LOTTA COME AMORE: LcA ottobre 1998

Desiderio di incontro

E' appena passata l'estate e questo secondo numero del 1998 prende forma a poco a poco. Il lento scorrere delle righe sullo schermo del computer segna un filo sottile che esprime la fatica di questi mesi. La difficoltà a rendersi conto di quanto è avvenuto con la morte di Beppe, la sensazione di essere come portati via da una corrente contro cui è vano lottare, la perdita di sapore di ogni iniziativa come se si trattasse ormai di prendere solo quello che viene...
Forse questo giornalino nasce solo dall'abitudine a comporne uno -. a cose normali - di questi tempi, da uno sforzo quasi meccanico, come un dovere cui non si pensa neppure per un attimo di potersi sottrarre. Forse.
Man mano, però, che le parole si distendono e prendono forma, questo velo di crepuscolare solitudine svanisce per lasciare il posto ad un preciso desiderio di mantenere aperti i canali della comunicazione e dell' incontro che tanto ci hanno aiutato, sempre, ma soprattutto dall'inizio di questo anno.
Nell' ampio respiro della calda memoria di Sirio a dieci anni dalla sua morte, c'è stata - come un violento e rapido sussulto - la morte improvvisa di Beppe. E il grande abbraccio di tanta, tanta, tanta gente nei giorni del suo funerale.
Poi, la commemorazione di Sirio con il consiglio comunale aperto tenuto nella sala riunioni del Cantiere SEC, già Ytoiz, dove Sirio lavorò. Tanta gente, anche in quell'occasione, e gente così diversa, eterogenea, a testimonianza del fatto che cm Sirio o nell'incontro o nello scontro era impossibile un rapporto di indifferenza. Intorno al 1° Maggio, la fiammata del convegno dei pretioperai nel capannone di via Virgilio, vestito a festa per l'occasione, ritornato ad essere una officina di sogni, di speranze, di amicizie rinnovate, di parole vere.
A conclusione di questo anno si vorrebbero raccogliere in un numero di Lotta come Amore alcuni fili almeno di questo tessuto d idee, pensieri, fatti, persone...
Nel frattempo, quasi a voler riprendere un percorso di "normalità", vi inviamo questo numero composto, tra l'altro, da uno scritto di Arturo Paoli che aspetta da un po' di tempo di essere pubblicato, ma che - come l'autore! - sembra conservare anche nel passare dei giorni (e degli anni), un tratto di immediatezza viva e vitale. Sempre sorprendente.
Ringraziamo tutti coloro che hanno voluto farci arrivare un segno della loro vicinanza e partecipazione alle nostre vicende. Ricordiamo ai nostri amici che siamo contenti di spedire questo giornaletto a chiunque ce ne faccia richiesta. E che cerchiamo di essere precisi e solleciti nel soddisfare anche la richiesta di chi - per motivi i più diversi - manifesta l'intenzione di non riceverlo più.
Scrivo queste cose al mattino della prima domenica di settembre. La città si sta svegliando pigramente. L'aria è tersa, il cielo luminoso come sa esserlo solo in questo periodo, dopo la rottura dell' afa estiva.
Le barche nel canale sono immobili. L'acqua delle piogge di ieri scorre verso il mare in un movimento appena percettibile.
Scorre come la vita, sia che vegliamo sia che dormiamo.
Scorre, come attirata da un abbraccio irresistibile, come se fosse mossa da una consapevolezza chiara e determinata. Irrinunciabile.
Occorre solo lasciarsi andare, non opporre resistenza, consentire all'abbraccio. Vivere.
Non solo l'increspatura della scia della corrente, ma la profondità insondabile dove si muove tutto un universo di terre, di energie, di persone. Anche quelle che credevamo perdute, per sempre.


