli inizi degli anni '70 del secolo scorso. Il viaggio a Torino per il suo funerale, compiuto in solitaria andando e tornando in auto da solo nella giornata. Fu per
me come attraversare una galleria di memorie e sussulti di vita che mi lasciò stupito per l'intensità e la consapevolezza di non aver davvero sprecato tempo in quel mio lungo viaggio dell'esistenza. E infine - in tema di centenari - il breve ma intenso ricordo di Rosa Luxemburgh da parte di Enrico Peyretti.

S. Pietro a Vico: parroco "a distanza"

an Pietro a Vico è un paese della periferia nord di Lucca che conta circa tremila residenti disseminati per antiche corti intervallate da complessi industriali in parte decotti, in parte ancora vivi e produttivi. Una antica parrocchia che affonda le sue radici nell'VIII secolo, istituita come beneficio da un vescovo longobardo per sua figlia. Per me, S. Pietro a Vico era soprattutto la parrocchia di don Beppone Giordano, lucchese come me, tre anni più giovane, famiglie che si conoscevano avendo casa dentro la cerchia muraria non più di trecento metri di distanza. Una amicizia fin dagli anni di seminario, rinsaldata da una comune ricerca di una vita sacerdotale assai poco clericale, fatta di lavoro manuale, privilegiando le relazioni dal basso. Più di dieci anni fa, don Beppe fu nominato Cappellano della Casa Circondariale di Lucca e richiese il mio aiuto, attraversando quel carcere un lungo periodo di affollamento, con il contributo sostanziale di versiliesi che scontavano lì reati di diversa caratura. Lavorare insieme almeno tre giorni la settimana portò a stringere tra noi amicizia e collaborazione, fino al punto che il vescovo di quei tempi, scherzando (ma non troppo...) si riferiva a noi con il titolo di un film "attenti a quei due!". Così, fino a sei anni fa. Fu un Natale faticoso, quello del 2012, per Beppe. L'amico medico gli fissò alcune visite presso l'ospedale cittadino. Era il primo sabato dell'anno, vigilia dell'Epifania. La giornata si concluse con il ricovero di Beppe e io a dir messa nella chiesa di S. Pietro a Vico. Così la domenica, le due messe. E lunedì di nuovo a Lucca, in carcere, per la messa settimanale. Iniziò così per me una girandola continua tra Viareggio, la Chiesetta, e Lucca, la parrocchia, il carcere, l'ospedale. Mentre Beppe moriva nell'Hospice di Maggiano , nell'area del grande complesso dell'ex manicomio, dove aveva mosso i primi passi, lui figlio di uno dei medici che vi lavorarono dal dopoguerra fino alla chiusura. Dopo il suo funerale, pensai che il vescovo o chi per lui mi avrebbe chiamato per ringraziarmi e comunicarmi la fine di quel periodo per me doloroso e faticoso insieme. Non fu così. In quel mese e poco più, l'immersione era stata violenta e intensa oltre ogni limite. Mi resi conto di non aver frenato in tempo e di essere stato proiettato in un contesto e in un ruolo, sia in parrocchia che in carcere, da cui non sarei riuscito a staccarmi facilmente. In ambedue gli ambienti ero stato praticamente "adottato" come segno di continuità e anch'io avevo bisogno di elaborare un nuovo lutto che mi consegnava di nuovo alla dimensione di chi rimane solo. Confermai, quindi ai miei superiori, la disponibilità a continuare il servizio in parrocchia con la nomina ad Amministratore parrocchiale con la legale rappresentanza e in carcere come cappellano volontario. Dopo alcuni mesi don Simone Giuli, giovane parroco della periferia est di Lucca, mi disse del suo interessamento al lavoro del carcere e fui felice di poter condividere con lui il tempo necessario per un avvicendamento sereno e positivo che mi portò, dopo un anno, a dimezzare i miei spostamenti da Viareggio a Lucca e a focalizzare le mie energie in relazione alla parrocchia. E lui a lavorare tuttora come Cappellano, riconosciuto e amato. Amministratore parrocchiale Il lavoro in cooperativa, con il quale ero andato in pensione pochi anni prima, mi aveva dato le basi per quello che considerai il mio compito. Da una parte cercare di essere presente, prima di tutto con
il cuore, sapendo che avrei dovuto attingere a una sostanziale sincerità nelle relazioni personali e "pastorali" (il ruolo di pastore, non riesco a immaginarlo per me senza virgolette!). Dall'altra - pur con il poco tempo a disposizione - cercare di riallacciare i fili amministrativi dell'ente parrocchia. Beppe era lì da trent'anni. Nel frattempo gli adempimenti burocratici, le registrazioni catastali, il regime tributario... tanta acqua era passata sotto i ponti. E i suoi ultimi anni erano stati particolarmente faticosi, per lui che si era dedicato anima e corpo al carcere e alle persone che lo abitavano, senza distinzione tra carcerati e personale. E poi, dopo trent'anni vien fatto di affidarsi alla memoria e al "tasto" mentre la penna pesa sempre più... Mi aiutava - a mantenere l'equilibrio, pur con il tempo che mancava sempre - l'esperienza vissuta in altri contesti che mi aiutavano a identificarmi - come mi piaceva definirmi - con "un parroco a distanza". Ricordo che, in ben altra epoca, ma sempre con Beppe (il Beppino Socci questa volta) avevamo deciso di rispondere alla richiesta di tre uomini inviati per cercare un prete che accettasse di occuparsi di un paese ritenuto "difficile". E il vescovo del tempo, spazientito, aveva urlato loro: "e allora cercatevelo voi, un prete!". Uomini pratici l'avevano preso sul serio ed erano venuti una sera a bussare alla Chiesetta. Sirio aveva commentato: "se ce chiedeva il vescovo, potevamo obiettare. Ma siccome ce lo chiede la gente, <vox populi, vox Dei>, e a Dio non si può dire di no". Beppino ed io ci alternavamo da un anno ad andare a Casoli di Camaiore, mezz'ora di macchina da Viareggio. Ci sembrava che tutto andasse liscio. Un anno dopo (ce lo raccontarono una