LOTTA COME AMORE: LcA novembre 2003

Cambio di stagione

Questa estate sembra non finire più qui a Viareggio. Le piogge di questi ultimi giorni hanno attenuato ma non spento il calore del sole che, appena fa capolino tra le nuvole, si fa sentire ed invita di nuovo alla spiaggia e al bagno in mare. Ed è più difficile anche per quelle povere cicale umane che, durante la stagione, hanno vissuto all'aria aperta nutriti dalla carità in libera uscita dei turisti, darsi da fare per cercare un riparo invernale. E partono un po' per volta come le rondini, mentre altri rimangono sul filo dell'incertezza, ancora riscaldati da temperature assai miti. Alcuni di loro si accampano nei pressi della Chiesetta e con loro combatto piccole, ma colorite "battaglie" per il controllo del territorio, sapendo già in partenza che non vogliono cambiare se stessi in formiche, ma solo sopravvivere in qualche modo attraverso le feste di Natale e il Carnevale, fino alla prossima stagione estiva quando si può raccogliere tutto quello che non si è seminato.
Invidio questo loro vivere alla giornata, la capacità di sopportazione del contatto umano anche il più avverso, l'attaccamento alle cose praticamente inesistente. Avverto anche nella mia vita un cambio di stagione che mi rende pensieroso dentro. E' tempo di lasciare, dimettere abiti indossati fin qui nel buono e nel cattivo tempo. E' tempo di verificare se davvero "sotto vestito niente" e ripartire dalla nudità dell'io. Sento che questo tempo è arrivato per me ancora una volta; stagione che si rinnova nella mia vita. Punto di svolta di un intreccio con la memoria d Sirio e di Beppe che ora mi spinge a cercare di "dire" ciò che abbiamo vissuto insieme, con "le mie parole". So di riuscire appena a balbettare, ma la cosa non mi frena dal tentare d articolare qualche parola in questo scorcio della mia vita. Alle persone che mi chiedono che cose farò "dopo" rispondo, senza vergognarmi, che non lo so. E spiego (certamente più a me stesso che agli interlocutori!) che se mi metto a pensan al dopo vedo che mi viene da progettare quello che in pratica ho già fatto in passato, in edizione migliorativa si intende. E non voglio far questo, ma riuscire a far emergere quello che ancora mi può sorprendere e incuriosire. Disposto ad innamorarmi di ciò che ancora per me non esiste. Sento che la vita va continuamente rigiocata, anche alla mia età e nelle mie condizioni. Sono fortunato, e me ne rendo appena conto: sono un vecchio "giovane ricco", ma non riesco a sottrarmi all'invito ad abbandonare tutto per seguire Lui. A cercarLo nella vita di oggi, nella storia di oggi, nel mondo di oggi. E so che ques mia ricerca è sempre passata per i "luoghi" che non lo riconoscono, per i crocevia fiocamente illuminati dei sotterranei della storia, per tutto quello che non appartiene ai vari palcoscenici d questo mondo. Non sto pensando ad un fantomatico "cimitero degli elefanti", non sto pensando ad un "numero ad effetto". "Scomparire" qui - che so io - per riapparire in qualche missione africana o cose simili che lascio alla vostra fantasia. Cerco solo di scendere ancora qualche gradino verso il "ground zero" non delle Torri Gemelle di New York, ma della identità umana così concreta, materiale, storica, limitata, differente, condizionata da tante paure, contraddittoria eppure sorretta da una istintiva ricerca del senso intimo e pregnante della vita.
Luigi


In questo numero...
In questo numero di Lotta come Amore ho voluto raccogliere la memoria viva di don Leandro Rossi. Gli incontri, brevi ma intensi, che ho avuto con lui alla Cascina di don Gino ad Ottiglio hanno avuto per me l'effetto di buone iniezioni di fiducia per guardare avanti nella vita.
Ricordo alcune sue righe che meglio ne tracciano la linea di vita di teologo e di credente: "Vangelo è un annuncio di Gioia, di Pace, di Amore.
E' l'opposto della repressione (anche se a volte noi "cattolici" ci aggrappiamo alla repressione della legge per dispensarci dall'annuncio profetico: come sulla indissolubilità, sulla difesa della vita, ecc.). Non è annuncio dei castighi, perché Lui 'Non vuole che il peccatore muoia, ma che si converta e viva"'.
Dobbiamo però riconoscere le nostre colpe di annunciatori-peccatori, che ora proclamano non solo il Dono, ma anche il "per/dono". E il dovere morale non è che la risposta al "dono" di Dio" (L'utopia del Vangelo, edizioni Qualevita).
Nel ricordo di don Leandro, anche quest'anno si è rinnovato l'incontro con don Gino nel calore di una amicizia fraterna. "Abbracciati" dalla sua vitalità e dalla sua inossidabile gioventù di spirito, ci siamo ritrovati Beppe Giordano ed io, insieme a Margherita e Sara, "interpreti" di una delle tre giornate del tradizionale incontro di ferragosto. Lascio il resoconto delle tre giornate a Matteo e Chiara Santin attraverso il loro periodico telematico "Isaiah". Dall'Inghilterra dove vivono e lavorano continuano ad alimentare relazioni ed impegni con un gruppo di amici italiani e comunque con chi desidera interagire Con lon Ho riportato nelle ultime pagine sia il resoconto di Matteo che quello "in poesia" di Chiara, sia pure in stralcio per mancanza di spazio. Non a caso due modi di guardare allo stesso avvenimento cui hanno partecipato, dove il "maschile" e il "femminile" si esprimono non solo con contenuti, ma anche con modalità differenti riguardo alla medesima esperienza. Ho aggiunto poi due testimonianze. Una - diffusa in internet - sul vertice dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) di Cancun in Messico, da parte di Franco Giampiccoli che sottolinea i risultati positivi della Campagna "Questo mondo non è in vendita" nel sostegno a quei Paesi poveri che, collegandosi, hanno resistito ai tentativi dei Paesi ricchi di imbrigliare il mercato attraverso l'estensione del protezionismo e la legalizzazione di politiche tese a favorire colossali concentrazioni di potere. L'altra, tratta da Koinonia, vivace pubblicazione dell' omonima associazione con sede in Piazza S. Domenico 1, 51100 Pistoia, riporta la notizia apparsa sulla stampa internazionale, di tre suore domenicane americane condannate per "aver attentato alla sicurezza nazionale degli USA". Questo episodio riporta allo scritto di fratel Arturo: "E' la sfida del povero al potere, l'opposizione sempre perdente e allo stesso tempo vittoriosa dell'umile, del povero, della condizione sociale di assoluta inferiorità contro la forza, la superbia, la prepotenza". L'ho incontrato e salutato a Lucca qualche giorno fa "spremuto" come un limone da una serie infinita di incontri, convegni, celebrazioni religiose, con i suoi 90 e passa anni. Eppure quando prende la parola, come quando usa la penna, una radicalità calda, essenziale, propositiva, riporta i problemi che ci ingabbiano ad una semplificazione sapiente e coraggiosa che vince l'annebbiamento che ci confonde e ci impedisce di trovare una via d'uscita, un senso ed una prospettiva di vita.
Lo scritto, pubblicato da Ore undici, è sintesi dei suoi interventi di tutta questa estate.
Infine vorrei ricordare che è deceduto lunedì 15 settembre nella notte a Parigi a 65 anni, per un cancro fulminante al pancreas, il compositore cileno Sergio Ortega Alvarado, uno dei grandi musicisti della "nueva cancion cilena", autore delle più famose canzoni dell'esperienza di Uuidad Popular di Salvador Allende, come Venceremos e El pueblo unido jamas serà vencido. Nato il2 febbraio 1938 ad Antofagasta, studi al Conservatorio nazionale della università del Cile, sotto la direzione di Gustavo Becerra Schmidt e in seguito di Roberto Falabella, nella stessa classe con Luis Advis Vitaglich; iniziò a lavorare come funzionario del "Instituto de Extension Musical" e per sei anni nel teatro "Antonio Varas"; professore di composizione del Conservatorio nel 1969 e 1970, tenne poi fino al 1973 la direzione artistica del canale della televisione della Universidad de Chile; da trent' anni risiedeva a Parigi dove si era trasferito in esilio dopo il colpo di stato di Augusto Pinochet, ed era direttore dell'Ecole Nazionale de Musique di Pantin.
"C'è una generazione, la mia, che ha conosciuto l'America Latina e se ne è innamorata attraverso il Canto general di Pablo Neruda; c'è una generazione, la mia, che sentì il golpe cileno come una ferita al nostro cuore, una ferita non più rimarginata. C'è una generazione, la mia, che ancora piange ogni volta che intona la Marsigliese o l'Internazionale o El pueblo unido jamas serà vencido. C'è una generazione, la mia, che aprì le sue case agli esuli cileni così come quegli stessi esuli e i loro genitori a suo tempo aprirono le case agli esuli di Spagna. Ma non è della nostra infranta gioventù che vogliamo qui parlare.
E' della scomparsa di Sergio Ortega, l'autore appunto di quel "pueblo unido" che "jamas serà vencido, una delle voci della nueva cancion cilena che con Violeta Parra e Victor Jara seppe portare quel sud dolente e coltissimo, festoso e austero, in tutto il mondo, all'orecchio e al cuore dell'umanità intera.
Della scomparsa di Sergio Ortega, ma anche della gratitudine per le magnifiche sue canzoni qui diciamo. Della scomparsa, ma anche della presenza. E, verrebbe quasi da aggiungere con linguaggio capitiniano: della compresenza. Hasta sempre, Sergio" (dal notiziario del Centro di ricerca per la pace "La non violenza in cammino" di Viterbo).