La Redazione

La posta di fratel Arturo

Cari amici italiani, rientrando da un viaggio nel Sud dove ho partecipato, fra altre attività, a un seminario di Religiosi e Religiose che si dedicano ai baraccati e "senza terra", trovo un fax che mi ricorda l'impegno di mandarvi notizie attraverso "Lotta come Amore". Parto da un piccolo episodio che ha avuto in me delle risonanze molto profonde. Ho ricevuto una lettera da Strasburgo di cui vi trascrivo i passi importanti traducendoli dal francese: "Tu resterai stupito, sai chi ti scrive? il giovane talmudista (aspirante rabbino) con cui hai studiato il Vangelo discutendo da mezzanotte alle due in alcuni dei giorni tristi del 1944 nel Seminario di Lucca (Casa degli Oblati)... Ho trovato il tuo indirizzo e ti scrivo per ringraziarti di tutto cuore con mia moglie e mia figlia nata Lucca. Pensiamo e parliamo molto di te, dei tuoi compagni e del vecchio Monsignore (L'Arcivescovo Torrini). Voi ci avete salvato la vita. Nelle memorie che un giorno saranno pubblicate, racconto tutto del vostro coraggio nel salvare gli innocenti...".
Ci siamo dati un appuntamento, come egli desidera e ci incontreremo nel mio prossimo viaggio in Italia, a fine giugno.
Mi sono ricordato del giovane biondo (russo? lituano?) che salvammo per un vero miracolo: lascio a lui di raccontare. Ho sentito questo incontro come una eleganza della Provvidenza che mi ha fatto tornare a quel tempo e pensare all'oggi. Mi pare che continuiamo a vivere una lunga, interminabile guerra, nella quale noi discepoli di Gesù siamo chiamati a mettere le dinamiche di amore e di pace, gratuitamente a fondo perduto.
Questa espressione "a fondo perduto" mi viene sotto la penna per dare enfasi alla gratuità che deve ispirare la nostra vita. Gratuità oggi necessaria e forse più difficile che nel tempo il cui gli SS, quelli che Hitler chiamava "il mio branco di lupi", circolavano per le strade della nostra Lucca, seminando terrore e morte.
Di questa difficoltà di infondere speranza abbiamo parlato nella settimana di Rio Grande con i Religiosi che vivono in mezzo a Comunità aggredite da tutte le conseguenze di una miseria sempre più profonda e sempre più estesa. Non appaiono segni che ci ispirino promesse di migliorare una qualità di vita che non è affatto esagerato definire tragica. Un autore nordamericano che so molto letto in Italia, disegnando a tinte molto fosche il personaggio Hitler, autore del bagno di sangue di cui il nostro amico Herman è un testimone, ci affida questa riflessione : "Guardando Hitler, così da vicino. Potremmo lasciarci sfuggire il demonio che è accanto a noi. Ogni giorno multinazionali e apparati statali senza volto, prendono decisioni che sconvolgono intere collettività, rovinano centinaia di famiglie e distruggono la natura. Ci sono psicopatici che si accaparrano il favore delle folle e vincono le elezioni. Lo schermo del televisore con la sua camaleontica versatilità ... favorisce il distanziamento, l'indifferenza e il fascino di facciata... Oggi lo psicopatico non si aggira furtivo come un topo di fogna, nei vicoli bui, come nei film dei gangster degli anni trenta, ma sfila nelle macchine blindate durante le visite di Stato, amministra intere nazioni, invia rappresentanti alle Nazioni Unite. Hitler è vecchio stile e potrebbe distoglierci dal vedere in trasparenza la maschera che il demoniaco indossa oggi e indosserà domani. Il demoniaco che è fuori del tempo, tuttavia entra nel mondo travestito da contemporaneo, vestito per uccidere" (James Hellman - Il codice dell'anima - Adelphi pag. 269)
Un giorno di vita del progetto neoliberale produce più morti dell'ultima guerra e questo si può provare statisticamente. I signori con cravatta che circolano con le macchine blu e sbarcano nei corridoio degli aeroporti vietati ai non importanti, non progettano camere a gas e deportazioni in massa, ma sono responsabili della continuazione di questa guerra "silenziosa" più micidiale di quella accesa dal fuoco e dal rumore delle armi.
I poveri non vedono segni di speranza: la luce appare lontana e timida, ma avanza a poco a poco e scaccia il buio da tutti gli angoli in cui si è rifugiato. Sono sempre più numerosi e chiari i progetti di una nuova cultura che dovrà ispirare il sorgere di una politica diretta a soddisfare le necessità prioritarie dei cittadini. E' sempre più partecipato dai giuristi il metodo del diritto alternativo. Non pensare più la legge inquadrata nella filosofia positivista che fa della legge uno strumento in mano agli oppressori, ma pensarla partendo dai fenomeni di morte, dai contadini scacciati dalla terra, unica fonte di vita, per darla agli speculatori spesso stranieri. La teologia e la spiritualità della liberazione, perseguitata come proposta di un nuovo metodo di fare teologia, è fonte di ispirazione di tutti i teologi seri che non vogliono ripetere le cose già dette.
Quello che succede nell'Occidente cristiano può definirsi come una rivoluzione culturale che avanza più rapidamente di quanto si possa sperare. Oggi è chiaro che la società a pensiero unico è il prodotto del nemico-scimmia di Dio. L'unità della famiglia umana che è il sogno del Padre, per il quale Cristo muore sulla Croce, è riprodotta nella globalizzazione sotto il segno dell'idolo a cui il Vangelo applica il nome mammona, presentandolo come l'antitesi, l'avversario irriducibile di Dio. La contraddizione che questa società porta in sé è pretendere l'unità del molteplice, usando l'economia monetaria che è l'elemento che inevitabilmente divide. Che il progetto neo-liberale trascini la società verso la morte non è evidente solo a chi non vuole vedere. A quelli che "mangiano e bevono e cercano i piaceri del sesso" (v. Lc. 17,30).
Quando e dove il denaro, separato dal suo senso simbolico, di portatore di vita, può produrre unità piuttosto che differenza, separazione, competizione, violenza? E risulta sempre più chiaro che esiste una spiritualità "cattolica" parallela alla società a pensiero unico perché unicamente diretta verso Dio, staccata con consapevole autorità, dalla responsabilità verso i fratelli.
Tutti questi progetti alternativi con una simmetria attribuibile solo alla presenza dello Spirito Santo hanno in comune il rovesciamento dell'ipotesi su cui è fondata la cultura dell'Occidente cristiano. Non partire dall'idea, dal progetto astratto, ma dal fenomeno visibile che stimola l'intelligenza a pensare il nuovo. Non pensare più la spiritualità dei progetti trionfalistici, di "feste di noviluni, di costruzione di templi, di offerte inutili", ma cominciare dal guardare senza illusioni e false coperture se le mani dell'offerente non grondino di sangue. E avere il coraggio di annunziare che Dio è nauseato di voi che "avete dimenticato di fare giustizia e di sollevare l'oppresso" che Isaia e tutti i profeti unanimemente, senza nessuna eccezione, giudicano religione e spiritualità, non dalla parte del culto, ma dalla parte del povero.
Ed è questa l'ottica normalmente scartata dalla dirigenza sacerdotale. La società neoliberale ha terrore del sorgere della politica, perché la politica oggi può sorgere solo dall'accogliere l'appello muto dei volti segnati dalla morte che si contano a milioni, e, partendo da questa prospettiva, si smaschera il demoniaco che domina la società neo liberale.
Alle sorelle e fratelli con cui riflettevo sulla condizione disperata dei nostri fratelli verso i quali ci invia lo Spirito di Dio, annunciamo che abbiamo dei segni chiari che possono alimentare la nostra speranza. Primo fra tutti questa convergenza di intenti nel pensare un mondo nuovo. Un titolo della rivista francese "Le Monde diplomatique" mi è giunto come uno squillo di tromba, una diana mattutina che sveglia dal sonno "la nostra utopia e la loro". Credenti e non credenti fondiamo la nostra utopia sulla stessa base, partiamo dallo stesso punto: il grido dei poveri. Ci unisce la stessa povertà perché utopia è un progetto chiaro nel suo punto di arrivo, fragilissimo nelle sue possibilità di realizzazione. L'utopia diventa forte, sicura unicamente se è basata sulla fede irriducibile. Ed è questo il contributo maggiore che persone spirituali devono offrire oggi all'utopia alternativa. Sento che la fragilità del progetto neoliberale che, apparentemente sicuro, avanza baldanzoso verso il futuro, può essere sfidata solo da una forza fondata sulla povertà. E la nostra sicurezza può poggiare sicura solo sulla preghiera e sulla fiducia totale dello Spirito di Dio. Nella mia lunga vita ho assistito a troppi tradimenti di intellettuali, di politici, di religiosi, che, partiti dalla solidarietà con i dannati della terra, sono passati alle file degli oppressori, per concludere che questa fedeltà è impossibile agli uomini. Solo invocandola costantemente in una preghiera umile, consapevole di vivere la tentazione permanente di passare nell' area dei vincitori, possiamo mantenere lo sguardo fermo, senza vacillare sull'utopia che sarà sempre nuova e sempre nascerà nel conflitto.
Il passaggio dalla società a pensiero unico a una società che riprenda la fatica di cercare la pace e l'unità nella discordanza di opinioni e nella fiducia nell'uomo immagine del suo Creatore, non sarà pacifico. Il progetto neo liberale non morirà senza sussulti. Prima di accogliere la morte, è possibile che spenda gli ultimi spiccioli nello scatenare una guerra, allargando lo spazio di una delle tante guerre regionali che non ha mai cessato di suscitare e alimentare nella modernità o postmodernità. Il metodo neo liberale è quello di predicare la pace suscitando guerre. Ed è stato finora possibile per la tendenza della nostra cultura a pascersi di teorie lanciandole nel mondo beato delle idee, non guardando la terra dove milioni di esseri umani pagano con le loro sofferenze e la loro morte, l'ozio religioso e intellettuale. Per non lasciare dubbi, spiego che ozio non vuol dire non fare nulla, ma vuol dire occupare il tempo in ricerche intellettuali e spirituali, senza tener conto se qualcuno ne paga duramente le conseguenze. Ogni inquisizione è il prodotto di questo "otium" di persone spirituali, e la diabolica società neoliberale è il prodotto dell"'otium" degli intellettuali con il concorso e la consacrazione degli spirituali.
Chi vuole un'altra società oggi deve cominciare dalla terra, dal lasciare che il volto pallido degli esclusi trasformi la sua identità e rovesci totalmente la sua ipotesi di lavoro. Tornando al principio di gratuità, correggo l'espressione "a fondo perduto" perché potrebbe far pensare che la speranza che viviamo con i poveri, sia come una favola bella che aiuti quelli che muoiono vittime dell'ingiustizia ad accettare sorridendo la morte. La nostra utopia è oscura, ma saldamente ancorata. Gesù non dette mai un nome definitivo al Regno e sempre si rifiutò a fissarne il tempo. Eppure l'utopia del Regno è tanto forte, luminosa e sicura che un numero incalcolabile di persone, che scoprono il senso di essere persone, per il suo avvento offrirono, offrono e offriranno la loro vita. Non tutti questi seguaci dell'utopia del Regno, accettano che il loro cammino sia stato tracciato da Cristo. Non lo accettano o per ignoranza o disorientati dalla moltitudine dei discepoli del Maestro che vanno in direzione opposta. Ma oggi siamo al crocevia di un mondo che muore e di un mondo che nasce. Ricordo che lo stesso incrocio apparve alla fine di quella guerra in cui mi trovai, con altri fratelli ad accogliere i fratelli maggiori, braccati dai lupi, come Herman. Ma fu un'illusione perché fu solo la fine di un delirante sogno politico, e si salvò una cultura ormai capace solo di generare cellule morte. Oggi deve morire non una ideologia, ma il principio generatore di ogni ideologia di morte. Il momento storico è grave e doloroso, ma bisogna tenere fisso lo sguardo sulla conclusione della pagina apocalittica : "Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo perché la vostra liberazione è vicina" (Le. 21,28). In questa speranza, più resistente di qualunque ottimismo, vi dico arrivederci.

