LOTTA COME AMORE: LcA luglio 1995

(frontespizio)

Quando mai è stato facile
guardare al cielo
con gli occhi della terra?

La terra è bassa

Sembra appena ieri il giorno in cui abbiamo completato la spedizione del precedente numero di Lotta come Amore (il primo di quest' anno) e siamo già alla stesura di questo secondo numero che arriverà ai nostri amici lettori nel cuore dell'estate.
Un filo sottile eppure intenso quello che ci lega, nella pochezza delle nostre cose, a questo foglio e, tramite questo foglio, a ciascuno di voi, lettori reali o immaginari!
Questo giornaletto parla molto di noi. Non delle cose che facciamo (quasi sempre non sono dissimili dai tentativi di sopravvivere di tanti...), ma dei sogni, dei desideri, delle fantasticherie spesso assai arzigogolate che raccontiamo a voi. Vi ringrazieremo sempre della pazienza con la quale ci seguite. Ci siamo resi conto con il passare del tempo che questo sforzo di comunicazione ci rende più attenti nell'ascoltare gli altri. E' vero che non c'è un dialogo diretto attraverso le pagine del giornaletto, ma filtra ugualmente attraverso le maglie della vita quotidiana, dei mille piccoli rivoli che irrigano il campo dei rapporti umani.
E' nella vastità dei sogni e delle speranze, nei silenzi che abitano le grandi distanze, nei gesti quotidiani che segnano la vita di tanti, che noi comunichiamo.
Speriamo che gli amici lettori percepiscano questo e siano stimolati a lavorare con passione o
almeno a riprendere in mano gli attrezzi della speranza per fecondare questa terra - ogni zolla di terra dove sia dato di vivere! - di semi di umanità, di amicizia e di comunione.
Non è facile oggi. Ma quando mai è stato facile? La terra è bassa non solo per i contadini, ma anche per tutti coloro che si lasciano gonfiare da interessi spirituali, elette idealità, convinzioni di bene assoluto e si dimenticano così che il primo gesto di chi si accinge a seminare qualcosa è un compassionevole chinarsi verso il basso. Compassionevole nel significato letterale di chi lascia che le passioni cantino i loro richiami e che altre voci si uniscano.
Non possiamo coniugare compassione con indifferenza, freddezza, rassegnazione e così via. Ugualmente non possiamo essere compassionevoli ed insieme pieni di sé. E non importa se di superbia o di umiliazione, di senso del potere o di tantissima paura.
Nella tradizione monastica si insegna a pregare insieme in modo che ognuno con le proprie orecchie ascolti il suono delle voci degli altri mentre unisce la sua al coro. Una fusione plastica che dà forma all'armonia.
Vivere la propria vita, "ascoltando" nello stesso tempo quella degli altri, è dunque preghiera, fusione di carne e di sangue che dà forma all'umanità nell'umana compassione.
Non dimentichiamo che il chinarsi verso il basso che ha dato alla compassione il significato distorto dell' opera buona, è il chinarsi verso il basso di chi si colloca nei cieli. Di chi si crede esonerato dalla concretezza del proprio corpo e liberato ad ambizioni e desideri angelici. Siano questi anche l'esser come Dio. Di chi giudica niente ciò che è in basso; niente!, salvato, nella sua assoluta insignificanza, unicamente da ciò che risiede nell'incontaminato azzurro dei cieli.
La terra è bassa, ma chi vi semina guarda al basso non come un supporto inerte, ma come una dimensione viva e ricca di energie. Le sole energie che possono fecondare quello che il seminatore ha in mano e nel cuore.
La terra è bassa, ma chi vi si china sopra con amore sa che è dal basso che il seme deve essere visto e accolto. Sono gli occhi della terra che vedono il cielo!
E' così difficile convincerci di questo?
E' così difficile guarire dai terribili morsi dell' onnipotenza che ci hanno fatto delirare di poter ottenere tutto e subito?
Chi guarda le cose dal basso (e sono i poveri della terra, i dannati della storia, i relitti delle guerre e delle competizioni liberiste all'ultimo dollaro) cerca di sopravvivere; ed è fatica terribile, ogni giorno.
Vogliamo compatirli?
Abbiamo due strade: quella della carità e della compassione buona che ha senso solo quando è il primo passo che ci libera dalla pietra tombale dell'indifferenza, ma rischia, se coltivata per se stessa, di farci salire al cielo del nostro merito. E quella della compassione dura che ci spinge a guardare la realtà - come loro! - dal basso. Lottando anche noi nella nostra realtà storica per quella stessa dignità che per l'affamato è un pezzo di pane; per la stessa libertà che per l'uomo dilaniato da una pallottola è quella di morire stringendo la mano di un altro uomo, negando così la ragione stessa del suo morire ...
E' difficile? In questa società complessa, in questi rigurgiti di individualismo esasperato, in questo campo di battaglia chiamato libero mercato? E' difficile chinarsi sulla bassa terra, quando tutta la nostra attesa è concentrata sul momento in cui ci spunteranno le ali.
E' difficile. E allora?