volta presa la decisione) si riunirono come "capi di famiglia" del paese e all'ordine del giorno c'era un solo punto: questi preti sono bravi, ma non abitano qui. E il paese di sotto ha un prete, vecchio certo, ma ci abita! E anche noi vogliamo un prete che ci abiti! Dopo una nutrita discussione, il buon Michele decretò la parola fine alla discussione: "Ma li vogliamo meglio di così?! Quando n'hai di bisogno, gli telefoni, e in mezz'ora sono qui. Quando ti darebbero noia, non ce l'hai tra i piedi!". Siamo rimasti in quell'incarico per 18 anni... fin quando Beppino non è morto. E io ho cercato, anche a San Pietro a Vico, di dare meno noia possibile... La distanza (a volte, certo) aiuta. La distanza fisica mi fece riflettere su alcuni riscontri all'apparenza banali. Il gruppetto di donne che si riunivano in chiesa per le pulizie settimanali, mi telefonavano a Viareggio per chiedermi di avvisare le catechiste che avevano deciso di cambiare giorno perché non programmassero lo stesso giorno attività in chiesa con i ragazzi. Così io avrei dovuto "rimbalzare" la notizia telefonando da Viareggio a S. Pietro a Vico. Certo, il telefono non bada alla distanza (ci mandiamo messaggini anche essendo fianco a fianco...!), ma essendo nato e cresciuto nel tempo precedente i cellulari, ho conservato una qualche abitudine a far due passi per dire cose ai miei vicini piuttosto che affidarmi a whatsapp. E allora perché si privilegia il ruolo (.. lo dico al parroco...) rispetto alla relazione e alla comunicazione diretta (.. sai, mi son fermata un attimo per dirti che...)? Non è solo la pigrizia alimentata dalle moderne tecnologie. C'è qualcosa di più; ed è l'immagine del mondo che fu, insieme alla difficoltà ad accettare di prendere visione dei cambiamenti che pure sono sotto i nostri occhi. La riforma della Chiesa prodotta dal Concilio di Trento fu il frutto di una vera e propria elaborazione di sistema che ci ha accompagnato fino ai nostri giorni. Il parroco residente nella casa canonica a servizio e contigua alla chiesa parrocchiale, è stato come il perno della ruota: figura centrale in grado di connettere ogni singolo punto del cerchio e i singoli punti tra loro. Il territorio, il paese, la parrocchia erano l'ambito di esercizio dell'articolazione della struttura clericale nella dimensione religiosa e civile solidarmente unite. E la figura del prete, all'ombra del campanile, era centrale e funzionale alla comunicazione tra soggetti diversi, per condizione sociale, età e genere. Con l'aggiunta della dimensione sacra simboleggiata dal segreto confessionale. Ciò che ha messo in crisi questa organizzazione che ha retto per alcuni secoli sono stati alcuni fattori, tra i quali - a mio parere - la rottura del ruolo centrale del "territorio". S. Pietro a Vico che è sempre stato un territorio sparso tra corti contadine e laboratori lungo il "canale", vera e propria linea di forza motrice che traversa tuttora anche Lucca ed era essenziale per
le sue filande che tessevano e coloravano preziose stoffe conosciute in tutta Europa. Il fenomeno dell'urbanizzazione non ha risparmiato la Lucchesia e i territori vicino Lucca hanno assunto sempre più le caratteristiche della periferia urbana. La zona di S. Pietro a Vico, ancora in parte immersa nel verde, conosce la mescolanza tra industria e residenze ed è, anche per questo, segnata dal costo inferiore delle abitazioni in contesti meno affollati. Qui, tanti abitanti ci vengono in pratica solo a dormire. Non esiste quindi più da tempo "il paese", ma singoli agglomerati di case senza servizi, negozi di vicinato, luoghi di ritovo... E da sei anni, non c'è più nemmeno un parroco residente. Si continua però a cercare il parroco come figura di snodo delle comunicazioni. Tra enti o servizi pubblici come tra gruppi di parrocchiani che svolgono servizi nella e per la chiesa. Non sono solo le donne delle pulizie che mi telefonano perché avvisi chi fa catechismo del cambiamento del giorno in cui la chiesa è inagibile. L'altro giorno, per esempio, i vigili del fuoco chiamano dalla caserma: "scusi, ci hanno avvisato che ci sono scariche elettriche lungo la linea che passa vicino alla chiesa; potrebbe dare un'occhiata per capire se e come intervenire?". Con tutta la buona volontà, da Viareggio è dura riuscire a vedere... "ah, scusi, sa, credevo...". Ma, quando vengo raggiunto per telefono dal fisso della parrocchia per trasferimento di chiamata al cellulare e mi viene chiesto qualcosa come orari, spiegazioni, richieste di certificati, colloqui... e io premetto: "abbia pazienza, io abito a Viareggio e vengo quasi solo la domenica... vediamo un po' come si può fare...", al 99% mi rispondono serenamente: "lo so che sta a Viareggio, certo, vediamo come si può fare...". Mai una parola seccata, una critica, un senso di imbarazzo. La mattina della domenica e delle feste comandate, metto le sveglie alle 5.30, parto dalla Chiesetta del Porto verso le 6.15, faccio una sosta al panificio del paese per il pane da congelare per la settimana e qualche sfizio di dolce, entro in casa a S. Pietro tra le 7 e le 7.10, faccio una veloce colazione, preparo certificati e sacchetti di cibo per aiuti e puntualmente alle 7.45 apro la catena del piazzale per le auto, il portone della chiesa, alcune luci e mi preparo ad accogliere le persone che vengono per la messa delle 8.30 con calma e serenità come se stessi aspettandole dalla sera prima... Buongiorno! Due anni fa, ho chiesto e ottenuto il decreto che mi nomina parroco a tutti gli effetti. Non ha cambiato niente per quanto riguarda doveri e poteri. Consideratelo pure come una mia vanagloria (udite, udite, c'era in ballo il titolo di Priore..., la mantellina viola e il pompom dello stesso colore sul tricorno!). Ma, per me, ha significato