fratel Arturo

Il sacramento cosmico

L'Eucarestia è un sacramento cosmico che va in tutte le direzioni. Questo Pane per la nostra fame, Vino per la nostra sete, è il sommo bene per tutta la Chiesa, ma non solo questo, è il sommo bene per tutta la creazione.
Dice il Vangelo : "Tutti mangiarono e se ne saziarono" .
All'Offertorio con Padre Vannucci diciamo:
"Offro questo Pane e questo Vino, che sono il dono della Tua Provvidenza, Padre". Sono infatti il dono della terra madre, della vite e dell'uva. Gesù era contadino con i contadini, non era Socrate o Platone, era facile per Lui far capire come questi due elementi, essenziali ai suoi tempi, come questi doni della terra, rappresentassero la fisicità della creazione.
Il pane è il frutto della nostra fatica, del nostro sudore, del nostro essere, del nostro vivere.
Consacrare questo Pane vuol dire che la fisicità della nostra vita, la malattia, la fatica, la gioia, divengono il Corpo di Cristo, il suo Sangue per nutrire l'anima nostra. Allora sulla terra tutto diventa sacrale. San Paolo in una lettera ai Corinzi mette in luce questo concetto dicendo : "Tutto è di Dio", cioè ascensione al Vertice.
Ecco che la Messa, che noi diciamo, diventa un fatto cosmico, non è liturgia personale, di emozione. Con questa Messa divento responsabile della cristificazione dell'universo. Questo pezzetto di Pane, queste gocce di Vino sono investite da Cristo, diventano Cristo. Questa Carne, questo Sangue che noi mangiamo, non sono soltanto per noi qui, ma investono tutta la fisicità dell'esistenza.
Questo Pane e queste gocce di Vino rappresentano tutta la realtà, anche quella inanimata (le rocce, il cielo, il mare...), che viene penetrata dalla presenza di Dio. Questo è avvenuto già al momento della Resurrezione, quando la salvezza non è soltanto il riscatto dai peccati, ma il divenire per noi "figli di Dio", cioè entrare in quella galassia dell' Amore che è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Con la Resurrezione Gesù scese agli inferi significando che Egli recuperò tutto il passato con la sua forza, passato che diventò presente, presente nell' eternità, dove anche il futuro è presente. Siamo già nel futuro.
Paolo VI diceva : "Ti ringrazio Signore di avermi fatto diventare Paolo VI in questo mondo straordinario, drammatico e bello". Questo mondo straordinario, drammatico e bello, questa Messa lo investe e il nostro cristianesimo non è una piccola cosa, è un discorso che travolge come un fiume in piena, come un mare in tempesta.
Quando Gesù sedette a tavola con i suoi discepoli, c'è una frase : "Desidero desiderarvi" che significa: "Ho desiderato con tutto il cuore, da sempre, da quando sono nato, di celebrare con voi questa Eucarestia". Essa investe tutta l'umanità. Queste gocce di vite, questi pezzettini di pane, trasformati nel suo Corpo avvolgono tutta la creazione. Padre Vannucci diceva: La creazione intera è abbracciata da questo Amore che il Cristo ha condiviso con l'umanità, avendone il desiderio espresso nell'ultima Cena: "Ho tanto desiderato di celebrare con voi questa Consacrazione dell'universo".
Questa Eucarestia la fa la Chiesa, ma va oltre la Chiesa, la Chiesa organizzata; abbraccia tutti, anche quelli che non sanno che esiste. Tagore, come è possibile che abbia intuito questa verità, che l'uomo non finisce, ma cammina nell'universo?
Lo Spirito Santo, lo Spirito della Trinità, dove c'è autenticità, è di ogni persona che esiste. Non si riesce a spiegare con nessuna filosofia, con nessuna religione, in maniera che non è comprensibile sulla terra, come questo Dio sconfitto, che ha perso la partita, abbia poi con la Resurrezione riaperto la questione. Finché esiste Dio, ci sarà sempre l'altro-Dio, il Male. Noi celebrando l'Eucarestia non sappiamo dei sei miliardi di uomini sulla terra che possono essere raggiunti da questa passione nostra, che celebriamo la Messa per sconfiggere il Male e tutto il dramma del dolore.
Preghiamo che tutto sia in Dio. Con questa Eucarestia appassioniamoci a costruire la pace.
Sono tanti i modi di costruirla, noi la costruiamo celebrando l'Eucarestia, il Sacramento cosmico.
Celebrazione del "Corpus Domini" nella Chiesa di Marignolle (Fi).

