LOTTA COME AMORE: LcA giugno 2006

La vita vissuta in fedeltà allo Spirito è la verità

introduzione

Cari lettori
Questo primo numero del 2006 vi arriverà con notevole ritardo, in estate inoltrata. Spero che non abbiano perso la speranza tutti coloro che hanno voluto, in un modo o in un altro, dimostrare il loro sostegno a questo piccolo foglio. Li ringrazio veramente tanto della amicizia e della fiducia. Metto le loro lettere in evidenza, la traccia scritta delle telefonate, dei bigliettini sotto la porta di casa, ripromettendomi di rispondere a tutti..., poi la pigrizia mi vince. L'inconsistente difficoltà a prendere la penna in mano e a tradurre in semplici parole di riconoscenza quanto ho nel cuore. Passano lunghe giornate in cui sono stanco di niente. La pensione mi ha fatto forse il triste regalo di svuotare di significato il mio quotidiano? Non lo so. Per certo, non ho niente di diverso che mi difenda più di altri nei confronti di paturnie e depressioni. E so di portarmi dentro tanta fragilità. Eppure non riesco a dare un significato solo negativo a questo mio rimanere arenato nelle pieghe di ciò che giorno dopo giorno mi capita. Ho bisogno di questo nascondimento, fatto di un uscire di casa che spesso si traduce in una piccola avventura, passando da una persona all'altra, da incontri del tutto casuali, alle poche frasi scambiate ormai per consuetudine con coloro che incrocio tutti i giorni o quasi. Mi pare che questo ritmo così rallentato del mio vivere, sia come un naturale riequilibrio di tanti anni vissuti di corsa. Allora, da un problema all'altro. Ora, da una persona all'altra. Ed è tutta un'altra cosa. Anche se, tante persone rimangono "indietro" e per loro non ci sono, non ci sono più, continuo ad abitare "lontano". Limiti. Soglie di una casa da abitare. Là dove ogni essere umano accetta di essere riconosciuto e incontrato. Riuscirò a riconoscere il "luogo" della mia vita? Intanto, il tempo che passa mi porta incontro una bella opportunità. Quest'anno, il 15 agosto prossimo, sono 50 anni che la Chiesetta esiste. Sì, cari amici! Fu proprio il 15 agosto del 1956 che don Sirio invitò compagni di lavoro e amici alla celebrazione di una messa che inaugurò questo luogo, già segnato come "il cantacelo" del Porto, come piccolo segno di pace e cioè di incontro tra cielo e terra nella dimensione quotidiana del lavoro inteso come crocevia di tanta avventura umana stretta tra spirito e materia, oppressione e liberazione, lavoro per vivere e fatica di cui morire... Il 15 di agosto, che nel 1956 era ancora "Ferragosto", cioè a dire l'unico giorno di festa nell'estate arroventata di un Paese dove "chiuso per ferie" era un cartello sconosciuto e dove spesso, come qui a Viareggio nei cantieri si lavorava anche la domenica mattina. Paese ancora ad impronta agricola, e quando c'era lavoro sarebbe stato bestemmia rimandarlo a domani, come non mietere il grano maturo e lasciarlo ancora un giorno alla fame dei passeri o alla rapina di un temporale improvviso. Ma non il 15 agosto, non per Ferragosto! E in una fotografia dell'epoca, si vede la Chiesetta (senza ancora "la sala" sulla sinistra e le stanze dietro) imbiancata a calce cui fan contrasto i vestiti scuri, allora tradizionali della festa, della gente. Ero in Etiopia, il 15 agosto 1986, quando Sirio volle celebrare i 30 anni della Chiesetta con un semplice incontro con operai e pescatori e la messa a mezza mattinata. In una Darsena che stava cominciando a cambiare volto e a "ripulirsi" dalle reti impregnate di salsedine e dalle tute fuligginose, unte di morca, degli operai metalmeccanici.
15 agosto 2006. Ho capito che non potevo far passare quella data senza tentare di confrontarmi, ancora una volta, con una storia, con cui anche la mia si intreccia. Ma anche questo è una delle cose che mi paralizzano. Come se la mia storia (che è più vecchia della Chiesetta e che mi porta a ricordare - ragazzo a pescare sulla curva del canale - le mura sbrecciate della vecchia stazione sanitaria marittima, divenute ricovero per la Primetta, la sua vecchia madre e i suoi cinque figli...), come se la mia storia perdesse senso e significato, di fronte a quella di Sirio e di Beppe. Per fortuna che ci pensa Maria Grazia, con grande pazienza e costanza, a cercare di tirarmi fuori da questa inerzia passiva e quindi, sicuramente, il 15 agosto prossimo la festa ci sarà e sarà, ancora una volta, segno e sostegno di speranza nella comune avventura umana.
Siete tutti invitati! Idealmente e realmente. Se non quel giorno, in quei giorni. E mi farò trovare.