la fine del ruolo di tappabuchi e il riconoscimento di una relazione stabile di corresponsabilità con la comunità cristiana di S. Pietro a Vico, nonostante la distanza e la residenza altrove, sempre alla Chiesetta del Porto. Ho quindi iniziato un percorso al positivo. Come fare per cambiare verso allo schema tutto piramidale dell'organizzazione clericale ben definita nel Diritto Canonico, quello su cui ho studiato negli anni '60 del secolo scorso, definendo la modalità del procedere in "processione" con i laici schierati "bini bini duce clero"? Ben consapevole che i cambiamenti che coinvolgono culture sedimentate hanno da iniziare da leggeri movimenti appena accennati, ho continuato a trattare le cose di parrocchia in incontri per e con gli "operatori pastorali" (catechiste/i, coro, pulizie, affari economici, lettori...), accentuando l'accoglienza di semplici progetti e di modalità emergenti dalle dinamiche tra loro. Proponendo ogni tanto gesti e segni durante le liturgie proposte ed accolte da loro, riducendo le contrapposizioni tra le persone con l'aiuto e la sensibilità di chi non solo stava al gioco, ma lo apprezzava. Come quando invito le persone presenti in chiesa a parlare tra di loro, iniziando da quelli che condividono la stessa panca. Perché magari si conoscono, ma non hanno mai avuto occasione di andare al di là di un formale cenno di capo. Si stringono la mano al momento della pace, ma non conoscono i rispettivi nomi... E così ci sono degli scongelamenti, piccoli piccoli che diamine! Non cambia nulla, ma alcuni di loro si fermano un poco all'uscita fuori della porta continuando a chiacchierare. E poi, volete mettere? Sia pure per dieci minuti cambia l'orientamento. Da "verticale" e cioé dalla panca all'altare, al sacerdote... a "orizzontale", e cioé tra di loro. Poco poco,... ma non così poco! Ora poi mi è venuto in mente di proporre al gruppettino dei ragazzi/e che hanno fatto la cresima
negli ultimi tre anni e che vengono ancora alla messa, raccolti nel coro o coinvolti dai genitori, di andare in sacrestia mentre io faccio la predica dopo il vangelo. E quando ho finito li richiamo e chiedo loro se vogliono dire qualcosa (in sacrestia si organizzano), fare domande, apprezzamenti o critiche al nostro modo adulto di celebrare, osservazioni che riguardano fatti del giorno o problematiche in cui si sentono coinvolti. Non importa quello che dicono o se si chiudono in silenzio. Non importa rispondere alle loro domande, in diretta. Basta la piccola cosa che consiste nel dar loro la parola, nel considerarli, nell'includere la loro presenza in quella dei ruoli attivi. Ci sono anche i giovani e la loro parola non deve essere per forza l'eco delle parole dei grandi. Così vado avanti, consapevole che sono troppo vecchio e incapace di impostare una formazione articolata e funzionale. Non so immaginare il futuro. So solo voler bene al mondo che verrà nella fiducia che il Signore Gesù benedice la vita, incessantemente. Non sarò mai un buon parroco; vorrei essere ricordato solo come un parroco buono. Strano, poco comunicativo, con i suoi lunghi discorsi fatti di pezze a stento cucite tra loro come il vestito di Arlecchino, ma capace di credere la speranza.

don Luigi

La parrocchia di S. Pietro a Vico si presenta

Buonasera a tutti, quello che vorremmo condividere con voi e con il vescovo Paolo questa sera è il racconto del percorso (potremmo dire quasi un'avventura) che la nostra parrocchia e il gruppo degli operatori vivono da qualche anno. L'avventura è iniziata nell'inverno del 2013, quindi sei anni fa, quando il nostro parroco di allora, don Beppe Giordano, si è sentito male e poi in pochissime settimane è morto. In quel tempo convulso e doloroso e nei primi mesi dopo la sua morte abbiamo potuto contare sull'aiuto di don Luigi Sonnenfeld, collaboratore di Beppe nel suo lavoro di cappellano al carcere di San Giorgio e da sempre molto vicino alla nostra comunità. Una presenza quella di don Luigi che da temporanea e informale, con il tempo è divenuta sempre più stabile e ufficiale fino a decidere di comune accordo e con l'approvazione del vescovo Italo che Luigi sarebbe diventato il parroco di San Pietro a Vico, nel 2017.
Ma il nostro parroco, da sempre e ancora oggi, abita a Viareggio, vuole abitare là e noi vogliamo che lo faccia, per rispetto della sua storia e delle sue scelte. Quindi fin da subito abbiamo dovuto reinventare alcune modalità, ridisegnare alcuni aspetti della gestione della parrocchia. E con gestione intendiamo le cose più svariate: decidere chi apre all'idraulico e segue i lavori o chi fa un giro in canonica e in giardino dopo qualche giorno di maltempo per vedere che sia tutto a posto; aprire la chiesa o i locali per un incontro o organizzarci al volo per i funerali. Con una certa naturalezza il gruppo degli operatori parrocchiali già presente si è attivato in questo senso (sempre troppo pochi per fare tutto, ovviamente, come in tutte le parrocchie!). A nostro vantaggio c'era una storia lunga circa 30 anni legata a don Beppe Giordano che aveva dato (per sua convinzione e per suo carattere) un'impronta di autogestione alle attività. Molti laici avevano le chiavi della chiesa, tutti i catechisti quella delle stanze per l'attività con i ragazzi; l'animazione dei bambini e quella liturgica erano
condivise e progettate ma autonome.. insomma, un po' eravamo allenati e alcuni di noi erano anche consapevoli di parecchie cose.
Quindi nel 2013 è iniziata questa gestione condivisa e orizzontale della parrocchia. Si sono avvicinate persone nuove alla vita della comunità, qualcuno si è perso, qualcuno forse non si è sentito accolto o non ha trovato tutto quello che questo tempo nuovo sembrava promettere. Sono gli inevitabili fallimenti del vivere insieme..