La posta di fratel Arturo

Quest'anno, nell'incontro di Ore undici a Trevi ho sentito in modo particolare il vento dello Spirito e vorrei sviluppare le idee che sono affiorate in quella settimana di agosto. Al termine, Carlo Molari ha affidato ai convegnisti che stavano per partire due idee importanti: nell'occidente sta avvenendo un cambio di cultura, e questo porterà una semplificazione alla nostra fede religiosa. Non è certo poca cosa: è in gioco il passaggio dell'uomo da "rationalis naturae individuae substantia" (un essere individuo di natura razionale) a un essere-relazione che vive con gli altri e degli altri, fra gli oggetti della natura e degli oggetti della natura. Quindi non più individualità, ma alterità; non più razionalità come qualità dominante, solitaria, legge a se stessa, ma responsabilità e impegno di contribuire a una convivenza orientata dall'ideale della giustizia e della pace. Come? Riscoprendo i valori della giustizia e della pace dal basso (Asor Rosa) come parole nuove che ritroviamo profondamente ferite nella situazione concreta dei vinti.
Voglio cominciare comunicandovi la mia commozione e la mia sorpresa nel trovare delle coincidenze in pensatori che partono da diverse posizioni. Emmanuel Levinas nell' aprile del 1968 fu invitato dai colleghi universitari a tenere una conferenza nella settimana dei cattolici francesi che si celebrava a Parigi in quella stagione.
Gli veniva affidato il tema: Un Dio uomo? Come ebreo Levinas si riteneva il meno adatto a parlare dell'incarnazione del Verbo, ma accettò l'incarico per amicizia. E superò l'ostacolo, schivando il concetto di incarnazione e rappresentando il Dio che si umilia, si svuota per avvicinarsi all'uomo. E coglie questo abbassamento nella storia dell'uomo Gesù narrata nei vangeli: manifestarsi come umile alleato del vinto, del povero, del perseguitato significa appunto non rientrare nell'ordine. In questa disfatta, in questa timidezza che non osa osare, con questa sollecitazione che non ha la sfacciataggine di sollecitare e che è la non audacia stessa, con questa sollecitazione di mendicante e di senza patria che non ha dove posare la testa, alla mercé del sì e del no di colui che lo accoglie - l'umiltà scombina in maniera assoluta, non è del mondo. L'umiltà e la povertà sono un modo di stare nell'essere, un modo ontologico e non una condizione sociale. Presentarsi in questa povertà di esiliato significa interrompere la continuità dell'universo.
Aprire l'immanenza senza ordinarvisi.
E' la sfida del povero al potere, l'opposizione sempre perdente e allo stesso tempo vittoriosa dell'umile, del povero, della condizione di assoluta inferiorità contro la forza, la superbia, la prepotenza. Nel novembre del 2002 esce per l'editore Einaudi un libro di Alberto Asor Rosa "La guerra" . Il libro contiene considerazioni sulla superiorità dell'impero americano sulle altri parti della terra. Sono delle riflessioni nate dalla dichiarazione della guerra infinita del presidente Bush al terrorismo, dopo l'assalto alle due torri del 11 settembre. Asor Rosa si sofferma ad analizzare questo dominio assoluto dell'impero americano sul mondo, basato sullo strapotere delle armi senza possibilità di essere superato da qualsiasi altra potenza. Eppure questo ordine deve essere cambiato. E con quale forza? Vengono al pensiero dello scrittore delle idee molto simili a quelle citate sopra: l'ultima linea di resistenza è quella del pensiero e della voce, perché non c'è voce senza pensiero ... Questo di oggi è uno di quei momenti tremendi in cui il confronto e lo scontro non avverranno soprattutto, nonostante le apparenze, sul terreno dei mezzi militari e delle prove di forza materiali ma del possesso e della manipolazione della parola...
Penso a qualcosa di più lento e di più sotterraneo, a una specie di processo osmotico che valica frontiere e supera steccati senza che quasi nessuno se ne accorga prima che sia avvenuto, a una sorta di penetrazione delle parole attraverso le barriere del fuoco e dell' acciaio da cui siamo ormai tutti circondati e imprigionati e che ci dividono al nostro interno gli uni dagli altri, in modo diverso e misura, ormai stranieri in patria.
Lavorare sulla parola e per la parola è il compito che ci sta davanti.
Non sentite con me in questo brano l'eco delle parole di Levinas? E possiamo trame una prima conseguenza, che c'è una parola che attende di essere assunta e rimessa nel soffio dello Spirito per essere vitale e sfidare il potere delle armi che insieme è potere del denaro. Si sente dire spesso: che può fare uno di noi contro lo strapotere dell'impero? La prima cosa da fare è avere fede nella superiorità e l'invincibilità della parola, che interrompe la continuità dell'universo. Sono parole di fuoco. Devo interrompere la scrittura e mettermi in piedi perché queste parole non consentono altra risposta se non eccomi.