Grazia Maggi

Seguendo il fiume

Una delle immagini più popolari per indicare il passare del tempo, lo svolgimento dei giorni e quello della vita, che fin da bambino mi è rimasta impressa nella memoria è quella del fiume: il suo incessante andare, lo scorrere senza posa delle sue acque, le grandi piene d'autunno e di primavera. Per diversi anni sono vissuto in mezzo a due fiumi, non molto grandi, ma abbondanti d'acqua, che avevo imparato a conoscere molto bene per un buon tratto. Ed è su quella striscia di terra fertile fra i due fiumi che ho praticamente iniziato la mia scoperta del mondo, degli altri, della storia umana. I miei primi ricordi sono legati alla memoria lucidissima di avvenimenti di guerra: bombardamenti, passaggi di truppe, incursioni tedesche, fuga in massa verso i rifugi sulle colline. Paura e avventura incomprensibile per un ragazzo di pochi anni: poi tutto si è come disciolto (per riaffiorare con prepotenza molto dopo) e nella mia vita ha ripreso sempre più spazio il fiume, che rimane perciò come l'immagine più indicativa ed espressiva di quello che può essere la vita.
"La vita è come un fiume": seguendo questo inarrestabile fluire mi sono trovato coinvolto in un cammino dove la Fede in Dio e l'Amore per Gesù Cristo hanno costituito sempre più la ragione fondamentale e la motivazione profonda di tutta una ricerca. Ed insieme la spinta a cercare di legarmi alla storia concreta delle persone che ho incontrato nel misterioso intreccio delle vicende: è stato uno scorrere ed un andare continuo, come dietro ad un sogno di cui all'inizio era difficile decifrare tutto il possibile significato.
Lentamente il fiume ha percorso un buon tratto del suo viaggio, trascinando nella corrente - a volte tranquilla e appena increspata dal vento, a volte tumultuosa - tutta una serie di briciole di storia quotidiana, di persone carissime e tanto amate, di delusioni, di sconfitte, di visioni, di sogni ... Nell'acqua di questo fiume che è la mia vita, come la vita di tutti, è trascorsa una vicenda fatta di mille piccoli fili tessuti giorno dopo giorno, di mille briciole per un pane a volte dal sapore dolcissimo a volte amaro, di tante gocce d'amore e di dolore che hanno sempre accompagnato il cammino.
Ora il fiume, dopo un largo giro, mi ha ricondotto nell' angolo della darsena, fra le piccole mura della Chiesetta del porto. Sono ritornato insieme - sotto lo stesso tetto - ai miei compagni dell'inizio del viaggio, nella casa che assomiglia piuttosto ad una tenda oppure ad una barca che galleggia al punto di confluenza fra il mare e l'acqua di deflusso del padule circostante.
Sono contento di essere riapprodato a questo angolo di terra che per me rappresenta un punto di riferimento interiore, uno spazio non solo materiale e geografico, ma anche uno spazio del cuore, dello spirito. Un'ansa del fiume dove ho avuto la grazia di scoprire il tesoro da tempo cercato, la perla preziosa, la terra intravista nel sogno: un angolo di mondo in cui, passo dopo passo, si è dipanato il filo della Fede, dell' Amore, della Speranza.
So che il fiume continuerà senza soste la sua corsa: non so fin dove, né fino a quando, né attraverso quali percorsi. Mi abbandono senza riserve alla corrente di questa avventura portando dentro di me la certezza che essa è segnata essenzialmente dalla Bontà di Dio, dall'amore e dall'amicizia di tante persone, dal soffio dello Spirito che ha sempre sostenuto e alimentato la ricerca di nuovi orizzonti e nuove sponde. Tanto più che - in questo angolo di mondo che è l'isoletta della darsena - il fiume acquista contemporaneamente le dimensioni del mare.
(Lotta come Amore - gennaio 1987)
Don Beppe