In questo numero...
Troverete il nuovo indirizzo di fratel Arturo Paoli che ha un punto di riferimento, per quanti desiderano incontrarlo, qui vicino, ad una mezz'ora da Viareggio. E, a seguire, una sua intervista per Oreundici che mi pare davvero interessante. "Se dovessi dire che cosa è per me la vecchiaia, direi che è leggerezza che non vuoi dire superficialità: vuoi dire che tutto quello che senti, che avviene, che vivi è come illuminato, leggero, non incontra ostacoli per essere assimilato dentro di te", dice Arturo alla fine dell'intervista, in riferimento a quella che sente come "tenerezza" del Padre.
Questa frase mi ha colpito, non solo su un piano personale e su quello che andavo analizzando in me poche righe sopra, ma riguardo al clero, a noi preti. Siamo vecchi, per la maggior parte. Il nostro sacerdozio fatto di tanta formazione, prima umanistica e poi teologica, è alla frutta. Nuovi rapporti tra forme diverse di ministero si affacciano nella Chiesa. Il prete è mercé sempre più rara. Eppure, mi pare di constatare con rammarico, attraverso gli incontri del mio presbiterio, la tenerezza non fa quasi mai parte della nostra "attrezzatura". Così quella leggerezza che non è affatto superficialità. Per un gregge che si assottiglia sempre più, siamo esigenti e facciamo pesare la nostra diversità come se il mondo si potesse salvare solo mettendo in pratica le nostre ricette. Siamo così poco abituati a lasciarci guardare dentro, assillati dal preteso compito di guardar dentro gli altri, da non accorgerci di quanto poco spazio lasciamo ad una vera fiduciosa speranza nella presenza di Dio nella storia del mondo. Riprendendo in mano alcuni scritti di Padre Dalmazio Mongillo, ho riletto alcune sue riflessioni pubblicate trent'anni fa su "la Voce dei Poveri", su un testo riguardante il Ministero Sacerdotale, posto all'attenzione dei Vescovi in uno dei primi Sinodi post conciliari. Scrive Dalmazio, "che ciò che mi ha più rattristato in questo documento è la mancanza di fiducia e di speranza". Nostalgia, la mia, forse di un tempo che sta passando, insieme ad una Chiesa attraversata da tante differenti esperienze, dalla ricchezza di persone la cui memoria invita ad un confronto rinnovato con la vita e con la speranza: padre Dalmazio, don Michele Do (che vorrei ricordare nel prossimo numero), Elena e le sue compagne, Lena e la casa accogliente di Pederobba... Mi raccomando: il 15 agosto! La morte non chiude la storia!
Luigi

La posta di fratel Arturo

Cari amici,
la dimensione spirituale della nostra vita è una relazione e per questo è sempre la stessa ed è sempre nuova. Con I'AMICO si attraversano periodi di buio e momenti di luci; non ci si annoia mai. Il tedio, il lungo attendere che tramonti il sole su una giornata che non finisce mai, non fa parte di questa difficile e splendida relazione. Da qualche tempo I'AMICO mi dice "Fermati e rispondi alla domanda che ti viene rivolta da molte parti: dove possiamo trovarti?". Non posso tardare più e ho deciso di accettare la proposta dell'Arcivescovo di Lucca Mons. Italo Castellani che amorosamente mi accoglie nella sua e nella mia Lucca indicandomi un luogo di facile accesso per gli amici vicini e lontani.
Dando un'occhiata retrospettiva al mio lungo cammino, sento un'infinita gratitudine verso l'AMICO per le tante volte che mi ha detto: "Alzati e va dove ti indicherò". All'epilogo devo solo dirgli "Grazie, non ne hai sbagliata una". Vi saluto e vi attendo. Lucca, 1 febbraio 2006
PER INCONTRARCI:
tutte le domeniche alle ore 11 fratel Arturo celebra la Messa nella Chiesa di San Michele in Escheto di Lucca. La Chiesa si raggiunge dall'uscita Lucca est dell'autostrada seguendo le indicazioni verso Pisa. Dopo circa 2 km sulla destra si trova la deviazione per San Cerbone, e subito dopo c'è l'indicazione per la Chiesa di San Michele. E' possibile scrivere a fratel Arturo presso Pardi Fabrizio, via statale Abetone 271, 56017 San Giuliano Terme (Pisa) oppure inviare un'e-mail a oreundici@oreundici.org