Il mondo ha urgente bisogno di Gesù di Nazaret; questa non è una declamazione oratoria ma il risultato di una esperienza e di una paziente ricerca. E il compito di noi credenti è quello di rispondere a questa urgente richiesta. Riprendo Asor Rosa: ciò di cui abbiamo bisogno sopra il clamore assordante del conflitto, il quale tutto cancella e rende sordi anche i meglio disposti, è che torni a risuonare e a farsi udire una modesta voce umana... La voce dell'uomo comune in qualcosa si distingue. Non urla e non predica, non ingiuria e non pretende: si limita a presumere, le basta dire. E con tono quieto quasi sommesso dice (come capita alla sapienza degli uomini comuni di tutti i tempi e di tutte le razze quello che già tutti conoscono come giusto e accettabile, e, solo che lo si voglia, possibile. "Non contenderà, né griderà, né alcuno udirà nelle piazze la sua voce. Egli non spezzerà la canna incrinata e non spegnerà il lucignolo che fuma, finché non abbia fatto trionfare la giustizia. E nel suo nome le genti spereranno" (Is. 42,3 - Mt. 12,18-21). Dunque l'uomo sarebbe Lui, e più esplicitamente Asor Rosa allude a questo bisogno: riflettiamo sull' enigmatica definizione che Daniele dava del profeta chiamandolo Figlio dell'uomo, definizione che Matteo riprendeva senza ulteriori specificazioni per il Cristo (Mt, 24,40). Perché "fìlius hominis"? In un contesto in cui si aspetterebbe il più ovvio "filius dei"? Perché, se si guarda alla radicalità dei processi che la comparsa del profeta mette atto nella visione stessa della storia umana, si può arrivare a concepire che il profeta è dunque Cristo, è figlio di Dio solo in quanto è figlio dell'uomo, mentre non ha nessun senso, neanche teologico, sostenere che è figlio dell'uomo in quanto è figlio di Dio... "filius hominis", la misteriosa definizione che attinge il suo significato alla natura stessa della sua fragile ma inflessibile carne di uomo, ha continuato a circonfonderlo, evitandogli sia la profanazione dei miserabili, sia le deificazioni dei sacerdoti. Chi crede nella divinità di Gesù - e io mi professo di quel numero - se veramente ama il suo Maestro deve prima di tutto prendere atto di questo inarrestabile cambio di una cultura che trovare tematizzata, e fatta sistema filosofico, in Emmanuel Levinas e prima di lui in Husserl e Heidegger. Una presentazione di Gesù uomo in tutte le sue dimensioni e spogliato totalmente della sua divinità come nell'opera del francese Renan l'eco della quale si spense solo al tempo della mia giovinezza, e insieme la biografia di Giovanni Papini, sono assolutamente impensabili oggi perché l'uomo della post-modernità non ha più la possibilità di pensare nel modello dell'essere. Nella esigenza che Asor Rosa esprime nel libro che sto citando, e nel precedente "Fuori dall'occidente" non c'è né l'affermazione, né la negazione della divinità di Gesù, perché il desiderio e l'invocazione della sua presenza sono collocati fuori della categoria dell'essere: sarebbe ora che qualcuno lo staccasse di lì (dalla croce) per rimetterlo sulla sua terra e curargli le piaghe. Ciò di cui abbiamo bisogno è di questo semplice gesto umano - un gesto di gratificazione e insieme di risarcimento. Non si chiede ai discepoli di negare la divinità né di proclamarla a gran voce, né di vietare ai non credenti che esprimano il bisogno che il Maestro rimetta i piedi nella sua terra. Anche Giovanni Papini chiudeva il suo libro con una invocazione al Cristo di tornare fra noi; ma un lettore sentiva molto retorica questa invocazione, e più oggi di ieri. Chi segue l'evoluzione del pensiero umano e guarda al futuro del cristianesimo e ad una nuova evangelizzazione e ad una nuova inculturazione, due novità proclamate con insistenza in un certo tempo da Giovanni Paolo II costituiscono un progetto possibile solo rimettendo il Cristo sulla sua terra, tenendo presente che per il suo riapparire può mettere nuovi processi nella storia umana. Non aveva indicato questo il Concilio Vaticano II affermando che il centro della predicazione di Gesù è il regno di Dio? Ma lo spirito del concilio poteva essere accolto solo con una rinunzia a secoli di riflessione teologica innestata sulla filosofia dell'essere. La teologia della liberazione offriva un saggio che questa svolta è possibile senza intaccare il credo cattolico. Evidentemente questo credo dovrà necessariamente subire delle semplificazioni distinguendo le verità essenziali da quelle secondarie. Tutto questo è faticoso; ma la vera fatica dell'uomo, quella a cui non può sottrarsi, non è di permettere alla verità di entrare progressivamente nell'umanità per liberarla? Un processo che non è indolore; ma che è quello che Gesù ha messo nella storia e che può attualizzarsi nella storia solo attraverso la persona liberata. Dio non agisce nell'umanità se non attraverso di noi; è risaputo, ma generalmente non accettato. Per cui la voce dello Spirito che si è espressa nel concilio oggi rimbalza dalle pietre del tempio su quelli che stanno fuori, e il compito di noi credenti è di farci portavoce, accettando il dolore e la pazienza dell'attesa, perché tutt'oggi ci convince che non viene accolta. E' molto bello pensare che il tempo non richiede a noi che vogliamo con tutta l'umiltà, includerei fra gli amici, non dobbiamo affilare le armi per quelle battaglie apologetiche che si spensero nel pontificato di Benedetto XV (e questo è incontestabile merito del suo breve pontificato) ma dobbiamo attualizzare nel mondo questo qualcosa di più lento e sotterraneo.
Le parole spogliate di tutti gli spigoli e da ogni segno d'arroganza saranno le sole capaci di trapassare le barriere del fuoco e dell'acciaio.
La posizione di questa generazione di cattolici non è certamente più facile di quella degli apologeti, dei legionari del fondamentalismo, ma certamente più evangelica, più veramente cristiana: Ma come? Non dovete attendere la mia risposta, cominciate a pensarci: la posta in gioco non è piccola né poco importante. Si tratta di preparare le strade al Cristo schiodandolo dalla croce. Nessuno può curare le sue piaghe. Come il rabbino lo ha incontrato alle porte di Roma, egli sa come fasciare le sue piaghe, ma è pronto ad alzarsi e a camminare se noi ci dichiariamo pronti a seguirlo. E apriremo un'epoca messianica.