La Redazione

La posta di fratel Arturo

Cari amici lucchesi (*)
quest' anno la nostra Pasqua è stata davvero benedetta.
La settimana santa è stata la settimana argentina: sono venuti a visitarmi amici carissimi dall'Argentina che ci hanno portato ricordi di tempi lontani, vissuti con grande intensità e grandi speranze. Ci hanno parlato di questo ritorno al tempo della "guerra sudicia" dei desparecidos. Vengono fuori episodi di ingiustizia e di crudeltà che coinvolgono anche persone di Chiesa. Qualcuno potrebbe dire: perché non mettere una pietra sul passato? La domanda non dovrebbe stare sulla bocca di un cristiano. Noi crediamo che non esiste la morte definitiva. Quelli che hanno pensato che potevano gettare nell'oceano un "sovversivo" perché nell'oceano potevano distruggere per sempre una vita, si sono ingannati: il morto vive e continua ad accusare l'ingiustizia e i colpevoli. Con la risurrezione di Gesù, Dio invalida la sentenza di morte e tutte le sentenze di morte che l'uomo dichiara contro l'uomo.
Quello che succede in Argentina, per me, è una prova dell'immortalità dell'uomo, della sua indistruttibilità. Quelli che sono stati tagliati a fette, inceneriti, affogati nel mare, vivono e non permettono che quelli che direttamente e per complicità si sono macchiati del delitto, abbiano sogni tranquilli e possano continuare a tacere. Quelli "che non sono morti" parlano ai vivi. Un cristiano invece di dire: "Ma perché non la fanno finita? Perché non dimenticano il passato?", dovrebbe dire: "Davvero l'uomo è molto importante. Agli occhi di Dio è l'essere che il Creatore ama tenacemente e teneramente. Nessuno ha il diritto di fargli del male e nessuno potrà mai pretendere di cancellarlo dalla vita". Non so come i giornali italiani diffondano queste notizie e quali i commenti, le polemiche, le difese di questo e di quello. Non ascoltiamo mai con umiltà, con fede, con vera contrizione, Dio che ci parla con gli avvenimenti. Sempre vogliamo difenderci e difendere; magari poi andiamo a confessarci di aver mangiato carne nei Venerdì di quaresima. E non ascoltiamo il rumore della forza di Dio che rompe le pietre dei sepolcri. Non sappiamo più sentirci popolo colpevole e ascoltare l'accusa di Dio che veramente è offeso di tutte le offese che arrechiamo ai nostri fratelli. Io ho sentito, alle notizie che portavano i fratelli dall'Argentina, un canto di risurrezione.
La mia preghiera nel giorno di Pasqua che continua a rimbalzarmi dentro è: "Non dabis sanctum tuum videre corruptionem". Ci credete che la mia preghiera personale, silenziosa, è in latino? "Tu non permetterai che il Tuo santo (cioè colui con cui hai fatto un patto di alleanza) veda la corruzione". Non si riferisce solo a Gesù: Tu non permetterai mai che l'uomo sia distrutto, annullato, che non se ne parli più.
L'ho fatta lunga? Volevo manifestarvi sentimenti che ora vivo intensamente.
E' come se sentissi in tutte le mie cellule l'energia potente della risurrezione.
In questa settimana abbiamo con noi Aldo con il figlio - troppo poco tempo, ma è stato un incontro molto "giocondo" -, Mario De Maio, Ludovica e Sergio. I lucchesi vi parleranno di quello che hanno vissuto con noi. Io sento queste visite segno che l'AMICO davvero mi vuol bene. Quando scopro questo mi pento di essermi preoccupato, di non aver lasciato a Lui la cura di me. Ma purtroppo ci ricascherò... Spero incontrarvi presto. Non so quando sarà questo presto perché i miei datori di lavoro mi hanno preso tutto il mese di giugno. Devo difendermi, ma mi è difficile.
Un salto a Lucca lo farò in tutti i modi. Intanto vi abbraccio.
fratello Arturo
p.s. Io non scrivo dogmi ma idee da essere criticate cioè approfondite, contraddette, dialogate!