Quindi.. che succede a San Pietro a Vico? Ci sono due messe la domenica (abbiamo abolito la prefestiva ma ci pare sia stato abbastanza indolore). L'animazione liturgica intesa in tutte le sue sfaccettature è da sempre una faccenda condivisa tra sacerdote e laici. Il canto e la musica fanno parte della nostra celebrazione, il coro è da sempre un gruppo misto, composto da persone di varie generazioni in percentuali variabili, a seconda degli anni, e da qualche tempo riusciamo ad animare anche la prima messa. Si fa catechismo per i bimbi a partire dalla seconda elementare; la prima Comunione e la Cresima si fanno in prima media (già dai tempi del Giordano, non abbiamo messo mano a questa cosa in questi anni) e poi si cerca (con risultati alterni) di portare avanti i ragazzi finchè si riesce. La preparazione per i battesimi viene curata da due mamme e da una giovane sposa che incontrano le famiglie a casa loro e ci pare che riescano a parlare la lingua dei genitori. Questo ha destabilizzato forse alcune coppie che si aspettavano il prete ma allo stesso tempo ci pare che abbia reso più facile il dialogo con altre situazioni, meno vicine alla chiesa e forse con più pregiudizi. Per i funerali, vista la lontananza di don Luigi, ci sono dei laici che si organizzano tra loro per aprire la chiesa e aiutare il sacerdote che celebra le esequie, che il più delle volte è don Giovanni Romani, parroco di Lammari. Abbiamo creato o rafforzato infatti una rete di collaborazioni con alcuni sacerdoti vicini anche per la celebrazione del sacramento della Riconciliazione che da noi, ormai da più di 20 anni, si celebra in forma comunitaria. L'aspetto di assistenza alle situazioni di difficoltà economica lo affrontiamo volta volta in base ai casi, cercando di personalizzare il poco che possiamo fare, magari creando un minimo di rapporto personale con le famiglie che intercettiamo. La cosa che ci piace sottolineare è che non abbiamo subìto questo cambiamento ma lo abbiamo costruito o ci siamo arrivati con il tempo, insieme a don Luigi.
Come operatori siamo consapevoli di alcune cose chi ci mancano, qualcuno nella comunità forse ne soffre anche un po'. Ma non ci mancano perché il parroco non vive lì, intendiamoci. Ci mancano perché i laici sono pochi (ma di fatto la chiesa si svuota, passo passo..) e la formazione su alcune cose non è ancora del tutto matura, i punti di vista sono tanti, a volte distanti, e la comunità parrocchiale non è una sola. Cambia da messa a messa, cambia nelle fasce di età, cambia in base alle ricerche personali che ognuno fa. Siamo consapevoli che all'interno della parrocchia e del paese (che non coincidono, da tempo immemore!) ci sono movimenti e sensibilità differenti e proviamo a farle parlare tra loro, quando ci riesce, o almeno proviamo a farle vivere in una specie di armonia, in un rapporto di buon vicinato. E con questo intendiamo parlare del gruppo Fratres, dei genitori che hanno ridato vita agli impianti sportivi e poi hanno creato un circolo Anspi, dei genitori
della scuola che fanno le prove dei loro spettacoli nei locali della chiesa e così via.. Tutto quello che viene fatto (che sia visibile o intangibile, fatto benissimo o fatto così così), è fatto con tutta la cura, la responsabilità, la condivisione e l'amore di cui siamo capaci. Preparandoci per scrivere questo testo, qualche sera fa, è come se ci fossimo messi davanti a uno specchio ed è stata un'opportunità preziosa, di cui siamo davvero grati perché è stata al contempo una carezza che rassicura e un pungolo che ci invita a non fermarci, a non sentirci arrivati.

Il primo prete operaio in Italia

Leggendo il bel libro di Antonio Schina, "Bruno Borghi - Il prete operaio", stampato per conto del Centro di Documentazione di Pistoia, mi sono immerso negli anni della mia gioventù che mi hanno accompagnato - in un lento, ma costante movimento trasversale a ritroso - nella discesa dei gradini della eccellenza sociale ed ecclesiastica; dall'approdo a Roma nel 1966, alunno del Collegio Capranica, luogo di formazione di Pio XII e di numerosi vescovi italiani e non, fino alla comparsa di un trafiletto ANSA sulla stampa nazionale che mi riguardava e annunciava nel 1973 "metalmeccanico si laurea in teologia" a segnare una curiosità contro natura del tipo: nato un vitello con due teste... Del fatto che fossi un prete, non veniva per niente menzionato. Conservo comunque con un certo orgoglio la lettera di felicitazioni del Cantiere navale in cui lavoravo. Mi costò la carriera ecclesiastica la simpatia e l'amicizia per l'allora nascente Comunità di Bicchio che, da una parte mi convinse a farmi ordinare prete superando la delusione di essere entrato in seminario per vivere un'avventura e lo scontro con una "educazione" bacchettona e appiattita su schemi di separazione con tutto ciò che sapeva di umano, privilegiando un "sacro" bigotto e ripetitivo; dall'altra l'innegabile attrazione di un "mondo" in cui convivevano figure maschili e femminili in una condizione di semplicità e di trasparenza nei confronti di tutto ciò che ci girava intorno, aperto e interessato alla vicenda umana, dai vicini di casa alle notizie e alle storie che provenivano dall'oltre oceano. Non sapevo niente di Bruno Borghi, non mi risulta che con don Sirio si siano mai incontrati e, anche nei primi anni di vita della Comunità di Bicchio, gli unici riferimenti a Bruno vennero da don Beppino Socci e don Beppe Pratesi che - prima di venire ad abitare a Viareggio - avevano vissuto il seminario e i primi anni di vita sacerdotale nella diocesi di Firenze. Ma anche loro scontavano qualche anno di distanza dal primo periodo di lavoro di Bruno, essendo più giovani di circa dieci anni. Non solo; negli anni '50 sicuramente, ma ancora nel decennio successivo, credo che le poche e frammentate esperienze di lavoro operaio da parte di preti, fossero vissute come avventure in campo aperto, uscendo dalle canoniche e dall'ombra del campanile per tuffarsi nelle acque della vita della gente comune. Di quella realtà di popolo che solo in parte e in modi sempre più distaccati, viveva la chiesa come antagonista, collusa con le classi padronali, e il sacerdote ben piazzato al centro della vita borghese. Gli incontri che precedettero l'inizio dei "convegni" dei preti operai, avvennero nei primi anni '60 tra preti e religiosi che vivevano il sogno di una chiesa liberata dal potere e tesa a divenire sorella della realtà umana immersa nella povertà e nelle periferie del mondo, ma non condividevano una comune testimonianza all'interno del mondo del lavoro. Quando nel 1969, si incontrarono per la prima volta come "preti operai" poco più di una trentina di preti a Chiavari, Sirio e Rolando Menesini che venivano da Bicchio (Viareggio) e portavano la differente esperienza di lavoro legata all'artigianato popolare raccontarono che non di rado, prendendo la parola, molti dei presenti confessavano di aver creduto - fino ad allora - di essere gli unici in Italia ad aver imboccato la strada del lavoro operaio. In un certo senso, quei preti che si incontrarono a Chiavari, come coloro - e Bruno è stato uno di quelli - che a quella data avevano già esperienza di lavoro dipendente, sono tutti "primi preti operai", anche se - in una scala temporale, Bruno Borghi è stato il primo prete a varcare come operaio dipendente i cancelli di una fabbrica nell'era moderna. Sirio Politi a Viareggio, come Carlo
Carlevaris a Torino, e altri che ho avuto la fortuna di incontrare negli anni in cui iniziavo a frequentare la Comunità di Bicchio, sono anche loro - per me - "i primi preti operai".