Fratel Arturo



Il prezzo di una denuncia profetica

Hanno detto e hanno tentato di far credere al mondo che l'Irak nascondeva armi di distruzione di massa e che la guerra era inevitabile perché bisognava scovare ed eliminare quelle armi (mai trovate, per la verità). Ma se qualcuno prende sul serio questo discorso e cerca di disattivare, anche solo simbolicamente, queste armi micidiali, va a finire in prigione, per aver attentato alla sicurezza dello stato. E' quanto è accaduto a tre suore domenicane negli Stati Uniti. Ecco i fatti. Suor Ardeth PIatte (66 anni), Suor Carol Gilbert (55 anni) e Suor Jeckie Hudson (68 anni), appartenenti alla Congregazione "Grand Rapids Dominicans", il 6 ottobre 2002 (anniversario dell'inizio della guerra in Afghanistan) sono entrate in una base missilistica vicino a Greeley nel Colorado, hanno colpito con un martello il cemento del silos che contiene missili "Minuteman III" a testata nucleare e vi hanno disegnato sopra delle croci con il loro sangue. Poi si sono raccolte in preghiera e hanno cantato: "O Dio, insegnaci ad essere costruttori di pace in un mondo ostile".
Dopo circa 40 minuti, diversi militari con le armi puntate hanno fatto irruzione nel recinto e hanno ammanettato le suore.
La questione è stata portata davanti alla corte distrettuale statunitense di Denver, che si è posto questo problema: le tre suore pacifiste, armate di cesoie, di martelli di uso domestico e del loro sangue, hanno costituito una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti d'America? La sentenza definitiva si è avuta il 25 luglio scorso: per la "pericolosa irresponsabilità" del gesto compiuto sono state condannate a tre anni e cinque mesi Suor Ardeth, a due anni e nove mesi Suor Carol e a due anni e sei mesi Suor Jackie. Inoltre dovranno restituire la somma di $ 3.080,40 e pagare una multa di $ 200 per ciascuna.
Pur trattandosi di una manifestazione evidentemente simbolica, e di un gesto di resistenza civile garantito dal diritto internazionale, le tre suore sono state punite in modo esemplare. Colpisce il fatto che la più grande potenza militare della terra si senta messa in pericolo da tre suore inermi.
Ma colpisce ancora di più il coraggio e la radicalità testimoniati dalle tre donne, non solo in quel gesto ma in tutta la vicenda del] loro detenzione e delle fasi del processo. Suor Carol Gilbert ha spiegato i motivi che le hanno spinte al loro impegno: "A ispirarci è stata una conferenza tenuta tempo fa dalla celebre pedagogista Helen Caldecott, duram la quale ha spiegato gli effetti che la guerra nella psicologia dei bambini ed anche il fatto di essermi trovata a parlare con un gruppo d sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki.
Per me ormai è chiaro che tutti noi abbiamo la responsabilità di parlare con forza contro le armi di distruzione di massa, in qualsiasi mano si trovino".
Durante il processo, nonostante le continue obiezioni del pubblico ministero sulla pertinenza, le suore hanno continuato la loro azione non violenta di protesta contro l'uso di armi illegali. Hanno detto di avere una coscienza, di aver fatto dei voti che chiedono loro di dare testimonianza. Nella loro chiesa, di fronte al loro Dio, la povertà, la fame, la mancanza di casa e le armi di distruzione di massa sono un abominio. "Qualsiasi arma nucleare, per il solo fatto che esiste, è un crimine di genocidio".
Mentre il pubblico ministero parlava della distruzione volontaria che avevano provoca del loro affronto alla legge, all'ordine e alla sicurezza militare, la piccola Suor Ardeth ha ringraziato tutti - i giurati, il giudice, il pubblico ministero, perfino gli agenti dell'FBI. Ha parlato loro di fede, di pace, di umanità, di guerra e di morte; ha detto che bisogna cercare di vivere una vita pura, autentica, santa. La stessa suora tempo fa, in risposta ad una lettera di solidarietà che le avevo scritto insieme a delle suore domenicane italiane e ad altri amici, diceva "Siamo tutti per le soluzioni non violente dei conflitti e non per guerre drastiche e barbari assassinii di bambini, di donne e di uomini, come sta succedendo ora per le strade dell'Irak. Non possiamo che piangere per questa tragedia... Preghiamo perché qualunque sacrificio dovremo affrontare, se saremo trattenute in carcere, possiamo farlo con animo pacificato".
Il loro coraggio ha raccolto molti consensi nel mondo e molte iniziative sono state organizzate negli Stati Uniti per appoggiare la loro causa. Il 26 luglio, all'indomani della sentenza, è stata organizzata la giornata "Adotta un silo di missili", per diffondere la consapevolezza dell' esistenza illegale e pericolosa di arsenali nucleari negli Stati Uniti, in coerenza con la lotta delle tre suore condannate. Esse affermano che gli alti investimenti in armi, in particolare quelli destinati alle armi di distruzione di massa, sono soldi tolti alla lotta per lo sradicamento della povertà e della fame. Gli Stati Uniti hanno missili nucleari di massima allerta, pensati per uccidere indiscriminatamente.
Le suore hanno creduto fosse loro dovere - in considerazione dei principi di Norimberga, della legislazione internazionale e dei dogmi della loro fede - di opporsi ad essi.
Poco prima della sentenza, una di loro ha dichiarato: "Qualunque sia la sentenza che riceverò, l'accetterò come un mio contributo alla causa della pace e con l'aiuto di Dio spero che la prigione non abbatta il mio spirito". E poi rivolta al pubblico della sala ha esclamato: "La speranza del mondo poggia sulle spalle di noi tutti. Noi la nostra parte la stiamo facendo. E voi?" .
E' davvero un paradosso! Diane Barman ha scritto sul Denver Post (08/0412003): "La fede delle suore colpisce il punto debole degli USA... Alcuni dicono che sia stata un'azione inconcludente, altri che sia stato un sacrilegio, altri che sia un idealismo invaso da furore omicida. Per le suore è ciò che dà significato alla loro vita. Esse hanno preso posizione per la pace. Hanno obbligato il governo USA e la gente a prestare attenzione. Il verdetto non ha importanza. Esse hanno vinto" .