Intervista a fratel Arturo per Oreundici

- Che cosa è per te l'amore? Che cosa significa amare?
Io penso che l'amore è la grande energia che sta dentro l'essere umano e che lo aiuta a raggiungere l'identità. Abbiamo bisogno di staccarci dalla nostra famiglia, dalla madre soprattutto, per raggiungere l'identità, che è la nostra originalità per cui ognuno è uguale a tutti e allo stesso tempo unico e qui è la radice della nostra solitudine. Quanto più è marcato questo distacco, tanto più la persona può assumere il proprio compito nella storia e nel tempo. L'innamoramento può fermarsi all'attrazione per l'altra persona oppure unire all'interesse fisico un interesse sociale, anche spirituale, che va oltre la persona. L'altro allora ti proietta verso il mondo e l'amore diventa veramente liberante. L'amore è una forza unica per liberarci dal nostro io, per farci persone e soggetti. In gioventù quello che mi ha liberato è stato l'amore per una ragazza ricchissima di idee, di interessi, che aveva una enorme ricchezza umana. Anche da sacerdote mi è capitato di incontrare una persona - di cui velatamente parlo nel libro // sacerdote e la donna - che aveva un tale senso della vita come dono di sé che ha arricchito dentro di me questa capacità di amare. In fondo il grande problema umano è la liberazione dell'io, perché tutto quello che fa il male nel mondo è l'amore all'io, che quando non si apre agli altri e all'Altro diventa sempre più esigente, orgoglioso, potente. L'amore ti porta verso l'altro e verso gli altri fino al punto di perderti: Gesù dice "chi vuole salvare la propria vita la perderà", cioè chi vuoi salvare se stesso si deve perdere. Levinas parla dell'altro che ti sveglia dal sonno, ti porta fuori da te. Quello che ti sveglia non è soltanto il volto di una persona, ma il fatto che questo volto è simbolo di un dramma che supera l'individuo: la grande miseria del popolo o l'oppressione politica, e si proietta su un orizzonte molto più vasto della storia del singolo individuo.
Per concludere direi che l'amore è la forza eccentrica che ti porta fuori dell'io, senza la quale non diventi mai persona. Evidentemente questa forza non funziona in modo spontaneo come il crescere biologico, questa forza passa attraverso incidenti, errori, confusioni ma alla fine ti accorgi che l'io emerge liberato perché senti che hai il tuo posto nel mondo, sai che cosa fare. L'amore è sentire che tu interessi all'altro, e che l'altro ha bisogno di te perché tu lo aiuti ad estrarre delle cose che sono in lui e che altrimenti non verrebbero fuori.
- Chi sono le persone che ti hanno insegnato ad amare?
E' un po' difficile definirle. Intanto devo dire che l'amore comincia dalla famiglia e mia madre era una donna semplice come tante, ma molto altruista, qualche volta al punto da farmi essere geloso. Quando i miei compagni di scuola venivano in casa, aveva tanto interesse per loro, li ascoltava con tale attenzione da ingelosirmi, ma più tardi ho capito che questo interesse per gli altri è una cosa molto buona. Non era una madre possessiva, paurosa, pretendeva che andassimo incontro al mondo coraggiosamente e questa sua apertura
è stata per me un principio importante credo.
Poi, come ho ripetuto tante volte, ho vissuto questo traumatico incontro con le lotte politiche quando avevo otto anni, ho visto il sangue scorrere in una piazza e questo per me è stato fondamentale per il mio orientamento futuro. Con lo sguardo dell'infanzia queste cose si ingrandiscono, diventano ancora più terrificanti di quello che sono nella realtà: ci furono due morti e una trentina di feriti, forse non è eccessivo rispetto a certe tragedie che accadono, ma per un bambino è uno spettacolo indimenticabile.
- Nella tua vita ci sono alcuni grandi amori: i poveri, l'America Latina, la chiesa... che cosa rappresentano per te?
Io direi due cose. Ho sempre sentito, come principio fondamentale che ha guidato la mia vita, la necessità di fare qualcosa che possa favorire la pace e l'incontro fra gli esseri umani. Mi hanno sempre stimolato le discordie, le lotte, i contrasti come inviti all'amore e alla pace. Allo stesso tempo ho sempre provato un grande interesse per la persona: che cosa pensa, che cosa dice, come vive. Questo grazie anche a certi incontri che ho fatto da giovane, ad esempio con La Pira. Avevo alcuni amici con i quali mi sentivo particolarmente in sintonia - uno di loro è Carlo Del Bianco - e provavo ammirazione per la sua capacità di captare certi valori che parevano perduti nella dittatura fascista. Era un amore per la persona che pensa, che si inquieta nel cercare il senso del suo vivere. Questo mi ha sempre accompagnato. E poi ho avuto la fortuna di incontrare una ragazza di cui mi sono innamorato, che è morta molto prematuramente e che aveva tutto. Era una bella ragazza, molto interessata alla politica, alla religione, alla fede. Ho trovato in lei tutto quello che potevo desiderare. Morì improvvisamente per una infezione, altrimenti probabilmente l'avrei sposata. Ci pensavo e anche lei ci pensava, era un amore che pensavo si sarebbe concluso nel matrimonio.
- Come è nato in te il pensiero di diventare sacerdote?
E1 difficile rispondere perché nelle vocazioni c'è molto mistero. Nelle scelte vocazionali c'è qualcosa che istintivamente ti porta lì. Nelle nostre riunioni politiche giovanili, mi interrogavo sul problema della democrazia: che cosa può aiutarla ad affermarsi e crescere. La democrazia è valida quando le persone che vi partecipano portano con sé la gratuità. Quello che la rovina è il potere. La democrazia mi è apparsa come forma religiosa, perché per poter funzionare ci deve essere disinteresse e gratuità. Evidentemente deve anche avere una struttura politica, se no rimane un'idea ma poi questa struttura favorisce facilmente la crescita del potere. Viene meno la pazienza di aspettare che tutti possano parlare, di mettere d'accordo le diverse opinioni, è più facile dominare, affermare la capacità di governare. Anche la storia biblica del popolo che cammina nel deserto ha attraversato queste vicende, e si vede che Dio manda Mosé perché il suo interesse è concentrato su questo popolo e accetta le sue vicende.