Continuando a leggere il libro di Antonio Schina su Bruno Borghi, mi sono soffermato a pag. 22: "Siamo nel 1951 e con questo colloquio tra il cardinale Della Costa e Bruno si chiude la breve esperienza al Pignone, con una grande sofferenza da parte sua: - Guarda, non devi andare più. - Ma come, questi operai con cui ho stabilito un rapporto, e poi soprattutto le speranze che sono nate in me, l'entusiasmo per una cosa così. - No, no, basta da Roma è venuto quest'ordine. - Ma guardi, Eminenza, che non... - Non si discute più [..] vai cappellano a Pontassieve". Poche righe più sotto, nota ancora A. Schina: "Le pressioni da Roma sono molto forti e vanno oltre le convinzioni del cardinale, che pure credeva alla necessità di sperimentare l'esperienza dei preti in fabbrica... C'è il peso della vicenda francese che proprio in quegli anni sta arrivando al suo epilogo... Tra il 1953 e il 1954 arriverà poi il provvedimento definitivo di chiusura: così i preti operai verranno distinti e divisi tra "soumis", obbedienti, che accettano di tornare nelle parrocchie e "insoumis", disobbedienti, che decidono di rimanere al loro posto".
Mi sono chiesto allora, come mai l'arcivescovo di Lucca Antonio Torrini, nel 1955 dette il permesso a Sirio Politi di lasciare la parrocchia di Bargecchia e scendere a Viareggio per inserirsi - come operaio - nei Cantieri navali della Darsena, allora conosciuta come "la piccola Russia"? Il vescovo Torrini era stato a lungo Visitatore dei Seminari e quindi uomo dell'istituzione e delle regole, anche se aveva, con lucidità e coraggio personale, ascoltato e protetto - durante gli anni della guerra - i preti coinvolti nel nascondere ebrei e partigiani ricercati dai nazisti. Non poteva quindi non sapere quali resistenze, ma soprattutto, quali pressioni venissero da Roma contro l'esperienza dei preti operai. E se, a Firenze, il cardinale Della Costa aveva ritenuto quattro anni prima di impedire a Bruno Borghi di continuare a lavorare alla Pignone, cosa poteva essere accaduto fino al punto che a meno di 80 km di distanza un altro vescovo consentisse, quattro anni dopo,a un suo prete di entrare in fabbrica?
Nel numero doppio di Pretioperai (P.O. Europei - cronaca, storia, prospettive n° 30-31 Maggio 1995) ho trovato in una nota una citazione dal primo numero del 1994 di Témoignage Chrétien, pag. 22 che riporto integralmente. "Il 20 febbraio 1954 i P.O. Di tutta la Francia si riuniscono segretamente per eludere i mass-media, al Café de la Paix, a Villejuif. Due giorni per prendere atto di una spaccatura tra loro preti-operai. Ciascuno dei presenti indica la decisione che ha preso. Circa la metà annuncia di continuare l'impegno operaio, molti sospendono la loro decisione. Quelli che hanno deciso di lasciare il lavoro sono dunque minoranza. La prova di forza è evitata: l'obbedienza di cui danno prova i domenicani placa le congregazioni romane; esse eserciteranno minori pressioni sui vescovi per ottenere l'applicazione delle sanzioni previste e nei termini stabiliti contro i ribelli". E' forse in questo allentamento della pressione vaticana, nella personale sagacia del vescovo Torrini e nella fiducia da lui riposta in Sirio Politi di cui conosce e stima la serietà di intenti e la fede profonda che viene accordato il permesso di entrare nella vita operaia, pur in presenza di un atteggiamento negativo del Sant'Uffizio. Torrini, di fronte alle prime richieste di don Sirio, si rivolse a lui con parole paterne esortandolo a non eccedere nella lettura di libri francesi che potevano portarlo su strade rischiose. E Sirio, pur confermandogli le letture che stavano alla base di una chiesa che si misurava a partire dal basso, gli rispose: "C'è un solo libro che mi sconvolge e che è alla base di ogni mio pensiero e progetto di vita". "Ah, sì? - e quale sarebbe?" riprese il vescovo. "Il Vangelo!".