Spendendo tutto, fino all'ultimo centesimo

Quando Sirio morì, il motto "la morte non chiude la storia" fu come un grido che diceva tutta la fiduciosa consapevolezza che una vita come la sua conteneva in sé così tanta forza, energia, densità di senso, da trascinar via, come un fiume in piena, ogni ostacolo. Compresa anche la morte.
Quella fiducia esprimeva anche la speranza che la storia di una presenza, scandita ogni giorno negli oltre trent' anni spesi da lui in Viareggio, sarebbe continuata in una memoria viva custodita e alimentata dalle nostre storie.
Scriveva Beppe, esattamente dieci anni fa: "Se perdi la tua vita, allora veramente la possiedi: dentro la misteriosa logica di questa 'assurda' verità ho ritrovato intatta e viva tutta la mia storia di amicizia e di comunione con Siria, tutta la sua vita segnata da questo grande desiderio di perdersi dentro l'esistenza, di partecipare, di condividere, di essere dentro,di compromettersi nel cammino del mondo operaio, della vita della gente, dei problemi della pace, nelle lotte per una terra liberata dalla minaccia nucleare; nella passione profonda e sofferta di una Chiesa sciolta dai legami del potere economico, politico, militare; nella ricerca di una Fede in Dio e in Gesù Cristo che non fosse assolutamente mai imposizione, legalismo, autorità, ma semplice offerta di speranza, di fiducia, di amore.
Per più di 25 anni abbiamo camminato insieme su strade che non garantivano particolari sicurezze, che non promettevano niente di certo e di definitivo. Sono sempre state strade simili al letto dei torrenti dove l'unica certezza è stata quella di dover camminare avanti, senza potersi né volersi fermare. Mi sarebbe difficile dire con esattezza che cosa abbiamo 'concluso', cosa abbiamo 'realizzato'. Quando ne parlavamo insieme, l'impressione era sempre quella di 'aver perduto tutto', di avere speso fino all'ultimo centesimo Oggi mi ritrovo immensamente più povero e nello stesso tempo immensamente più ricco di prima; ho molto di meno e nello stesso tempo mi pare di possedere molto di più. Vorrei soltanto continuare a scorrere fra le pietre del torrente, senza paura, senza difese né particolari sicurezze, disposto dal profondo del cuore a seguire fedelmente il cammino che mi sarà tracciato avanti".
Scrivevo, anch'io sullo stesso numero di Lotta come Amore:
"Questo nostro desiderio di andare avanti sulla stessa strada vogliamo ribadirlo con affetto ed amicizia (e insieme con altrettanta fermezza) a quanti ci hanno interrogato sul nostro futuro dopo la morte di Sirio. Con Sirio abbiamo vissuto tante cose, ora esaltanti ora faticose, e insieme tante ore di serenità quotidiana. Con Siria continuiamo ad andare avanti, amici come prima, compagni come sempre. Anche se la sua presenza ora è diversa; ma sempre fondamentalmente libera e liberante come lo è stati verso di noi.
Non costringeteci entro i rigidi confini della memoria come custodi di un tempo passato.
E troverete ancora la stessa porta aperta, una luce accesa, la tavola apparecchiata con il pane dell' amicizia e con il vino degli ideali. Una comunità piccolissima, ma idealmente allargata a tutti i figli di Dio sulla terra.".
Dopo la morte di Beppe, la comunità è - se è possibile - ancora più piccola, ma credo che ha imparato ancora di più a 'perdersi' .
Imparato?
Per quanto mi riguarda, in questo momento non so proprio quanto io abbia 'imparato' dal 'perdersi' di Sirio prima, di Beppe ora, e quanto il mio sia un atteggiamento dettato dall'evidenza di una storia che è destinata - in quanto tale - a ritornare, nel corso di questa generazione, nel grembo della madre terra.
Come l'avventura nella Chiesa e nel mondo dei "preti operai" , così la storia della Chiesetta e della sua comunità si riconosce nell' arco di una delle tante parabole della vita. E come ogni parabola, traccia un percorso destinato ad incurvarsi e perdersi, a finire, perché se ne possa leggere il senso, il significato, la parola destinata - questa sì - a generare nuove storie e nuova vita.
Durante questi mesi, mi ha molto aiutato e sostenuto (anche se a volte mi ci sono scontrato) lo sforzo di Maria Grazia di dare una lettura della vita di Sirio, del suo rapporto con lui, della piccola/grande storia della comunità. Lei, compagna della prima ora (fino all'ultima) di Sirio, ha saputo trovare chiavi di una storia che si esprime ancora con parole vive, capaci di suscitare attenzione e accoglienza in ascoltatori diversi della memoria di lui.
E Maria Grazia ha trovato, anche la forza di intrecciare in questo tempo, con Beppe fili di paglia. Non solo quelli reali della corda per impagliare le sedie nella piccola bottega della seggiola, ma soprattutto quelli di un confronto vivo piuttosto che di una memoria conservativa.
Io, invece, ho avuto da lottare principalmente contro me stesso. Un avversario che mi è ancora sconosciuto, nonostante l'ormai lunga coabitazione di una vita!
Credo di essere riuscito (sia pure con 'graffi e contusioni ') a resistere alle ansie più eclatanti di onnipotenza e onnipresenza. Forse, sto imparando a 'morire'. Ho messo le virgolette semplici perché qualcuno potrebbe pensare ad un possibile mio stato depressivo. Invece il mio pensiero non è volto alla morte, bensì alla vita e al fatto di immergersi nella vita fino in fondo (' morirei', appunto, o nel linguaggio di Beppe, 'perdersi').
La Chiesetta continua a raccogliermi nel silenzio e nella pace di quest'angolo del porto. Mi sembra incredibile questo eremitaggio nel cuore della città. Eppure vi arrivano solo questuanti smaliziati, povera gente alla deriva e qualche amico che suona il campanello e ha la pazienza di aspettare che i miei movimenti, lenti da sempre, mi facciano arrivare ad aprire la porta.
"Ma non ci siete mai!", continua a brontolare e a rimproverare la gente che mi incontra.
A volte, non ce la faccio a trattenermi, ringrazio ironicamente per il "voi" e rispondo che "quando ci sono, ci sono". E quando non ci sono, in genere non c'è nessun altro. Devo porre attenzione, però, a ciò che la gente dice, a quello che gli altri 'vedono'.
Questa casa continua ad essere 'abitata' da una storia, da una vita. lo non ne sono il custode. Sono, più semplicemente, uno che ci vive, uno che vive quella storia. Storia che non è mia, ma dentro la quale c'è posto anche per la 'mia' storia.
Esco di casa per andare a lavorare e la mia è settimana di lavoro piena.
Vado a dire la messa, una messa, la domenica mattina, il sabato sera e il giovedì sera alla parrocchia del porto, la chiesa dedicata ai sette santi fondatori dell'ordine dei servi di Maria. E' il mio dopolavoro, come lo è stato per Beppe.
Continuo a comporre e spedire "Lotta come Amore".
E a 'perdermi'.
Spero.