(*) Arturo Paoli scrive questa lettera nell'aprile di quest'anno agli amici del gruppo "Progetto Boa Esperanca" che si prefigge:
1) l'intensificazione dell'impegno concreto nel progetto di sostegno all'azione di Arturo con un allargamento del numero di persone impegnate a versare una quota mensile anche modesta ma continuativa;
2) lo studio di problemi di fondo della società sudamericana e del rapporto con la società occidentale;
3) la promozione di azioni politiche di coordinamento con altri gmppi operanti nel nostro territorio con analoghe finalità al fine di modificare caratteristiche cd entità del tipo di aiuto fornito ai paesi del Sud del mondo.
Il riferimento del gruppo è: Aldo/Elisabetta, c/o libreria "Lucca Libri", piazza Campana - 55100 Lucca


Arturo

Obiezione totale

E' passato mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale: cinquant' anni - più o meno il tempo della mia vita - ci separano dal momento in cui terminava una delle più spaventose tragedie provocate dalla follia umana. Così scrive il papa Giovanni Paolo Il" nel messaggio di commemorazione di quella data: "L' 8 maggio 1945 si concludeva sul suolo europeo la seconda guerra mondiale... A mezzo secolo di distanza, i singoli, le famiglie, i popoli custodiscono ancora il ricordo di quei sei terribili anni: memorie di paure, di violenze, di penuria estrema, di morte; esperienze drammatiche di separazioni dolorose, vissute nella privazioni ogni sicurezza e libertà; traumi incancellabili dovuti a stermini senza fine".
Mi ha fatto molta impressione ripensare ai primi sei anni della mia vita segnati dallo scandire di avvenimenti spaventosi, dominati dalla morte e dal dolore di milioni di persone. Anch'io ho i miei "ricordi" stampati in modo incancellabile nel fondo dell' anima. "Col trascorrere del tempo - continua il messaggio i ricordi non devono impallidire; devono piuttosto farsi lezione severa per la nostra e per le future generazioni".
Anch'io credo di aver appreso, strada facendo, la "lezione" di quella tragedia: penso che sia veramente giunto il tempo, dopo cinquant' anni da quell' evento, e raccogliendo tutto ciò che è accaduto dopo e sta tuttora accadendo, di trarre delle conclusioni che aprano percorsi nuovi, vie diverse, cammini inediti. Occorre una lettura profetica anche della storia passata, perché forse essa sola è capace di illuminare di luce nuova il presente e il futuro: piangere sul troppo sangue versato può essere un atto doveroso e indispensabile, ma dalle lacrime deve nascere qualcosa che faccia fruttificare una autentica novità di vita. Sono dispiaciuto che lo stesso papa Giovanni Paolo non abbia coraggiosamente delineato questi percorsi nella lettera enciclica "Il vangelo della vita" troppo preoccupato com'era di sottolineare i pericoli derivanti dal problema dell'aborto, dell'eutanasia, delle nuove tecniche di riproduzione umana. Ci sono rapidi e sfuggenti (ed anche contraddittori) accenni al problema della guerra. Penso invece che una riflessione seria e decisiva vada fatta all'interno della comunità cristiana, liberando il discorso e 1'annuncio da tutti i "freni" che il bisogno di consenso, le ragioni dell'opportunità, la necessità degli equilibri politici e diplomatici possano imporre. Una lettura profetica della seconda guerra mondiale, la cui tragedia