C'è comunque un particolare che accomuna le figure di Bruno Borghi e Sirio Politi, al di là dei pochi anni che separano le rispettive esperienze: entrambi, il primo giorno di lavoro, entrano in fabbrica indossando la veste talare e se la tolgono per iniziare il lavoro. Ma, mentre Bruno viene accolto molto bene dagli operai, Sirio inizia il percorso in una solitudine e una diffidenza generale. Solo dopo mesi di osservazione si guadagnerà fiducia e rispetto da parte degli operai. Diversità di ambienti o un clima di contrapposizione che si sta arroventando nel Paese? Questo particolare (in genere non seguito negli anni successivi) che accomuna i due preti operai italiani degli anni '50, mi par significativo di un percorso che arriva fino ai nostri giorni in un crescente "abbattimento di mura" che dà ragione all'immagine di una "chiesa in uscita", soprattutto da se stessa. Ne ho ritrovato una traccia nell'articolo scritto, dopo la morte di alcuni preti operai di Torino, da Enrico Peyretti su <Il Foglio> del settembre scorso che lui stesso mi ha consegnato in un incontro, breve e intenso, giusto per un abbraccio, alla stazione di Viareggio, prima che prendesse il treno per casa. "Il prete operaio è un prete rientrato nel popolo... è uscito da quella separatezza, si è confuso con i lavoratori, si è fatto <uno di loro>. Ha scelto la classe povera di allora, anche le sue lotte di solidarietà e giustizia, spesso criticato dalla chiesa ufficiale come per una contaminazione del sacro col mondo, e in pericolo di contagio marxista... Quel tarlo dell'individualismo, emerso poi come causa della crisi della sinistra, corrotta dal liberismo, era già visto dai preti operai per la loro sensibilità morale: essi contribuirono quanto poterono a tener vivo un filone di pensiero-azione per la giustizia, perciò anche per gli ultimi più ultimi, privi di una forza organizzata. Il prete operaio si è declericalizzato. L'abito e l'aura del <separato> scompariva dalla sua persona... Spesso (dalla fine degli anni '60 in Italia) i compagni ignoravano che quell'operaio fosse un prete, e lo scoprivano col tempo in quel compagno di fatica, nel rapporto personale, non per un titolo sacro su di lui. Così il prete operaio ha contribuito, anche consapevolmente, alla demolizione del <clero sacro>, istanza evangelica sollevata nel Concilio, anche se poco riconosciuta nella successiva pratica ecclesiastica, fino a ritorni recenti di clericalismo. I preti operai hanno contribuito molto a ricondurre il ministero presbiterale nel corpo vivo del <popolo di Dio> che è tutto profetico, sacerdotale, regale. Questo loro contributo deve rimanere. .. Insomma, i preti operai hanno lavorato per la dignità umana, da consapevoli e grati figli di Dio, non solo nella società, ma nella chiesa stessa. La fatica quotidiana, la solidarietà, sanno anche purificare la fede, fanno riconoscere come davvero Dio guarda e cerca i suoi figli, fuori dagli orpelli teorici e rituali di cui gli scribi caricano le spalle dei poveri, e stanno a guardare e a giudicare. .. Complessivamente il loro fu un atto originale, un'assunzione di responsabile iniziativa, una presa di parola dignitosa e libera. Di questo c'era bisogno nella chiesa, a questo portava il Concilio ben compreso. Di questo c'è bisogno sempre, anche oggi. Senza fughe solitarie, la comunità ecclesiale, come ogni comunità umana, ha bisogno non di sudditi obbedienti e passivi, ma di liberi creatori di iniziative inserite nel cammino comune, anche assumendo il rischio della sperimentazione... L'esploratore non va per un suo gusto solitario, ma per cercare una strada utile a tutti. Così furono i preti operai".
Oggi, un tempo in cui appare chiaro - come commenta un amico su fb - "La salvaguardia del pianeta è ormai la priorità delle priorità. Stiamo modificando il clima, abbiamo distrutto, inquinato e resi insicuri vasti territori, abbiamo riempito il mare di plastica e stiamo distruggendo la biodiversità; intere specie animali spariscono giorno dopo giorno, tante altre sono al lumicino. Il predominio umano si sta dimostrando egoista, violento, insensato e - senza una rapida inversione di tendenza - foriero di devastazioni globali (i primi segnali sono già evidenti). La cura dell'ambiente - oltre ad essere una priorità per la salvaguardia del pianeta (e di chi ci vive) - può anche rappresentare un poderoso motore per un nuovo sviluppo e un rilancio dell'occupazione; l'umanità ha i mezzi, le conoscenze, le tecnologie ed il bisogno di farlo. Perché non si fa? Quello dell'ambiente è il principale tema intorno al quale poter costruire inedite "alleanze" (culturali ed economiche) globali così come locali. Per affrontare questi temi occorre un nuovo approccio
politico che assuma la sostenibilità ambientale come stella polare nella formazione di tutte le decisioni a tutti livelli, ad iniziare da quelli locali. Per impedire il degrado del pianeta occorre superare la politica, l'economia e la cultura del "qui e subito" e progettare nuove soluzioni per poter garantire cibo, acqua, cure, energia, istruzione e servizi ad una popolazione umana che tra trenta anni supererà i 10 miliardi di individui; una situazione che - se nulla cambia - potrebbe essere caratterizzata da una biosfera irreparabilmente lesa, da un occidente ricco, obeso, sempre meno incline a riprodursi e perciò vecchio (questione demografica) e per di più assediato da un sud del mondo giovane e prolifico, che difficilmente sarà disposto a rimanere ancora escluso da una più ragionevole redistribuzione della ricchezza e dei saperi. Se oggi le migrazioni hanno come motore prevalente la speranza di una vita migliore, domani - a seguito del riscaldamento globale - interi popoli potrebbero essere costretti a muoversi solo per garantirsi la sopravvivenza. E se qualcuno pensa che questi temi possano essere affrontati nazione per nazione nella migliore delle ipotesi si illude altrimenti è oggettivamente corresponsabile dei danni a venire. (Marzio Francesconi)
Luigi

Non siamo più belli come una volta...