Luigi

La maledizione dei rifugiati

Sono tornato in Etiopia dopo sette anni. Da quando, terminato il mio lavoro di installazione di una piccola officina di carpenteria in ferro e addestramento di giovani ad Asella, avevo lasciato Addis Abeba precedendo di poco la fuga del dittatore "rosso" Menghistu.
Ricordo - di quei giorni - la tensione per la difficoltà di trovare la benzina necessaria per il viaggio ad Addis (175 km.), i carri armati lungo la strada, le voci di chiusura dell'aeroporto, il riconoscimento dei propri bagagli disseminati sulla pista lontano dall'aereo, la partenza incerta con scalo a Gibuti per rifornirsi di carburante ed evitare cieli ormai invasi dagli ultimi combattimenti aerei.
L'aereo che, all'inizio di agosto, mi porta ad Addis fa scalo al Cairo e si vuota quasi del tutto. Segno di "disinteresse" per un paese bellissimo, ma fuori da ogni circuito del turismo internazionale. Ma anche primo segno che il paese è in stato di guerra. Scoppiato tre mesi prima, cova sotto le ceneri dei tentativi di pacificazione, il rinnovato conflitto tra Etiopia e Eritrea.
Eppure, la mancanza di controlli all'arrivo, mi sorprende. Non più le estenuanti, minute perquisizioni del bagaglio, ma solo una domanda: "Computer, videocamera?", per l'appetito dei dazi doganali.
Più volte, durante gli spostamenti in auto o a piedi, mi sono reso conto di aver memorizzato i segnali della guerra associandoli alla evidenza di picchetti armati, ai check points disseminati lungo le strade, all'estrema attenzione nell'uso della macchina fotografica.
Tutte queste misure mi sembravano incredibilmente allentate e mi portavano a pensare più che ad una vera e propria guerra, a scaramucce di confine, ad assestamenti inevitabili dopo i compromessi sugli assetti territoriali approvati nell' euforia della vittoria dagli allora alleati del Fronte di liberazione eritreo e quello tigrino ora al potere in Etiopia.
Mi sono dovuto ricredere man mano che, a sera, capitava di seguire la TV. Un martellamento incessante di immagini dei bombardamenti eritrei su villaggi etiopici, delle raccolte di cibo e denaro per sostenere i rifugiati, di un esercito dallo spirito vivace e combattivo. La costruzione del "nemico" e l'attenzione a tenere alta la tensione sono i principali obiettivi di questa campagna che - con perfetta aderenza alla modernità - ha per obiettivo quello di portare la guerra in casa, sulla tavola (si fa per dire!) imbandita per farla digerire al popolo.
Mi hanno parlato di oltre 100.000 cittadini eritrei rimpatriati di forza. Tra questi anche il proprietario del garage di Asella che, sia pure con a volte fantasiose "modifiche" che supplivano al difficile reperimento dei pezzi di ricambio, riparava le non molte macchine in circolazione. La moglie in prigione. I figli minorenni, nati in Etiopia, costretti alla separazione dai genitori.
L'Etiopia è - da sette anni - una federazione di stati "regionali". Lingue diverse, gente sospinta qua e là dalla fame, dalla guerra, dalle alleanze politiche ed economiche, dall'odio, dall'amore, dal caso.
"Ognuno a casa propria" recita uno slogan che non è scritto da nessuna parte, ma è inciso dolorosamente nella carne e nelle poverissime storie di tanta gente africana e non.
Ho visto più di 250 persone ammassate in una vecchia stalla mezzo diroccata alla periferia di Shashamane. Famiglie intere ridotte su un pagliericcio, gli attrezzi essenziali appesi alle pareti affumicate, sembravano essersi appena rifugiate in quel luogo. Mi hanno detto che sono lì da sette anni. Dall'avvento della federazione. Vivevano nelle loro capanne a 50 km di distanza, ma parlano un'altra lingua dalla maggioranza della gente del posto. Alcuni di loro portano i segni della lebbra. Sono dovuti andar via con quel poco che potevano caricare sulle spalle.
E' un piccolissimo, pallido segnale di un fenomeno molto vasto e diffuso di cui si conoscono solo le manifestazioni macroscopiche dei grandi campi di rifugiati sotto l'incalzare delle guerre che si affacciano sulle pagine dei nostri quotidiani e delle nostre TV.
I rifugiati sono la maledizione vivente nella storia di una umanità che avvilisce e nega l'accogliente maternità della terra.
L'Africa (e non solo) è un mare, un oceano di terra. Ma a tanti, sempre troppi!, non può concedere neppure solo lo spazio dove fermarsi e abitare.
Un pugnello a testa di qualcosa che somiglia a una minestra di fagioli (ma i fagioli sono una illusione) è l'unico pasto della giornata. "E' così!", ammicca con un mezzo sorriso uno degli "abitanti" della vecchia stalla. Sorridono gli occhi dei bambini raccolti intorno. Una risata che seppellisce l'uomo bianco dai tre pasti al giorno, sgomento e ripiegato su se stesso a difendersi da quella incredibile capacità di sopravvivenza.
Ma davvero: "da dove viene ai poveri quell'energia per tirarsi in piedi la mattina e affrontare una giornata fatta di nulla?". Energia che zampilla in mille risatine alla sorgente, ma che da subito scorre veloce tra le strette pareti della miseria e della costrizione trascinando con sé le pietre della rabbia e i macigni della disperazione. Energia vitale dall'incontenibile capacità distruttiva.
Unica possibilità che fino ad oggi la storia umana conosce per opporsi alle ragioni e allo strapotere dell' ingiustizia.