E' un popolo che coraggiosamente è uscito dalla terra di oppressione, si è messo in cammino con coraggio poi facilmente si scoraggia. Sa di avere Dio con sé ma spesso lo tradisce, non accettando questa dipendenza che gli sembra limitare il suo desiderio di libertà. E' esattamente la storia che noi viviamo. Ho capito che la democrazia ha bisogno di un supplemento di spiritualità e di gratuità. Volevo partecipare alla vita politica non come un concorrente del potere ma come sale e lievito. Allora pensai che il sacerdozio mi dava questa capacità e infatti mi sono dedicato particolarmente a formare i giovani al dono di sé, all'altruismo, alla responsabilità sociale. La chiesa dovrebbe essere la scuola di una politica senza potere, senza ambizioni, come servizio e gratuità. Oggi nella società, nella politica, nelle relazioni appaiono molta negatività e molto male e una persona religiosamente profonda deve rispondere con il bene, facendo magari la parte dell'ingenua, perché è indispensabile affrontare il male o la furbizia dell'altro con il bene. Bisogna stare attenti a non cercare il successo, la vittoria.
- Tra i tuoi tanti libri ce n'è uno, II sacerdote e la donna, centrato sul rapporto con la donna. Che cosa hai imparato dalle donne sull'amore?
Oggi quello che domina nel mondo è il consumismo, prendere e buttare, la nostra società esclude l'uomo dal mondo invece di dargli spazio al suo interno. Un esempio semplice? Il tempo che si dedicava a coltivare i fiori, la cura e l'attesa per cui a primavera c'era la gioia di vederli sbocciare. Questo esempio ci fa capire che l'intervento dell'uomo sulle cose non solo produce oggetti di una bellezza originale, ma causa degli effetti trasformatori sull'operaio o sull'artista. L'uomo nel suo operare si fa capace di produrre bellezza e armonia e il lungo tempo di attesa per compiere il prodotto delle sue mani conferisce all'uomo la capacità di essere contemplativo. E questa è la sua vera vocazione; togliere questo spazio è interrompere la relazione dell'uomo con la natura. Riceviamo dalla tecnica oggetti compiuti spesso sofisticati che hanno la caratteristica della provvisorietà. Ci impongono di usarli con fretta, una volta usati gettarli. E tutto questo modo di vivere riempie il tempo del silenzio, della riflessione, della contemplazione che è il tempo dell'amore e dell'amicizia.
Provvidenzialmente io ho potuto vivere l'amicizia con tante donne che ho incontrate. Penso ad una donna argentina di cui ho scritto tante volte e che aveva una ricchezza immensa, sia affettiva che intellettuale. Ho vissuto questa amicizia con grande gioia e senza turbamenti perché ho sempre sentito che in queste relazioni si arricchisce il mondo, si da al mondo il meglio di ciò che viene fuori da noi e che non esce se si è soli. Penso anche a Gaudy, che ho visto rinascere alla ricchezza dell'identità femminile, l'ho vista crescere attraverso il dialogo, a partire dalla più assoluta povertà. Quante donne povere, calpestate, emarginate hanno questa ricchezza sepolta. Mi accorgevo che proprio io che ho rinunziato con dolore a possedere una donna e una famiglia, trovavo il centuple perché sentivo che questo amore-amicizia creava qualcosa di inedito. Purtroppo nel mondo religioso questo non si vive e non si capisce, c'è troppa inibizione. E l'inibizione è come il rovescio del possesso: sono le due facce della stessa medaglia, rinunziare per obbedienza o non rinunziare per trasgredire raggiungono lo stesso risultato distruttivo. La chiesa non insegna questa capacità di dare se stessi fondata nella ricerca di solidarietà, di amicizia, di riconoscimento reciproco.
- Che cosa diresti a chi soffre perché non si sente capace di amare o non si sente amato?
Questa situazione mi si presenta continuamente attraverso tanti incontri, perché è molto vero che per saper amare bisogna sentirsi amati. E questo non lo si può dare artificialmente, deve essere una esperienza autentica. Se la religione resta qualcosa di esterno non serve a nulla, se invece senti che qualcosa di nuovo è entrato nella tua vita allora appare molto positiva. Sono convinto che l'amore ha una sola sorgente, che io chiamo Dio, Spirito, che avvolge il mondo e che noi possiamo assumere soprattutto attraverso gli incontri. Questo amore supera tutti i mali, ci risuscita. La mia missione oggi è quella di trasmettere questo amore che vivo e che devo dare agli altri. Ho sentito molto questa funzione tra i poveri perché i poveri e specialmente le donne hanno bisogno di comunicare la sofferenza di non essere amati. Il fatto che tu accolga la donna e l'ascolti con interesse perché il suo racconto fa parte della tua storia è molto importante. Questa persona che viene a te ha sempre cercato di dire qualcosa di profondo, di vero, d'importante e non ci è mai riuscita. Finalmente quando riesce a raccontare se stessa si sente liberata.
- Tu parli spesso dell'amore di Dio come tenerezza del Padre. Che cosa vuoi dire? Qual è la tua esperienza?
C'è una frase che ripeto tutte le mattine nella preghiera: Dio consolatore. Questo Dio vicino è capace di cogliere le tue sofferenze
interiori e di lenirle. Tutti i giorni, per una ragione o per l'altra, mi capita di sentire qualche grande sofferenza a cui non trovo soluzioni e nella preghiera sento che essa viene sciolta, non diventa angoscia. In questo io sento la tenerezza di Dio. C'è un pensiero di Pascal che ho sempre sentito molto vero: "se tu vedessi chi sei veramente, tutta la tua miseria, ti dispereresti, ma mentre la vedi con i tuoi occhi sei avvertito che la tua angoscia è stata cancellata da questa tenerezza che ti invade ". Questa liberazione interiore che sento è la tenerezza, è un amore che ti libera senza farti dimenticare il peso che hai portato fino a quel momento. Oggi sento che tutto questo peso di ricordi, di insuccessi, di errori è relativo: tutto ha servito per la tua crescita.
Se dovessi dire che cosa è per me la vecchiaia, direi che è leggerezza che non vuoi dire superficialità: vuoi dire che tutto quello che senti, che avviene, che vivi è come illuminato, leggero, non incontra ostacoli per essere assimilato dentro di te.
Arturo Paoli