Quando ho saputo della morte di Carlo Carlevaris, decisi di andare a Torino, al suo funerale. Non ero nelle migliori condizioni e, dopo un'inutile occhiata all'orario dei treni, partii prima dell'alba da Viareggio con la mia macchinetta, da solo, cercando di capire - km dopo km - se ero in grado di continuare o se fosse stato necessario fermarsi e tentare di rientrare. Non potevo mancare a questo ultimo appuntamento con Carlo, dopo una lunga storia di conoscenza e di amicizia fin dai primi anni della Comunità di Bicchio a Viareggio, lui della stessa generazione di don Sirio e don Rolando, i seminaristi e i preti operai torinesi della stessa mia generazione. Sirio, Rolando, come Carlo ed altri preti come loro per ricerca di fede ed età, cui ho voluto un bene dell'anima: Gino Piccio, Michele Do, Arturo Paoli... Mi separavano da loro circa una ventina di anni, giusto il tempo - in quell'epoca che aveva conosciuto per la seconda volta la grande guerra -, per un ragazzo di diventare uomo. Con la confidenza dell'amicizia e insieme il rispetto per la maggiore età, salutai Carlo (e non ebbi più occasione di rivederlo) in uno dei corridoi del vecchio seminario del Paradiso a Bergamo, durante uno degli ultimi incontri che annualmente riuniscono i "resti" dei preti operai. "Coraggio!" gli dissi nel mio consueto intercalare, e lui - inaspettatamente - mi rispose: "Eh, non siamo più belli, come una volta...". Carlo era già molto silenzioso. Partecipava alle riunioni, ascoltava, ma dava già segnali di stare staccando la spina dell'attenzione, del coinvolgimento. Mi sorprese quella frase, che mi porse guardandomi negli occhi con uno sguardo sereno, lui che ho sempre conosciuto come persona riservata. E la portai con me. Mi ritornò in mente mesi dopo. Un'amica mi raccontò di essere stata a trovarlo a casa sua, a Torino. E di essere stata ospitata una notte, trascorrendo poi con lui la gran parte del giorno seguente. Ancora dolcemente stupita di aver trovato un uomo, non solo gentilissimo e ospitale, ma anche così aperto e, in modo semplice, capace di raccontare di sé come se tra loro ci fosse un'intima conoscenza di anni. Non ero nuovo a simili contesti emotivi, ma fui ugualmente contento che Carlo mi avesse aperto un piccolo spiraglio di sé. Lui, molto spesso - troppo spesso? - avvolto di razionali strategie. Nel mio viaggio verso il suo funerale, questo ricordo affiorò ancora una volta e mi aiutò a trovare le ultime energie per consegnarmi a un taxi e raggiungere nel tempo più veloce e sicuro possibile la chiesa del Cottolengo. Nell'interno cercai i volti dei tanti presenti. Pochi quelli riconosciuti subito per continuità di frequentazione. Altri, ritrovati dopo brevi e intensi percorsi della memoria attraverso i tratti appesantiti dagli anni. E mentre la dignitosa omelia di un vescovo risuonava fredda nella chiesa, capii che quello che andavo cercando erano le tracce della bellezza di Carlo. Di quel sogno che lo ha animato e lo ha reso "bello" negli anni pienamente vissuti della sua vita, oltre i tratti della
bellezza fisica, nell'ideale, nella generosa dedizione del servizio, nello spirito forte e coinvolgente. Anche se il sogno di Carlo non collimava con il mio. Troppo innervato sulla Chiesa e la sua struttura, il suo, caratterizzato dal vento forte dello spirito del Cardinal Pellegrino, per trovare non più che alcune rispondenze nel mio sogno povero di una chiesa lontana e assente quando non dichiaratamente contraria ad avventurarsi oltre i confini del sagrato. Un sogno, quello di Carlo, reso sempre più faticoso da tempi non più così ariosi della chiesa torinese, dall'usura di storie dolorose per la morte o il forte affaticamento di alcuni suoi compagni, fino all'opacità del presente che lo chiudeva sempre più nei limiti della sua storica mansarda in via Belfiore. Fino a concludersi nel suo funerale. In chiesa, certo, alla presenza di vescovi e numerosi preti e laici che potevano testimoniare il lungo e fecondo cammino di fede di Carlo. Ma - insieme - evitando accuratamente che risuonasse nella chiesa anche solo il nome dell'esperienza cardine della sua vita quale "prete operaio". Prete operaio, operaio prete... tentativi di indicare percorsi di vita di fede ed esperienze di vita sacerdotale nell'ambito di un periodo storico collocabile nel mondo occidentale nell'arco della seconda metà del 20° secolo. Sogno di una chiesa che rilegge con la vita l'esperienza di Nazareth e la coniuga con la testimonianza profetica che prende le mosse da tutto ciò che è considerato scarto dal potere costituito. L'unica volta in cui ho avuto occasione di passare tanto tempo insieme è stato quando ho trascorso con Carlo un mese, vivendo con lui e con don Renzo Fanfani nella Casa missionaria francescana di Seoul in Sud Corea. Era il 1990 e partecipavamo con impegno al Convegno mondiale ecumenico delle Chiese: "Pace, giustizia e salvaguardia del creato". Il gruppo italiano dei preti operai aveva appena superato un momento critico della sua storia che mi permetto di riassumere così, pur sapendo che vado incontro a inevitabili generalizzazioni: lo scontro tra chi credeva di poter trovare spazi per una pastorale operaia in un dialogo d'insieme con i vescovi e chi, nell'arco di storie personali e relazioni anche fortemente contrastate con la gerarchia locale, collocava la testimonianza dei preti operai nell'ambito più generale della sfida al potere nella chiesa, della crisi del ministero ordinato, dell'opzione preferenziale per i poveri. Ci immergemmo così in un mondo - quello sud coreano - così lontano da noi e in un ambito - quello del Convegno mondiale - composto dalle costellazioni le più diverse dell'universo cristiano. Insieme con Carlo - utilissimo per me e Renzo nell'intavolare incontri e confronti con i gruppi JOC locali e i gruppi molto giovani delle Piccole Sorelle - ci immergemmo in quella realtà composita e fluttuante dimenticando letteralmente le nostre controversie, le specificità, le distinzioni. Fu un bel momento di tregua tra noi, un respiro ampio che, forse, ci permise di evitare dolorose rotture anche se, quando tornammo ci rendemmo conto che non era più "come prima". Era ormai tramontata ogni ipotesi di "movimento dei preti operai italiani" in grado di focalizzare obiettivi comuni da raggiungere nella sia pur complessa galassia ecclesiastica. Iniziava il tempo - e ancora oggi è questo - intorno alla rivista "Pretioperai" e "degli incontri e convegni al Paradiso di Bergamo", dove c'è spazio per raccontare e raccontarci, e la vicenda di ognuno con le proprie motivazioni diventa materiale di un confronto continuo che si allarga alle dimensioni del mondo e della chiesa ovunque viva. Non saremo più belli come una volta, avrebbe continuato a ripetere Carlo, pur non condividendo quella traccia che si allontanava così tanto dalla sua lotta tutta interna alla chiesa, sia pure intesa come spazi da occupare per una dimensione operaia con piena cittadinanza al suo interno. Ma la dignità e l'accoglienza nella piccola "mansarda" dei preti operai in Italia, sarebbe stata, ancora per qualche anno, quella dei tempi migliori.