Luigi

Padre Bernard Haring

Sabato 4 luglio, nella casa religiosa dei Redentoristi di Gars am Inn, in Germania, è morto padre Bernhard Häring, riconosciuto il più autorevole studioso di teologia morale di questo secolo e, soprattutto, l'antesignano delle aperture conciliari in materia di etica e morale sessuale. L'alunno che gli è stato più vicino, don Valentino Salvoldi, cosi descrive il ruolo fondamentale svolto da p. Häring nella difficile impresa di aprire nuove strade nella dottrina e nella prassi della teologia morale: "A p. Häring si deve il cambiamento di prospettiva della teologia morale, il passaggio da una morale della legge alla morale dell'amore; dal "tu devi" al "tu puoi"; dall'obbedienza servile alla gioia della libertà e della fedeltà dei figli di Dio".
Sapiente innovatore in ambito teologico ed ecumenico, tra i più ascoltati esperti del Concilio Vaticano II, p. Häring è stato apprezzato da Giovanni XXIII e da Paolo VI; dopo un periodo di sofferenza per incomprensioni con l'autorità ecclesiastica, Giovanni Paolo II, in due occasioni, gli ha dimostrato la sua stima.
Spirito profetico, in nome del Vangelo, si è opposto al nazismo da subito. Processato quattro volte dai tribunali di Hitler, si è guadagnato il rispetto dei generali che vedevano in lui l'uomo disposto a morire per la verità, ma soprattutto per l'uomo. Ha girato il mondo con la volontà di essere voce critica di ogni situazione di ingiustizia. Ha insegnato alla maggior parte dei docenti attuali di teologia morale che sono sparsi nei più remoti angoli della Terra.
Häring è stato processato anche dal tribunale ecclesiastico dell'ex Sant'Uffizio, per avere sollecitato nei suoi libri, nei suoi articoli, nel suo insegnamento, la nascita di una Chiesa diversa da quella del tempio e del potere, più misericordiosa e più giusta verso le donne e gli uomini che cercano Dio e un po' di felicità, senza l'oppressione del moralismo ecclesiastico in fatto di libertà di coscienza e di vita sessuale. Tutte le travagliatissime vicende di quel processo Häring le ha raccontate con grande franchezza e abbondanza di documentazione in un librointervista, "Fede Storia Morale", curato dal giornalista Gianni Licheri per l'editrice BorIa nel 1989.
Dopo essere stato protagonista di grandissimo rilievo nella preparazione e nella celebrazione del Concilio Vaticano II, godendo della fiducia di Giovanni XXIII, ma anche, sia pure con qualche perplessità, di Paolo VI, Häring fu poco per volta emarginato e ridotto di fatto al silenzio dalle autorità vaticane. Lo scorso l0 novembre, in occasione del suo 85° compleanno, i cardinali della Chiesa tedesca e della Chiesa austriaca, forse su suggerimento di Giovanni Paolo Il, si sono recati a trovarlo a Gars am Inn per un atto di riparazione alle sofferenze inflitte dalla Chiesa istituzionale all'anziano religioso e per una sia pur tardiva riconciliazione.
Il suo testamento lo ha affidato alla prefazione del libro "Mai più la guerra" edito da qualche mese dalla editrice La Meridiana. «Oggi la morale - vi si legge - deve essere concentrata sui problemi della pace e della nonviolenza. Per noi teologi morali è prioritario l'obbligo di lavorare per salvare il seme dell'uomo sulla Terra».
Nel 1993 ha pubblicato in Germania e in Italia una "Perorazione per una nuova forma di rapporti nella Chiesa. Perché non fare diversamente?" (Queriniana editrice), dove dà voce ad una «istanza fondamentale» per la nascita di una Chiesa dal volto umano.
La sua Perorazione l'ha affidata ad una ipotetica «lettera pastorale di Giovanni XXIV», all'inizio del nuovo millennio, datata 1/1/2001. Ecco di seguito il testo della lettera.
[da ADISTA, Roma 11 Luglio 1998, anno XXXII (n.5513)]