Aldo Tarquini o.p .
(Koinonia n.9 settembre 2003)


Il testamento morale di don Leandro Rossi

La Chiesa lodigiana cui appartengo non mi ha mollato, ma mi ha dato un incarico che si può tradurre così: l'avvocato dei poveri.
Di fronte alla Chiesa lodigiana e italiana che si interrogano sul vangelo della carità, per poter essere io credibile nello svolgimento del mio compito, sento il bisogno di fare un pubblico esame di coscienza.
Chiedo, pertanto, perdono ai poveri:
1. per aver difeso (come cattolico e come moralista) la proprietà privata dei ricchi che l'avevano, più del diritto ad accedere alla proprietà dei poveri, che non l'avevano.
Non conoscendo i padri della Chiesa che dicevano "se sei ricco, o sei ladro tu o lo sono stati i tuoi avi";
2. per non aver fatto autenticamente per tanto tempo l'opzione dei poveri, scambiando per retorica l' annuncio evangelico portato ai poveri, credendolo puramente consolatorio;
3. per aver fatto la carità con degnazione, convinto di privarmi d qualcosa di mio, mentre non facevo che ritornare loro per giustizia quanto era stato loro sottratto;
4. per averli resi oggetto delle mie attività di beneficenza, invece di considerarli soggetti capaci di partecipare attivamente alla loro promozione umana e sociale;
5. per aver pensato che la salvezza (nella Chiesa e nel mondo) venisse dall'alto, mentre viene dal basso: dai poveri come Cristo, dalle altre "pietre scartate che sono diventate testata d'angolo";
6. per non aver tratto tutte le deduzioni politiche dalla scelta preferenziale per i poveri, credendo di poter conciliare la scelta di centro, moderata, con l'opzione per loro. Con don Milani dovrò dire anche politicamente "non mi si può costringere a stare o con i poveri senza Dio, o con Dio senza i poveri".
Li debbo scegliere sinceramente entrambi, senza quadratura del cerchio;
7. per tutte le volte che ho fatto l'avvocato dei poveri come un avvocato d'ufficio.
E fate festa quando chiudo i giorni terreni per passare ad altra vita, quella beata.
Borgonovo Val Tidone, 31.10.1995
Don Leandro Rossi

Il saluto della sua "famiglia".
Dopo tante battaglie
per la pace infine la pace.

Il tuo sguardo segnato dalla malattia
si è rasserenato;
si è riaperto al sorriso.

E non è stata solo
la malattia a segnarti.

Ti ha segnato
la solitudine e di prete abbandonato
in una piccola parrocchia.

Ti ha ferito a sessant'anni
fare le valigie e trasferirti
in un altro territorio.

Ti ha amareggiato l'indifferenza,
ti ha offeso la grettezza
di chi ti liquidava
come comunista.

Eppure sei sempre stato
uomo di Chiesa;
profondamente sacerdote.

Hai interrotto gli studi sapienziali
e l'insegnamento dottrinale
dopo che hai riaperto il Vangelo.

L'hai riletto con gli occhi de gli umili.

Forte nella fede non hai avuto paura
ad affrontare le povertà del tossico
e dell'emarginato.

La tua casa è diventata rifugio.

La tua mensa luogo di convivialità.

Hai accolto ridando dignità,
hai richiesto il rispetto
per restituire affetto.

Ti sei arrabbiato,
hai urlato ed imprecato
perché volevi il meglio
da ognuno.

E poi hai consolato
ed asciugato le lacrime
perché invece arrivava il peggio.

Con fatica hai sfidato
il tuo temperamento sanguigno
per arrivare alla mitezza,
ma l'opera è rimasta incompiuta.

Ti sei nutrito della povertà
e l'hai vissuta come valore
in contrapposizione
alla decadenza della ricchezza.
Hai amato la pace,
sfidando opportunismi politici
e strane coalizioni.

L'hai urlata in piazza,
l 'hai predicata in chiesa,
l'hai vissuta ogni giorno.

Non sei stato un uomo fortunato,
ma non per questo infelice.

Sei stato appassionato,
talvolta testardo,
hai combattuto ed hai lottato
per ciò in cui credevi.

Adesso riposati Leandro,
altri proseguiranno.



Questo mondo non è in vendita

Con le organizzazioni internazionali che domina, finora, in modo incontrastato - Organizzazione mondiale del commercio (WTO), Fondo monetario internazionale, Banca mondiale - il mondo sviluppato predica da anni il dogma della liberalizzazione, subordinando prestiti e aiuti al Terzo mondo all'apertura dei loro mercati senza ostacoli tariffari. Ma ha continuato a contraddire questa dottrina mantenendo il protezionismo dei propri mercati agricoli con dazi che bloccano le esportazioni dei paesi del Sud e rovesciando sulla propria agricoltura una valanga di sussidi interni (alla produzione) e esterni (all'esportazione). Con questo sistema il mondo sviluppato ha riversato nel Terzo mondo le proprie eccedenze alimentari a prezzi sottocosto (dumping) rovinando la produzione locale. Questa colossale menzogna, più o meno mascherata o nascosta, è stata denunciata in faccia al mondo alla V Conferenza ministeriale del WTO a Cancun, Messico, dai paesi del Sud e dell'Est che si sono rifiutati di sottoscrivere un accordo che non prevedesse un avvio dello smantellamento di questo protezionismo in tempi rapidi e certi.
E' questa dunque la grande novità che emerge sull' orizzonte economico mondiale: una variegata coalizione di paesi del Sud e dell'Est del mondo per la prima volta hanno tenuto duro e non si sono piegati a raccogliere qualche briciola sottoscrivendo qualche compromesso dell'ultima ora. In testa il G21 (con numeri varianti che sono arrivati a 28), guidato dal Brasile di Lula - invano pressato e ricattato dagli USA anche con insistenti telefonate di Bush - dall'India, la Cina e il Sud Africa. Ma accanto a questa colossale alleanza, che rappresenta più della metà della popolazione mondiale (USA e UE ne costituiscono il 10% ), altre coalizioni, come quella del gruppo Africa-Caraibi-Pacifico (ACP), o quella che si è presentata come un G90 unendo le rivendicazioni dell'Unione Africana (UA), del gruppo ACP e dei Paesi meno sviluppati (LDC). E' questa varietà di alleanze e connessioni che ha permesso di sopperire al cedimento di alcun di mantenere un fronte sostanzialmente compatto di fronte allo strapotere di USA e UE che non immaginavano di trovare una resistenza così agguerrita.