Padre Dalmazio Mongillo

"Fratel Scienza proviene da un ordine religioso tradizionalmente di cultura elevata. Si è trovato ridotto a fare lezioni di teologia nella loro università. E poi, oltre alla scuola, c'era il silenzio della cella. Quelle celle una accanto all'altra in quei corridoi immensi, dove ad ogni angolo trovi busti di cardinali e pontefici, che ti guardano con cipigli severi, come a ripeterti: fila dritto, figliolo. Perché sono loro i padroni della situazione, continuano a dominare e a comandare anche se sono di marmo.
Insomma gli era capitato, a seguito di amici conosciuti lungo le vie di Dio che come si sa sono infinite, di venire a conoscenza dell'idea della comunità. Aveva resistito per un bel pò ' di tempo. Nelle anime religiose il problema della fedeltà crea spesso come delle disponibilità al martirio. Reggere a costo di tutto...In ogni modo si vede che qualcosa era successo in quell'anima, d'altra parte estremamente retta e chiara: era un uomo sicuramente disponibile e aperto. La fedeltà si era tramutata in un'altra fedeltà. Con una borsa con dentro le sue cose personali, era arrivato all'eremo senza libri ali'infuori della Bibbia. Però era veramente uomo di scienza, di vastissima cultura e di una capacità di parlare dolcissima, suadente... La comunità sapeva benissimo che sempre più, ora, la sua scienza non sarebbe stata altro che la strada sulla quale gli uomini si ritrovano insieme nel loro camminare verso Dio". (Sirio Politi, Antico sogno nuovo, ed. Gribaudi 1983 pag. 47 e seg.). Così don Sirio Politi, dal 1956 prete operaio nel porto di Viareggio, descrive uno dei monaci appartenenti alla comunità di fede e di vita quale "vita vissuta, nonostante la diaspora delle vicende personali, in un sogno più reale della realtà e in una realtà meravigliosa come un sogno " (id. pag. 11). Ed è facile per me, come per tutti quelli che l'hanno conosciuto, rintracciare in questi tratti padre Dalmazio Mongillo e gli immensi corridoi della Pontificia Università dell'Angelicum.
Sirio e Dalmazio si conobbero tramite Maria Grazia Galimberti che ebbe Dalmazio insegnante di Diritto alla Scuola di Servizio Sociale a Roma. Maria Grazia, venuta giovanissima a vivere, nel 1965, con don Sirio e don Rolando Menesini, nella Comunità Agricola di Bicchio presso Viareggio. E di questa comunità sognata e vissuta da uomini e donne, padre Dalmazio fu amico fraterno; delicato e attento nel seguire le vicende personali di ogni componente, fino a pochi giorni prima della sua morte.
Si fermava a Viareggio facendone tappa intermedia nei suoi spostamenti per raggiungere luoghi di lavoro per lui, infaticabile nel lasciarsi coinvolgere in incontri, conferenze, ritiri, settimane di studio. E sempre l'incontro era sovrabbondante di affetto, ma insieme di un sincero interrogarci sulle ragioni profonde della fede. Era la sua una autentica sete di incontro con Dio attraverso il confronto con le persone e gli eventi umani. Ogni tanto mentre parlavamo, tirava fuori dalla tasca un piccolo taccuino o, semplicemente, un foglietto dove scriveva brevi annotazioni per spunti ulteriori di riflessione che non voleva perdere. E ci guardava con gli occhi insieme sorridenti e pensosi; gli occhi di chi è abituato a guardare "oltre". Inizialmente mi meravigliava questa suo desiderio di ascolto. Lui, un maestro, che poteva insegnarci molte cose... Poco per volta, capii che i suoi interlocutori privilegiati non erano i "sapienti e gli intelligenti", ma i "semplici", la "povera" gente in presa diretta con la vita. Chiedeva di scambiare, non tanto le notizie relative al "fare" (anche se era attento e delicato nel percepire la fatica e la sofferenza di tanto fare), ma al senso, al significato dello sforzo umano, della fiducia, della speranza, del progetto di vita. "Non si è verificato sempre che la dottrina è stata ripensata in base ai risultati dell 'esperienza vitale orientata e sapientemente vissuta? L'espressione teoretica dell'esperienza vitale è subordinata ad essa, la trascende e la valorizza. La vita vissuta infedeltà allo Spirito è la verità " (P. Dalmazio Mongillo, La Voce dei Poveri, giugno 1971) Egli era profondamente convinto che l'apertura di prospettive nella vita dipende sempre dal criterio ispiratore della ricerca. "Se è ricerca di verità e non opportunismo, paura, difesa dello status quo, la soluzione emerge e la mancanza di luce è in qualche modo connessa alla mancanza di fiducia e alla diffidenza che guida i rapporti reciproci"(ibi).
E, come amava ripetere: "la verità non c'è bisogno di difenderla, anzi è lei che difende noi". (Antonieta Potente in "Superare le distanze: le figlie e i figli di Domenico fanno teologia" Edizioni Domenicane Italiane, Napoli 2005 pag. 141).
Dalmazio, uomo dal cuore grande, consumato dalla ricerca di verità e dalla sete di vita. Davvero la sua scienza non è stata altro che la strada sulla quale uomini e donne si sono ritrovati insieme nel loro camminare verso Dio.