Luigi Sonnenfeld

Rosa Luxemburg 1919 - 2019

In tema di ricorrenze centenarie, mi ha commosso il ricordo di Rosa Luxemburg, uccisa a freddo dalla polizia a Berlino il 15 gennaio 1919, fallito il tentativo di rivoluzione spartachista. Ho amato questa figura di donna e di lottatrice quando lessi i suoi scritti che Lelio Basso ci fece conoscere. Specialmente le sue lettere, e quelle dal carcere (per lei frequente residenza), sono testimonianza di viva umanità, che è il bene politico più prezioso, pur insieme ad altri aspetti che puoi non accettare. Raccolgo a caso, dal mio archivio digitale, qualche suo pensiero, senza pretese di completezza. Per Rosa «La libertà è sempre solo la libertà di quelli che la pensano in modo diverso». Questo è il suo pensiero più famoso, sempre citato. Lei, marxista, vi sembra dunque leninista e stalinista? Condannò l'appoggio della SPD alla guerra. «Voi dite: o mitragliatrici o parlamentarismo. Noi vogliamo un radicalismo un po' più raffinato. Non soltanto questo grossolano aut-aut. È più comodo, più semplice, ma è una semplificazione che non serve alla formazione e all'educazione delle masse» (in Sciopero di massa, partito, sindacati, citato da Lelio Basso, Introduzione a Per conoscere Rosa Luxemburg, Oscar Mondadori, 1977, p. XXXVI). «La dittatura consiste nel modo in cui la democrazia è usata e non nella sua abolizione». (La rivoluzione russa, pubblicata postuma nel 1921, su appunti stesi da Rosa nel 1918, contenuta in Scritti politici, Editori Riuniti 1976, a c. di Lelio Basso, p. 593. La frase è citata a p. 382-383 di Paul Frölich, Rosa Luxemburg, prefazione di Rossana Rossanda, BUR 1987). Rosa Luxemburg dichiara che la dittatura è inevitabile: «Già, dittatura! Ma questa dittatura consiste nel modo di applicare la democrazia, non nella sua abolizione, in interventi energici e decisivi nei diritti acquisiti e nei rapporti economici della società borghese, interventi senza i quali la trasformazione socialista non può essere realizzata». (..) «Noi abbiamo sempre svelato il duro nocciolo della disuguaglianza e della schiavitù sociale che si nasconde sotto la dolce buccia dell'uguaglianza e libertà formale, non per rigettare queste ultime, ma per spronare la classe operaia a non contentarsi della buccia, e a conquistare il potere politico per riempirlo di un nuovo contenuto sociale. È la missione storica del proletariato giunto al potere di creare al posto della democrazia borghese una democrazia socialista, non di distruggere ogni forma di democrazia». La stessa problematica la troviamo qui: «Se per la borghesia la democrazia è diventata un elemento in parte superfluo, in parte di ostacolo, essa per la classe operaia, invece, è diventata necessaria e indispensabile». Nel seguito dice che non le barricate, non la Comune di Parigi, ma la «lotta legale» è l'unica possibilità per la conquista del potere politico da parte del proletariato. (Per conoscere Rosa Luxemburg, op. cit., p. 136 e ss, spec. 137 in basso. E anche p. LXX e p. L) . Fino dall'aprile 1917 (!) «in varie lettere Rosa non nasconde le sue profonde perplessità in merito all'esito finale della rivoluzione russa, che aveva tuttavia suscitato il suo entusiasmo». In particolare sono «note le sue critiche sull'atteggiamento dei bolscevichi
dopo la presa del potere [ottobre 1917] e sulla concezione della dittatura del proletariato». (ivi) Ma è nelle lettere che appare soprattutto l'umanità di Rosa. «Ne hai ora abbastanza come auguri per l'anno nuovo? Procura allora di rimanere un essere umano. Rimanere un essere umano è la cosa principale. E questo vuol dire rimanere saldi e chiari e sereni, sì sereni malgrado tutto, perché lagnarsi è segno di debolezza. Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita "sulla grande bilancia del destino" quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola; ah, non so scrivere una ricetta per essere umani, so soltanto come si è umani». (dal carcere, 28 dicembre 1916, a Mathilde Wurm, in Lettere 1893-1919, e in traduzione leggermente diversa in R. Luxemburg, Dappertutto è la felicità. Lettere di gioia e barricate, L'Orma, gennaio 2019, p. 45). Chi non vede l'attualità di queste parole? E un brano del 1916: «Restare un essere umano, cioè gettare, se necessario, gioiosamente tutta la propria vita "sulla grande bilancia del destino", ma allo stesso tempo rallegrarsi per ogni giornata di sole, per ogni bella nuvola». Per me, sono rivelazioni di una persona molto viva. Si giudichi come si vuole la sua attività rivoluzionaria, la sua concezione marxiana meccanica della storia destinata alla vittoria del proletariato, ma non si dimentichi la sua differenza da Lenin, la sua concezione della libertà, citata all'inizio. Rosa «ha molto amato», per dirlo con parole di Gesù (Luca 7,47). Ha amato anche diversi uomini. Rosa ha fede nella vita, cioè in Dio non nominato. Marxista, non credente, custode della libertà insieme alla giustizia, scrive queste parole dal carcere nel 1917: « Ed io sto qui ravvolta in questo manto nero delle ombre, della noia e della schiavitù dell'inverno, eppure il mio cuore palpita per una incomprensibile e sconosciuta allegria come se stessi camminando su un prato in fiore sotto un sole risplendente. E sorrido nell'oscurità della vita come se conoscessi un qualche magico segreto che smentisce la malvagità e la tristezza per trasformarle in luce e felicità». (parole citate da O. Bayer nel discorso sulla tomba di Elisabeth Käsemann, pubblicato in Latinoamerica, n. 15/16, lugliodicembre 1984.) Non sembra di leggere Etty Hillesum? Questa giovane ebrea-cristiana olandese, sotto il martello della violenza nazista, gioiva di speranza e di coscienza del bene. Aveva la grazia di «trasformare il dolore in forza» (Nadia Neri) e di vedere il bene al di là del male. Questa era la sua potente resistenza, tutta interiore. E pregava Dio: «Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me». E parlava delle «sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi e che io chiamerò "Dio"» (Diario 1941-1943, Adelphi 1985, pp. 169, 220). C'è anche chi, come Rosa Luxemburg, ha quel dono pur senza conoscerne esplicitamente l'origine, il dono di attraversare col proprio corpo, come Gesù risorto, il muro del male e di attendere e pregustare la vita nel bene. Non è questa una forma di fede, comunque la chiamino i teologi, una esperienza reale di Dio? Una esperienza che è forza buona per amare e promuovere il mondo, e salvarlo insieme a Dio. Esperienze come queste, sotto qualunque nome e latitudine ideale e culturale, i cristiani devono riconoscerle, onorarle, condividerle con la propria fede nel Cristo vivente, perché queste luci sono la forza più forte e più pura per le opere di giustizia nella storia umana.
Enrico Peyretti

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