Il fallimento di Cancun
In un intreccio complicatissimo di negoziati basati sul deleterio principio del "trade off" - per cui ogni accordo raggiunto può essere ceduto come compensazione di un altro in un gigantesco "mercato delle vacche"- sono emersi i due scontri fondamentali.
Il primo è quello sui sussidi e dazi agricoli a cui si è accennato, che ha avuto il suo caso emblematico nel cotone. I 25.000 agricoltori degli stati del sud degli USA ricevono dallo governo sussidi che sono il triplo degli aiuti che gli USA destinano a 500 milioni di africani. E 4 stati africani - Benin, Burkin Faso, Mali e Ciad - a causa di questa concorrenza sleale perdono ogni anno più di 250 milioni di dollari di reddito da esportazione. La richiesta di questi paesi di eliminare progressivamente e rapidamente le sovvenzioni è stata seccamente respinta dagli USA. L'Europa che inizialmente sembrava orientata a non opporsi alle rivendicazioni africane (la sua produzione di cotone non arriva a13% del totale mondiale) si è presto ricreduta per tema che un cedimento su questo fronte si ripercuota sui propri prodotti sussidiati. In generale, sia USA che UE - che prima di Cancun si erano accordati per un generico impegno a rivedere le sovvenzioni, senza precisazioni né scadenze, illudendosi che questo bastasse - di fronte alla decisa offensiva da parte del Terzo mondo hanno puntato i piedi chiudendosi in difesa. La loro arrogante intransigenza era arrivata al punto pretendere che diventasse permanente il provvisorio "patto di pace" che impediva ai paesi membri di fare ricorso al tribunale del WTO in materia agricola.
Il secondo nodo era costituito dai 4 "nuovi temi", detti di Singapore: facilitazioni per il commercio, trasparenza degli appalti, investimenti, regole per la concorrenza.
Di questi, il più pericoloso è quello sugli investimenti, che consentirebbe alle multinazionali di invadere definitivamente i mercati del Sud e dell'Est comprando enti pubblici privatizzati o ditte fallite a causa della spietata concorrenza, integrando così i concorrenti locali nel proprio sistema o riducendoli al ruolo di fornitori subordinati o eliminandoli.
Un Accordo multilaterale sugli investimenti (MAI) era già fallito nell' ambito OCSE nel 1998 (anche grazie ad una decisa azione di denuncia del Consiglio ecumenico delle chiese), era fallito anche a Seattle nel 1999, e fallisce ora anche a Cancun. Sui 4 nuovi temi molti paesi del Terzo mondo, in particolare India, Cina e Malesia, sono stati molto attenti. Hanno contestato la legittimità della proposta di negoziato dei 4 temi in blocco, prevista a Doha (2001) solo in presenza di un accordo generale che evidentemente a Cancun non c'era. Hanno resistito anche di fronte alla proposta di negoziare su due dei temi, appalti e facilitazioni per il commercio, che stavano particolarmente a cuore agli USA (che per gli investimenti ormai puntano alla trattativa bilaterale in cui hanno maggiori possibilità di pressione e ricatto). Neppure la proposta di trattare un solo tema, le facilitazioni per il commercio (migliore accesso ai mercati per i prodotti industriali) è stata accettata.
Il doppio scontro irrisolto, sull'agricoltura e sui nuovi temi, ha quindi determinato il fallimento di Cancun. Su ambedue i tavoli il Terzo mondo ha trovato il coraggio di difendere il suo diritto alla vita e ad uno sviluppo controllato. Lo ha fatto in modo pacato e fermo, come risulta dalle dichiarazioni del ministro delle Mauritius che alla conferenza stampa seguita alla chiusura della Conferenza ha detto a nome dei paesi ACP, LDC e Unione africana:
"Noi paesi in via di sviluppo siamo sempre impegnati per un'agenda commerciale multilaterale, ma dobbiamo difendere gli interessi dei paesi in via di sviluppo.
A Doha abbiamo lanciato un' agenda di sviluppo. Lo sviluppo deve essere al centro di questa agenda. Siamo stati molto propositivi e costruttivi, qui a Cancun. Abbiamo presentato le nostre posizioni in tutti e cinque i gruppi di lavoro. Quando è uscito il testo Derbez (la proposta di dichiarazione finale) molti di noi hanno realizzato che non avevano ascoltato per niente le nostre richieste... Noi abbiamo bisogno dei paesi ricchi e vogliamo lavorare con e non contro di loro. Ma se ci sono differenze noi vogliamo sederci, parlare con loro e dire la nostra".
Un terzo nodo stava venendo al pettine, quello dell' Accordo generale sul commercio dei servizi (GATS). Con la conclusione di questo accordo, già da tempo avviato, si sarebbe avuta la concorrenza privata nell' ambito di servizi fin qui pubblici come la sanità, l'istruzione, i trasporti, le comunicazioni, la distribuzione dell'acqua, ecc. Erano saltate le scadenze entro cui i paesi membro dovevano dichiarare quali servizi si offrivano di liberalizzare (avevano risposto una trentina di paesi su 148). Ma la bozza di risoluzione finale prevedeva già una pezza sullo strappo, l'invito ai paesi che non avevano risposto a farlo "appena possibile"; aveva smentito la flessibilità stabilita originariamente (possibilità per i paesi membro di non fare alcuna offerta di liberalizzazione); aveva ignorato i testi presentati dai paesi del Terzo mondo e la vastissima richiesta della società civile di escludere l'acqua dalla trattativa negoziale; e aveva ribadito la finalità di "raggiungere progressivamente il più alto livello di liberalizzazione senza nessuna esclusione". Tutto questo pericoloso complesso di accordi è naufragato a Cancun insieme ai mancati accordi su agricoltura e nuovi temi.

Quali prospettive?
A poche ore dalla conclusione di Cancun è difficile dare una valutazione complessiva. Come hanno fortemente auspicato le organizzazioni della società civile, a Cancun il WTO è stato fermato. L'estensione della sua già gigantesca agenda è stata rifiutata; la sua impostazione di regole e procedure poco democratiche (per es. le "green room", incontri decisionali ristretti su invito) è stata contestata; la sua incapacità di costruire una governance economica accettabile è stata messa in evidenza. D'altra parte c'è il rischio che l'indebolimento della prospettiva multilaterale in economia, come già in politica (vedi ONU) , favorisca la spinta verso la prospettiva bilaterale dominata dagli Stati Uniti e condotta con la nota arroganza.
Il negoziatore statunitense Zoellick ha già detto di aver "preso nota dei paesi che hanno giocato un ruolo costruttivo a Cancun e delle nazioni che non lo hanno giocato". Tutto si sposta ora a Ginevra, alla sede d WTO, dove a metà dicembre la discussione sarà ripresa a livello di ambasciatori. Sembra impensabile che si arrivi con qualche risultato alla data dello gennaio 2005 fissato da Doha per la conclusione dell'agenda proposta, ma senza dubbio le trattative andranno avanti. Molto dipenderà dalla capacità dei paesi che si sono coalizzati a Cancun, in primis il G21, di mantenere una posizione comune senza lasciarsi sgretolare dai ricatti e dalle offerte di soluzioni bilaterali. Certo i paesi del Terzo mondo potranno contare sull'alleanza stabile di un'imponente numero di organizzazioni della società civile che a Cancun non si sono limitate a manifestare e a seguire i lavori, ma hanno fornito ai paesi del Sud e dell'Est del mondo un importantissimo supporto di conoscenza e di esperienza nella trattativa economica e diplomatica. La campagna Our world is not for sale, in Italia "Questo mondo non è in vendita" ha concluso la sua partecipazione a Cancun con una forte dichiarazione: "A Seattle abbiamo vinto e il movimento era in strada. Oggi questa vittoria conta ancor più perché il movimento era dentro e ha sostenuto i più poveri nella rivolta. Oggi è finita la democrazia del terrore del WTO in cui il consenso era estorto con ricatto".
Una pagina importante è stata girata nella storia dell'economia mondiale. Speriamo che su una nuova pagina si possa scrivere con meno arroganza e con più giustizia.