Uno schema di lavoro che non convince

P. Dalmazio Mongillo in "La Voce dei Poveri",

P. Dalmazio Mongillo in "La Voce dei Poveri",
Viareggio, giugno 1971

Un prete non legge per mera curiosità un documento, sia pure non definitivo, quale quello sul "Sacerdozio Ministeriale" preparato per il prossimo Sinodo dei Vescovi. Tratta di un tema che tocca da vicino la sua vita e, se lo affronta, è perché desidera vivere in autenticità la propria vocazione, acquistando coscienza esplicita della propria identità nella Chiesa e nel mondo. La proposta del Sinodo dovrebbe costituire il frutto della maturazione della coscienza ecclesiale sul sacerdozio. Se fosse scadente o ispirata da remore e diffidenze, deluderebbe le speranze di tutti coloro che anelano a una realtà che alimenti la speranza, aiuti a superare la stanchezza del presente e apra prospettive.
La delusione sarebbe molto triste perché siamo profondamente convinti che, se viviamo in fedeltà allo Spirito che anima la comunità ecclesiale, la soluzione emerge. Occorre quindi, con sincerità e senza pregiudizi, promuovere una revisione di vita che porti a farsi guidare dallo Spirito e a cogliere i veri aspetti del problema.
La crisi del ministero nella Chiesa non è isolata, ma solidale con tutto ciò che è sintomo della crisi dello stile di presenza della Chiesa nella storia. Il vero volto del prete non può emergere se non in sintonia alla riscoperta della vera via della Chiesa, del suo cammino come fedeltà al Signore che viene. La crisi del ministero è di conversione dalla infedeltà non di spinta all'infedeltà. Del discorso che Papa Giovanni tenne all'apertura del Concilio mi colpì quel senso di sereno ottimismo che
10 portava a non condividere le previsioni apocalittiche di tanti che ovunque vedevano male e rovina e che stimolava il contributo differenziato e convergente di tutti. Da quel momento quella prospettiva non mi ha più abbandonato. Sarà forse anche per questo che ciò che mi ha più rattristato in questo documento è la mancanza di fiducia e di speranza. E' stilato in un'ottica di crisi di identità a cui si tenta di contrapporre alcune argomentazioni il cui valore è spesso discutibile e che scaturiscono da un'ecclesiologia che per molti aspetti è pre-Vaticano 2°, destinate a convincere che invece l'identità il Sacerdozio ce l'ha e che, se non emerge, è colpa di tutto quel complesso di fenomeni che si vanno verificando nel mondo contemporaneo.
Si cerca un capro espiatorio sul quale riversare tutte le colpe, mentre mi pare che il tutto è espressione di una chiamata ad andare verso una terra nuova alla quale Dio ci guida. Ho avuto l'impressione di un certo capovolgimento di valori. La fonte dell'identità del Sacerdote è la certezza di essere stato scelto e mandato da Dio, per dire agli uomini che il Padre li ama e che vuole che essi lo amino e si amino. E di dirlo donando amore e realizzando una presenza che, nella concretezza del suo contenuto, può e deve variare secondo i tempi e i luoghi, attuando compiti che, in ogni caso, devono scaturire dalla disponibilità interiore che la scelta, accolta e donata, determina e debbono incrementarla. Qui, invece, mi pare che l'identità sia delineata in rapporto al complesso di atti che il prete compie. Quando sorge il timore che questi siano in discussione o mutino, si ha paura che egli resti "disoccupato" e anziché spingerlo a cercare nuovi stili di impegno, a ristrutturare "l'organizzazione" in senso di profonda sintonia con la vita si resta piuttosto fermi sull'aggiustamento di una cosa o dell'altra. L'ottica si sposta. Anziché stimolare l'amore a crearsi il cerimoniale in cui esprimersi, si tenta di tener in vita il cerimoniale nella convinzione che farà rinascere l'amore.
L'identità di un uomo, anche se si esprime nel ruolo che egli svolge, non deriva da esso, bensì dalla interiorizzazione di un dono di amore, e, nel nostro caso, dalla certezza che Colui che ci ha scelti e nel quale abbiamo riposto fiducia è fedele all'amore.
Nella rivelazione cristiana è fondamentale la fondazione e l'origine trascendente della identità personale, in questo sta tutta la sua novità e il suo vigore; il resto appartiene all'ordine del secondario e anche se ha durata e persistenza, è valido solo subordinatamente al primo elemento. Ancora una volta ci si lascia prendere dalla paura e si mette in atto un sistema difensivo del ministero da ciò che può metterlo in pericolo. E così ci si àncora a una mentalità apologetica, la quale sfocia in un sistema di educazione orientata a creare i componenti del Sacro, a far maturare la consapevolezza dell'importanza del compito che si svolge e a pretendere che esso venga riconosciuto e valorizzato. E anziché farsi difendere dal Sacerdozio lo si mette sotto tutela, anziché stimolare i presbiteri a "inventare", a far scaturire dall'amore di cui sono oggetto da parte di Dio lo stile di vita in cui esso si esprime e a trovare la via per manifestarsi, si discute sui compiti quasi che la cosa più importante sia garantire la continuazione di certi servizi. Si indulge ad un bisogno di rassicurazione che hanno coloro che si sentono frustrati e destrutturalizzati quando non hanno un compito riconosciuto che li valorizzi, li distingua e dia loro una ragione di esistere, mentre ci si dovrebbe spingere a diventar disponibili e inventivi di un concreto stile in cui esprimere a nuovo, in comunione con tutta la Chiesa e la Sua Gerarchia, la ragione di esistere anche quando le precedenti forme di espressione non risultano agibili.