Lettera pastorale di Giovanni XXIV all'inizio del nuovo millennio, 1.1.2001
Dilette sorelle e fratelli!
Nel suo pellegrinaggio la cristianità entra oggi nel terzo millennio. Essa si trova di fronte a problemi grandi e scottanti. Ma riponiamo la nostra speranza nel Signore della storia e ci apriamo con umiltà al suo Spirito Santo.
In questo giorno che cosa può mai starci più a cuore dell'istanza fondamentale espressa dal nostro Fondatore umano e divino, prima della sua dipartita: "Perché tutti siano una sola cosa" ?
Con Giovanni XXIII e con il concilio da lui convocato, in cui per la prima volta era rappresentata tutta la terra, un'alba luminosa è spuntata. La chiesa cattolica è entrata nell'era dell'ecumenismo. Paolo VI, il suo venerando successore, continuò con tenacia la sua opera. Egli ebbe anche il coraggio di esprimere davanti al Consiglio ecumenico delle chiese il proprio timore che il papato, nella sua forma storica, sarebbe potuto divenire un grande ostacolo sulla via della riunificazione della cristianità. Il suo amabile successore Giovanni Paolo I affermò con chiarezza profetica che la collegialità fra i vescovi e il papa costituisce la prova e il sigillo della cattolicità. E aveva anche coraggiosamente riflettuto su ciò che questo dovrebbe significare, per esempio, per il modo dell'esercizio dell'ufficio petrino.
Molte cose sono nel frattempo succedute e molte occasioni si sono perse. Ora è giunto il tempo di compiere subito dei passi decisivi. Il passo più importante consiste anzitutto in una rivisitazione umile e coraggiosa della storia del papato. In secondo luogo dobbiamo dare chiari segni che sappiamo imparare dalla storia e che vogliamo lasciarci illuminare dalla parola di Dio. Riflettiamo sull'ufficio petrino, così come esso fu delineato da Gesù e si espresse nella tradizione più antica.
Il secondo millennio è l'era delle tristi divisioni della chiesa. Una delle cause furono l'irretimento dei vescovi, in particolare dei vescovi di Roma, in lotte mondane di potere, nonché idee troppo mondane circa l'esercizio dell'autorità ecclesiale e del potere. Questo provocò una cecità incomprensibile. Con sgomento pensiamo alla tortura, ai roghi degli eretici e delle streghe. I metodi dell'Inquisizione impedirono il dialogo sano e franco nella ricerca di una maggior luce in questioni dottrinali, morali e di disciplina ecclesiastica. Malgrado tutto Dio continuò a far dono alla chiesa romana anche di buoni vescovi. Ma la loro santità e sapienza non riuscì a imporsi in misura sufficiente in seno a strutture fossilizzate. Le chiese si difesero e difesero la loro dottrina e prassi con una specie di mentalità da fortezza assediata. Ogni parte, e in particolare i papi, rivendicarono una specie di monopolio sul possesso della verità. E così si smise in larga misura di cercare insieme. Ma rendiamo lode a Dio, che ha continuato a far spirare il suo Spirito in tutte le parti della cristianità, che ha permesso di compiere tanti passi sulla via di una riconsiderazione ecumenica e che ha rafforzato lo spirito del dialogo e del reciproco ascolto.
Oggi volgiamo comunque il nostro sguardo al futuro, pur nella piena consapevolezza del passato che rimane ancora da superare. Mi limito a menzionare i punti più importanti del programma immediato:
- 1. Poiché il trono, la corona e i titoli pomposi sono sintomi patologici, proibisco energicamente di chiamare i vescovi di Roma con titoli antievangelici come 'Sua Santità', 'Santo Padre'; così infatti Gesù chiama Dio il solo santo prima della sua dipartita. Ci vergogniamo del fatto che il papa abbia permesso ai suoi cortigiani di chiamarlo 'Sanctissimus' e 'Beatissimus', Non vi saranno più prelati domestici di 'Sua Santità', né 'porporati', Né in Vaticano si parlerà più di Eminenze, Eccellenze e cose del genere. Perché il punto di incontro con Dio, che in Gesù si è rivelato come umiltà, è la coscienza del nostro nulla.
- 2. Faremo nostri, quanto prima, i risultati sorprendenti dei dialoghi bilaterali e multilaterali e li porteremo al sospirato traguardo. Simbolo di ciò sarà il fatto che il 'Segretariato per l'unione dei cristiani' diventerà d'ora in poi una delle autorità principali e sarà trasformato nella Congregazione per l'unione dei cristiani. Per quanto riguarda la ricezione dei risultati, competente non sarà più la Congregazione per la dottrina della fede. Sotto la guida della Congregazione testé menzionata per l'unione dei cristiani si procederà a stabilire strutture corrispondenti, le quali garantiscano che tutto il popolo di Dio, in particolare i vescovi, le conferenze episcopali e le facoltà teologiche, intervengano fattivamente in questo processo importante.
- 3. Il papa si lega a strutture precise, che esprimono e favoriscono la collegialità. Ciò significa fra l'altro che il sinodo dei vescovi, che si raduna a intervalli regolari, svolgerà più che una funzione di consulenza. Il papa accoglierà le sue conclusioni e di norma le approverà. 1 punti controversi saranno chiariti con un dialogo paziente e schietto.
- 4. Per quanto riguarda la scelta e la conferma dei vescovi di tutto il mondo torniamo decisamente alla prassi del primo millennio. Al riguardo possiamo sicuramente molto imparare dalla prassi ininterrotta delle chiese ortodosse e dalle chiese nate dalla riforma protestante, nostre sorelle. Il vescovo di Roma, in corrispondenza al suo compito ecumenico, sarà eletto dai rappresentanti delle conferenze episcopali secondo modalità che saranno stabilite dal prossimo sinodo dei vescovi. Quanto prima un sinodo dei vescovi dovrà similmente procedere alla riforma del cosiddetto corpo diplomatico. Già il semplice nome è inaccettabile, perché ricorda troppo strutture del potere statale.
- 5. Un'accurata interpretazione dei documenti del concilio Vaticano I e II alla luce della parola di Dio e della tradizione ha sufficientemente dimostrato che l'esercizio della suprema autorità magisteriale del vescovo di Roma è completamente inserita nel tutto della chiesa. Egli non è, per così dire, un maestro che parla dall'alto e dal di fuori, ma è inserito in maniera particolare ne processo di apprendimento con le sue dimensioni e i suoi organi ecumenici. Suo compito è quello di confermare, mediante l'esempio e il modo di esercitare la propria autorità, la fede nel Servo di Dio e Figlio dell'uomo umile e non violento accreditato dal Padre e di contribuire così a esprimere la fede di tutta la chiesa.
Egli fa parte sia della chiesa discente e ascoltante sia della chiesa docente; con tutti gli altri deve tendere soprattutto l'orecchio alla parola di Dio, osservare e cercare di decifrare i segni dei tempi.
Deve conoscere che cosa nella chiesa realmente si crede in virtù della libertà del senso della fede e della coscienza. Deve prestar attenzione alla ricezione o alla eventuale non ricezione delle encicliche e lettere pastorali. Il vescovo di Roma non può assolvere fecondamente e con fiducia questo compito, in collaborazione con i suoi confratelli nell'episcopato, se in tutta la chiesa non c'è veramente posto per un dialogo sincero.
Sicuro del consenso dei miei confratelli nell' episcopato abrogo perciò le disposizioni del diritto canonico (CIC c. 1371, par.l) secondo le quali qualsiasi manifestazione di dissenso nei confronti di dottrine non infallibili del papa è un delitto. Al di fuori dei nostri voti battesimali e della comune professione della nostra fede non esiste d'ora in poi più alcun giuramento di fedeltà al papa. «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no. Il di più viene dal maligno» (Mt. 5,37).
- 6. Le scottanti questioni ora emergenti, come ad esempio quella del ruolo della donna nella chiesa e della sua eventuale ordinazione sacerdotale, non saranno d'ora in poi più un tabù. Esse vanno chiarite nel dialogo intraecclesiale e con disponibilità ecumenica ad imparare, fin quando non saranno mature per essere risolte. Risoluzioni che il papa non prenderà da solo, ma in piena collegialità.
- 7. La chiesa deve essere luce del mondo e sale della terra. Essa deve e vuole divenire una specie di sacramento della salvezza, della guarigione, della pace e della giustizia universale. Per questo percorriamo il nostro cammino con profonda e sentita solidarietà con tutta la famiglia del genere umano, con tutti i popoli e con tutte le culture, non da ultimo anche con le grandi religioni mondiali dell'Oriente.
In unione con tutti intendiamo imparare, vigilare, pregare e lavorare per la soluzione dei problemi più scottanti, affidatici anche dal vangelo, come la pace e il lavoro per la pace nello spirito della non violenza evangelica e dell'amore riconciliatore, la giustizia e la conservazione della creazione affidata agli uomini.
Raccomando me stesso e il mio servizio in seno alla chiesa alle vostre preghiere, così come raccomando voi alla grazia e all'amore di Dio nostro Padre e del nostro Signore Gesù Cristo.
Il vostro fratello in Cristo,
Giovanni XXIV


Le sedie di Beppe

"I Mosè non entrano mai nella Terra Promessa": questo sembra essere il commento alla scomparsa di Beppe Socci, prete operaio e operaio prete della darsena di Viareggio.
Woytila vola fra le palme di Cuba all'ombra del "hombre" (somos dos hombres) ed uno degli interpreti più fedeli al messaggio libertario del cattolicesimo ispanoamericano lascia la sua officina, nel senso di "taller", laboratorio per ogni tipo di artigianato, a cinquantanove anni. Il funerale di quattromila persone celebrato al Palazzetto dello Sport rimane un invito a continuare la partita con la verità, la pace, la rivoluzione degli oppressi.
Il suo impegno prevalente, oltre che per l'assistenza ai portatori di handicap del "Capannone", era rivolto a tutte le strategie di pace per una rivoluzione non violenta ma profonda, radicale, da "metanoia" in senso evangelico, cioè penitenza come cambiamento di vita. Numerosissimi i contatti in Italia ed all'estero tramite la misteriosa "Internazionale degli uomini di buona volontà". Originario di San Casciano, da genitori contadini, conservava il sorriso mordace della patria del Principe di Machiavelli ed anche dall'altare non risparmiava nessun potente con la carezza dell' ironia.
Numerosi i lavori svolti: bracciante agricolo, operaio nei cantieri navali, pescatore. Per ultimo si era infilato nella paglia non della mangiatoia ma delle sedie che impagliava con abilità artigianale e pazienza certosina.
Esse rimangono come il suo Rosario di ricucitore di rapporti umani.
Cristiano Mazzanti
"Il grande vetro" - Pontedera - marzo '98

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