Franco Giampiccoli
Coordinatore della Commissione "Globalizzazione e ambiente"
(GL.AM. Federazione Chiese Evangeliche in Italia)


Isaiah a Ottiglio

Isaiah (se vuoi leggi all'inglese Aisaia) e' 'voce di uno che grida nel deserto per preparare la via'. Isaiah e' un foglio dedicato a chi vuole leggere la storia senza fretta. Isaiah interverrà solo quando e dove sarà necessario. Isaiah è il profeta che accusa il proprio popolo e dunque anche se stesso. Isaiah è colui che parla di cooperazione, non di competizione.
Isaiah sei tu quando hai voglia di comunicare. Isaiah è uno spazio bianco da riempire con le tue idee purché intellettualmente oneste. Isaiah ha bisogno delle tue mani per compiere la propria missione: fotocopialo e distribuiscilo dove e a chi vuoi, ma ricorda:
Isaiah finirà quando si farà pagare.
Se vuoi riceverlo e dare il tuo contributo di idee scrivi a:
Chiara e Matteo Santin, 18 Crayford Road, Brighton BN2 4DQ, UK; chiamasantin@bctalk.net
Isaiah e' stato presente il 15, 16 e 17 Agosto in Cascina 'G' ad Ottiglio (AL) per partecipare all'incontro organizzato come ogni anno da Don Gino Piccio. Preti operai come Beppe, Gianni, Giuseppe e Luigi hanno dato spunti di riflessione a tantissimi amici che sono passati in cascina per confrontarsi sul tema 'Dare credito alla bontà dell'uomo'. I pensieri e le sensazioni circolate in quei giorni sono stati filtrati dalla propria sensibilita' e dal ricordo e messe in comune su questo foglio.
"L'essenza dell'ottimismo non è guardare al di là della situazione presente, ma è forza vitale di sperare quando gli altri si rassegnano; è la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi; una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, ma lo rivendica per se".
Bonheffer
La relazione a misurare il tutto
Dare credito a qualcuno implica innanzi tutto un senso di fiducia. Una fiducia viziata dal fatto che di solito il credito si dà solo dietro garanzia, la garanzia che viene dal conoscere l'altro o dal conoscere il contesto che lo circonda. Un modo molto razionale di dare credito e quasi sempre associato ad un rapporto economico dove i sentimenti sono del tutto relativi.
Ma quando si tratta di dare credito alla bontà dell'uomo è questo criterio possibile?
Una sfiducia smisurata sembrerebbe cosa ingenua e trasmetterla impresa ardua visto il senso di sfiducia che in molti regna. Chiedere garanzia per dare credito alla bontà dell'uomo forse non è cosa così rozza.
Ma quale garanzia si può offrire quando in gioco c'è la bontà cosa di per sè così difficile da definire?
La risposta viene dal comune denominatore che ha caratterizzato le riflessioni dei relatori che sono intervenuti durante i tre giorni di riflessione nella Cascina G ad Ottiglio a ferragosto. Un comune denominatore che è stato la parola 'relazione' e le strade per costruirla.
Per Beppe la relazione si costruisce innanzitutto diventando capaci di pensarsi, di rappresentarsi avendo fantasia su se stessi. Imparare a sognare e a liberare il sogno sono i primi passi che l'uomo compie verso la relazione con l'altro. Deve subentrare poi il senso di reciprocità verso l'altro che ha valore immenso perché provoca nell'uomo una reazione ad essere migliore spingendolo ad agire e non solo ad essere. E' questa la traiettoria dell'innamorato che esce dagli schemi per sognare, commettere pazzie riconoscendo nell' altro il proprio reciproco, colui che è complementare. L'altro allora diventa il mio specchio in cui la mia immagine si migliora. La relazione nel segno della reciprocità rinnova e migliora la persona. Ma l'uomo innamorato che esce da se stesso in cerca della relazione e del proprio reciproco è anche l'uomo che sa e vuole raccontare e raccontarsi. L'uomo innamorato sa raccontare la propria esperienza e la propria vita passata e presente. L'uomo innamorato accetta il futuro con i propri rischi perché sente il bisogno di andare oltre la paura. Ed è per questo che egli accetta il mistero che è legato alla vocazione che ciascuno riceve. L'uomo innamorato, infine, è l'uomo della gratuità intesa come predisposizione a non pesare, ma accogliere e saper far prevalere l'emozione sulla ragione.
L'uomo innamorato è dunque il paradigma da cui partire per relazionarsi e il rapporto uomo/donna il paradigma della relazione come reciprocità e complementarietà.
Nella complessità della massa tutto ciò diventa più difficile da riconoscere e attuare. Anche per l'uomo innamorato diventa difficile individuare l'altro tra molti. Nella società la relazione diventa più complessa, la genuinità è persa e l'oppressione condiziona le culture. In queste circostanze l'unica soluzione è quella di imparare ad ascoltare il grido dell'uomo, quello che è comune a tutti indipendentemente dalla provenienza di razza, culturale e religiosa. Anche nella massa con tutte le sue deviazioni, l'uomo con le sue istanze e esigenze è riconoscibile al di là di ogni barriera artificiosamente predisposta.
Nel pomeriggio dello stesso giorno Luigi ha guidato i pensieri dei presenti sulla stessa linea di Beppe, ma usando la rappresentazione e la musica come mezzo.
Il libro biblico del Cantico dei Cantici è stato preso in prestito per ricordare le caratteristiche della relazione dell 'uomo e della donna innamorati. La capacità di manifestare ciò che è nascosto, l'utopia e la pazzia di credere ciò che è incredibile, il dono di guardare il mondo che ci circonda come uno spettacolo sono stati recitati e cantati con grande abilità; e ancora è stata ricordata l'importanza della pazzia dell creatività che rifiuta l'autostrada dell'appiattimento e crede che la vita si data per creare un compimento. Il Cantico dei Cantici letto in maniera così originale da Luigi è risuonato come un canto che libera la donna dal suo ruolo di procreatrice per restituirla al suo vero ruolo di compagna di cammino, unica speranza per una vera relazione che libera dalla solitudine esistenziale. Il Cantico dei Cantici ha riportato alla consapevolezza dei presenti l'importanza dell'amore naturale separato da ogni moralismo o spiritualismo, l'importanza di un corpo che non si possiede, ma che è parte dell'essere e pertanto lo aiuta a distinguersi in maniera del tutto originale. Il Cantico dei Cantici è stato dipanato in un continuo gioco di luci e ombre in cui le dualità del "qua e là", della "presenza e assenza", del "silenzio e parola" emergono in tutta la loro bellezza e mistero: "silenziosa come la notte...".
Nel secondo giorno d'incontro Gianni ha invitato a creare nuovi spazi di vita.
Per Gianni è impossibile dare credito alla bontà dell'uomo fin quando saremo abituati ad avere la lavagna dei buoni e dei cattivi. Se ci si sofferma a contemplare tutto appare buono perché si ritorna inevitabilmente alle origini e in quelle origini l'immagine dell'uomo diventa l'immagine di Dio. Dio ha dato credito all'uomo e alla sua bontà perché ha messo tutto nelle sue mani. Dio dunque non ha usato una lavagna dei buon e cattivi, ma ha messo tutto a disposizione di tutti e lo ha fatto senza mai perdere la pazienza. Dio parla, ascolta, richiama, perdona, visita, custodisce, soffre e gioisce. L'uomo deve essere dunque custodito, di esso bisogna averne cura e non consumarlo. Ma aver cura è anche l'essenza dell'uomo il parametro per essere vero uomo. L'aver cura è energia creatrice ed è conseguenza della capacità di saper sperare nell'uomo. Come diceva S. Agostino, la speranza ha due figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno di denunciare le ingiustizie del mondo e il coraggio per cambiarle. Si tratta dunque di non tifare sempre per i primi, ma dare credito anche agli ultimi e concedere loro quello che è il loro tempo per maturare.
Una relazione dunque da coltivare all'insegna dell'aver cura, ma anche una relazione che cresce in un realismo ottimista senza sfuggire all'oggi.
Infine Giuseppe, nell'ultimo giorno ha trovato le radici della bontà a cui dare credito nella donna. La donna, tramite l'amore di cui è capace, è la speranza di salvezza per l'uomo e soprattutto per l'Occidente.
La donna con le sue caratteristiche è anima della spiritualità, è risveglio dell'interiorità, è capacità di ascolto, è capacità di attesa del nuovo. La donna incinta attende nel proprio corpo qualcuno che non conosce e nella gestazione impara ad attendere l'ignoto. Questa attesa è attesa dinamica perché lascia spazio all'intuizione, arresta la razionalità nella misura in cui deve custodire qualcosa senza capire. Al contrario dell'uomo che costruisce qualcosa prefigurandosi l'obiettivo con la sua ragione, la donna attende ciò che verrà senza interferire. La conseguenza di questi due differenti approcci è che l'uomo soffre di blocchi nei suoi processi affettivi, mentre la donna sviluppa la capacità di emozionarsi e riconosce che c'è qualcosa che è di più di ciò che la ragione può giustificare e non c'è pretesa di dominare la realtà. E' solo da questo presupposto che può nascere una vera speranza; speranza che è scandalo per la ragione perché non è giustificabile attraverso essa.
Grazie alla donna e alla sua capacità di attesa e di emozione una nuova relazione può dunque svilupparsi che sia libera da blocchi affettivi e da mancanza di speranza.
Una relazione dunque lontana da concetti precostituiti. Una relazione costruita sul senso ebraico di parola che era <cosa>, <materialità> e non sul senso greco di logos che è <idea> e <concetto> con la tentazione implicita di dominare la realtà.
Ed è in questa capacità di attesa e in questa capacità di emozionarsi che l'intuizione diventa storia, la bontà dell'uomo e la sua capacità di prendersi cura diventano strumento di liberazione in cui chi ama illumina colui che ama senza sfiorarne l'ombra. La relazione prende dunque la propria vera fisionomia grazie ad un rapporto nuovo con le cose e le persone in cui la rivoluzione parte dai piccoli perché la parola dei poveri, anche se spesso non è piacevole da ascoltare, è vera.
La fisionomia della relazione si delinea al di fuori dei limiti della ragione, cominciando dagli ultimi, dall'altro come novità imprevista. Bisogna dunque liberarsi dai preconcetti per entrare in relazione con la vita e i suoi misteri e imprevisti.
Per riassumere il suo concetto di relazione intrisa di attesa per l'ignoto, accettazione e non dominazione della realtà, Giuseppe ci ha ricordato il detto secondo cui "L'uomo che trova dolce la sua patria ha ancora molto da comprendere. L'uomo che si sente a casa sua in un paese straniero ha fatto un grosso passo in avanti. Ma perfetto è solo colui per cui tutto il mondo è un paese straniero."
Ad Ottiglio tutto ciò si è discusso, ma soprattutto respirato e vissuto. Ci si è relazionati prendendosi cura l'uno dell'altro, abbiamo raccontato e ci siamo raccontati, ci siamo riconosciuti nell'emozione degli abbracci dell'incontro e dell'arrivederci. Abbiamo dato credito all'uomo come humus su cui la speranza non può che crescere.