Il compito investe tutta la Chiesa, la responsabilizza a tutti i livelli, esige l'apporto di tutti, non escluso quello insostituibile e specifico che gli organi del Magistero mutuano dalla loro posizione unica. Occorre approfondire il rapporto tra Sacerdozio di Cristo e Sacerdozio Gerarchico, il modo come questo si è costituito nella Chiesa, quanto di ciò che era incluso nella sua maniera tradizionale di esprimersi lo sia per insostituibile esigenza del Sacerdozio di Cristo o per motivi diversi. Altro è dire che il ministero Sacerdotale è inerente alla Chiesa, altro connettere con vincolo indissolubile a questa inerenza tutto ciò che le si è aggiunto nei secoli e le spiegazioni con le quali queste connessioni sono state giustificate. Ciò non è legittimo soprattutto quando si ricorre a questo accostamento per dedurne conseguenze operative che decidono più che risolvere alcuni grandi problemi che travagliano il Sacerdote contemporaneo. Mentre la dottrina è destinata alla vita ed è tanto più valida quanto più alimenta lo sviluppo della vita, qui si vuoi dichiarare non autentiche alcune esigenze di vita in base ad una dottrina. Non si è verificato sempre che la dottrina è stata meglio ripensata in base ai risultati dell'esperienza vitale orientata e sapientemente vissuta? La vita vissuta in fedeltà allo Spirito è la verità.
La lettura della III parte del documento sui problemi pratici acutizza la sensazione del clima di sfiducia nel quale il testo è stato redatto e del contesto riduttivo in cui le difficoltà sono viste. Si da un'interpretazione univoca di fenomeni che ne hanno molte altre che potrebbero aiutare a porre il problema molto diversamente. "La ragione più profonda" della diminuzione dello slancio missionario è indicata nella diminuita stima della fede esplicita e nelle conseguenze della dottrina del cristianesimo anonimo (1, 3); le difficoltà inerenti alla celebrazione dei sacramenti sono connesse all'oscuramento della fede nella loro efficacia (1, 4, a); l'esclusione di altre attività da parte del sacerdote è vista in base al pericolo che gli sottraggano tempo per il ministero, l'attività politica è problematicizzata a un giudizio negativo su di essa e per una concezione che è, a dir poco, molto discutibile.
Si insinua la questione se "la radice ultima dell'attuale crisi dei Sacerdoti" non si debba ricercare nella mancanza di una vera e propria spiritualità sacerdotale (III, III, 1) proiettando così in una prospettiva di carattere morale un problema che ha portata tanto vasta. In questa ottica si avalla una certa interpretazione del cambiamento dello spirito di preghiera. Tutti riconoscono che oggi vi è una diminuzione dello spirito di preghiera, sia perché ad essa si da poco tempo o poco zelo, sia perché sono spariti, per alcuni, i motivi e la stima della preghiera e la sua distinzione dal lavoro" (ivi, 2°) e perciò si cerca di addurre argomenti che ricostruiscano questi motivi.
Non appaiono emergenti alcune grandi aspirazioni che stanno alla base di un mutato atteggiamento nei confronti della celebrazione dell'Eucarestia, di cui tra l'altro la partecipazione quotidiana è inculcata affinché il sacerdote possa "con la parola e con l'esempio attrarre gli altri ad essa" (III, III, 3). La causa del poco posto per gli esercizi ascetici sarebbe "il modo moderno di considerare le realtà di questo mondo, che psicologicamente è diventato quasi esclusivo" (ivi 4). Si sospetta che il diverso atteggiamento nei confronti del Sacramento della Penitenza "la cui frequenza" da parte dei Sacerdoti, "è diminuita più del giusto" può essere derivato dalla "diminuzione del senso del peccato negli stessi Sacerdoti, come del resto nel popolo cristiano" (ivi 5).
Analoga riduttività nella riflessione sul problema del celibato: "Si può supporre che il modo moderno di trattare le cose anzi la licenza circa le realtà sessuali che pervade il mondo cosiddetto occidentale, non è estraneo a questa contestazione". E si aggiunge: "Checché se ne pensi di questo problema, esso è assai complesso e bisogna che sia accuratamente vagliato nei suoi vari aspetti" (III, IV, 1).
Il problema dell'eventuale ordinazione di uomini sposati è visto solo come rimedio alla carenza di Sacerdoti e "per quei luoghi solamente dove questa mancanza è acerbamente sentita" per non privare i fedeli dei benefici che il Sacerdozio presta al Popolo, in tal caso si domanda se si può provvedere a "promuovere al Sacerdozio uomini di età matura" (ivi, 2).
Talvolta si presenta un dato come certo e poi si esclude in base ad esso un comportamento.
L'astensione dall'impegno attivo nella causa di "una certa fazione politica" (III, I, 5 a) (si noti la denominazione già squalificante) è giustificata tra l'altro dal fatto che ciò sembra favorire positivamente la libertà della maggioranza dei laici, in quanto allontana il cosiddetto neoclericalismo con il quale a volte i Sacerdoti vorrebbero imporre ai laici le proprie vedute, mettendo nell'ombra la loro libertà in questo campo. E' ancora il sistema di tagliare la testa per evitare il mal di capo.
Anche sul tema dell'agire comunitario nella Chiesa (III, II) gli enunziati programmatici a largo respiro vengono ridotti ad applicazioni univoche che escludono altre alternative non meno legittime. La diversità per es. può certamente costituire un ostacolo alla comunione, però una comunione che non liberi le diversità si distrugge perché diventa massificante.
Con queste osservazioni ho voluto mettere in rilievo il fatto che la mentalità che ispira e condiziona questa traccia di lavoro non mi pare sia quella che potrà contribuire a chiarire il problema.
P. Dalmazio Mongillo


Farò di ogni giorno una festa

Dies natalis di Maria Elena 2-10-2005

Dies natalis di Maria Elena 2-10-2005
"Farò di ogni giorno una festa,
di ogni cosa una festa
e me ne andrò cantando
sotto il sole e sotto la bufera
com 'è bella la parte
che m'è toccata
in sorte! "
Lelena

La Comunità Brasiliana di Bastia Umbra, insieme a quella di Roma, mi hanno comunicato la notizia con dolce serenità, sull'onda di un funerale all'insegna dei colori dell'arcobaleno, del volo di colombe, dei melograni, segno di eternità, distribuiti ai partecipanti.
Una storia - quella di Lelena e delle sue compagne - che rileggo attraverso le parole di Ernesto Balducci nella prefazione a "Lettere a un amico -Cronache di liberazione al femminile plurale", Linda Bimbi, ed. Marietti 1990: "Le trentadue consorelle che insieme alla mittente delle lettere (il destinatario è Lelio Basso, uno dei più illustri rappresentanti del socialismo internazionale, che ebbe con quella comunità consuetudini di amicizia, di frequentazione e di collaborazione negli anni '70 e 480) hanno abbandonato l'ovattata protezione del convento per affrontare i rischi della libertà dentro gli spazi comuni della città secolare". "Lasciando il velo senza rompere la dedizione totale al Vangelo, queste donne, diverse tra loro per razza, per cultura e per classe sociale, scoprono di dover compiere non una ma più rivoluzioni.
E una dopo l'altra cadono le barriere: quelle erette dal maschilismo, quelle erette dall'ideologia religiosa, quelle erette dalla cultura borghese. Passo dopo passo, l'orizzonte della vita cambia. Sono costrette a lasciare il Brasile e tentare collocazioni diverse finché, liberandosi anche dal miraggio delle soluzioni eroiche, trovano una sistemazione - e sembra una beffa -nei luoghi più classici della cristianità: Roma e Assisi (pochi anni fa, per il tremendo terremoto che colpì Assisi, si sono dovute spostare di pochi km a Bastia Umbra)". "Oggi la comunità ha raggiunto un traguardo che se non era nei suoi programmi coscienti, era nelle implicazioni della sua scelta di partenza: è religiosa ma non lo è, è cattolica ma non lo è, è claustrale ma non lo è... E' un piccolo laboratorio del futuro e lo è senza proporselo, assumendo anzi, come fatto normale, la propria provvisorietà che è, a ben pensare, la più radicale forma di povertà".
La loro storia fa "luce a molte coscienze che immerse nel travaglio della transizione, si domandano come sia possibile esser infedeli per restare fedeli, con la lampada accesa". Di questa storia, di questa luce, Lelena è seme avvolto dalla terra per fiorire il cielo.

Storia e avventura di una casa

Da Antonio Sartorello, via Giovanni XXIII, 17 - 31040 Pederobba (TV), ricevo e volentieri ne do notizia: Caro don Luigi, ti invio questo ricordo di Lena Bernardelli, che nel lontano 1951 conobbe don Sirio e fu da lui diretta ed avviata alla conoscenza della spiritualità di Charles de Foucauld... Lena riceveva e leggeva volentieri "Lotta come Amore". Nel numero dell'ottobre 2005 ho letto del tuo incontro con le piccole sorelle Maura e Giulia ritornate a Bargecchia per festeggiare il loro 50° di professione. Sono state due presenze molto importanti nel cammino spirituale di Lena.".
Nella casa che Antonio, medico a Pederobba, costruì, in via Giovanni XXIII, nei primi anni '70, abbastanza grande da poter ospitare non solo amici, ma altri anche in difficoltà, per mezzo del comune amico don Olivo Bolzon, entrò il 27 aprile 1974, Lena Bernardelli.
"Lei disse subito: In questa casa, sia pure non lussuosa, ma nuova e bella, i poveri... non entreranno facilmente!!... Dovrò ricevere forse i colleghi del medico e le loro consorti, o altre persone che certo non fanno proprio parte del... genere dei poveri?!
Fu così che, mentre stava maturando in lei a poco a poco l'idea di lasciare la casa per ricercare un luogo più confacente ai suoi progetti, in occasione di un suo ritorno al paese natale, nella stazione di Peschiera del Carda, incontrò Raffaella, quattordicenne figlia di un suo cugino che abitava a Monzambano nella stessa casa, che le disse: Zia Lena ho bisogno di andar via da casa! Sono in rotta con i miei. Non mi capiscono... ho bisogno di stare via per un po' di tempo. Vengo da te! Vieni quando vuoi, fu la risposta. E Raffaella giovane rivoluzionaria imbevuta di spirito sessantottino, arrivò a Pederobba per 15 giorni! Quei 15 giorni si protrassero, sia pure con intervalli e interruzioni diverse fino a 14 anni!
Ma debbo aggiungere anche che ogni qualvolta si presentava a Lena il pensiero che questo non era il suo posto e la relativa tentazione di andarsene, capitava il caso, l'emergenza che richiedeva la sua presenza e la sua opera... Per onestà debbo però sottolineare che le mie idee e prospettive erano diverse, e che faticai non poco a volte ad accogliere le sue. E' certa una cosa: la sua intuizione e la sua sensibilità qualche volta mi spiazzavano proponendomi anche delle scelte difficili, che faticavo subito ad accettare, e che magari dopo si rivelavano azzeccate ed utili. Fu così che Raffaella inaugurò la lunga serie di ospiti: giovani e meno giovani, coppie in viaggio di nozze e altre in difficoltà, qualche suora o religioso, carcerati in permesso o a fine pena, alcoolisti e tossicodipendenti in programma terapeutico..". Da "Storia e avventura di una casa (al civico n. 17 di via Giovanni XXIII in Pederobba - TV)" libretto composto da Antonio Sarorello in ricordo di Lena Bernardelli.

OFFERTA
Lento è lo snodarsi dei giorni,
la meta è velata,
vagare in solitudine,
dolcemente posata nella tua mano
è la mia sola capacità;
lasciarmi portare

Nel lento snodarsi dei giorni
immergermi, piccola scintilla
nel fuoco del Tuo Fuoco
ad abbracciare il mondo,
ogni mano, ogni casa
perché tutto sia rinnovato e compiuto
nella tua volontà, nel tuo amore

31 marzo 2001

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