Matteo Santin


Parole in libertà

Prendersi cura.. .
E' l'atteggiamento
di chi ama, di chi e' innamorato dell'Uomo,
di chi è presente nella buona e nella cattiva sorte,
di chi è preoccupato che l'altro stia bene, che l'altro sia felice.

Prendersi cura..
E' l'atteggiamento della gratuità,
di chi soccorre lo straniero,
di chi cambia i propri piani per qualcuno
che ha incontrato oggi sul cammino
e mai rivedrà...
e quindi mai ringrazierà...

Prendersi cura..
E' l'atteggiamento
di chi rischia di persona,
di chi abbandona la propria casa e si mette in cammino,
di chi diventa straniero a se e agli altri,
di chi perde la propria vita, il proprio sonno, le proprie risorse
per chi incontra per la strada.

Prendersi cura..
E' l'atteggiamento
di chi non giudica e non si scandalizza della nudità e fragilità dell'altro,
di chi e' cosciente della propria nudità e del bisogno di essere coperti dall'amore dell'altro...

Prendersi cura.. .
E' l'atteggiamento
di chi entra nella vita dell'altro in punta di piedi, con delicatezza e tenerezza,
di chi veglia e attende sempre che l'altro bussi alla porta,
di chi ama e spera giorni, mesi, anni che l'altro ritorni...

Prendersi cura..
E' l'atteggiamento
di chi riesce a stare in silenzio di fronte al dolore dell'altro,
di chi rifiuta di offrire risposte e parole inutili,
di chi si sente inutile e accetta con serenità la propria incapacità di 'aiutare' l'altro..

Chiara Santin


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