appare sempre più vasta all' occhio e alla mente che penetra in tutti gli aspetti di quel tremendo avvenimento, costringe a spingere il discorso fino alle sue estreme conseguenze perché cresca nel cuore dei credenti - e da essi si allarghi a misure più vaste possibili - la convinzione che la guerra è sempre un male orribile, mai "necessario", mai "inevitabile", sempre da respingere in tutte le sue molteplici componenti. La guerra non deve mai essere "giustificata", se abbiamo il coraggio di vederla nella luce del mistero di Dio che è mistero di vita, di amore, di pace . Guardando col cuore lacerato alla tragedia della Bosnia, ai tre anni di guerra atroce che ha cosparso di morte e di odio terre e popoli della ex-Jugoslavia, non si può non sentire dentro l'anima la ribellione verso ogni apparato militare e guerresco, ad ogni fabbrica di armi, ad ogni commercio di questi orribili strumenti di morte. Se vogliamo affrontare il problema con un minimo senso di serietà e responsabilità, credo che occorra il coraggio di una presa di posizione molto netta nei confronti di tutto l'apparato militare-industriale, di tutta la cultura "guerresca" di cui è imbevuto il nostro tessuto sociale, fin dentro le pieghe più nascoste anche della cultura religiosa e della pratica di vita. Penso che non ci possa essere altra risposta che quella di una OBIEZIONE TOTALE, un rifiuto forte e deciso di qualsiasi forma di collaborazione, comprensione, accettazione di tutto l'insieme della realtà economica, politica, culturale che si traduce nella concretezza dei fatti nelle "strutture militari" dello Stato. Bisogna sradicare dal cuore e dalle fibre più intime dello spirito - e di conseguenza dalla realtà concreta dei rapporti sociali - ogni forma di connivenza e di copertura con la "cultura militare" che è inevitabilmente segnata dalla cultura della morte, anche se motivata con i nobili sentimenti della difesa dei deboli e dei "confini della patria". Mi pare di avvertire qua e là, in varie maniere e molteplici occasioni, un'aria di voglia di rivalutazione della realtà militare, soprattutto ora che è in atto una ridefinizione delle forze armate a livello europeo e internazionale. La cultura delle "azioni di polizia" attraverso lo spiegamento di uomini (e donne) altamente specializzati e quindi debitamente equipaggiati (con grande soddisfazione di tutti i produttori del settore) potrebbe essere la cultura dell' avvenire. Rompere i legami e gli accordi, più o meno evidenti, con questo tipo di realtà, mi sembra indispensabile per chi si voglia collocare sul versante della testimonianza evangelica. E' giustissimo gridare "Mai più la guerra!", ma poi occorre proclamare la rottura di quell'equilibrio che ha permesso per secoli e secoli la comunione tra la croce e gli eserciti. Bisogna dichiarare chiuso per sempre quel tempo e aprire il grande "portone" chiuso da più di un millennio per poter intravedere lo splendore di un cielo nuovo e di una terra almeno disposta al cambiamento.
L'esperienza tremenda di ciò che è accaduto in Argentina durante gli anni della dittatura militare (1976-1983) è una realtà che sempre più viene alla luce e mette a durissima prova la credibilità della Chiesa. Durante quegli anni durissimi (e molto "vicini") sono stati commessi crimini, violenze d'ogni genere, torture e "sparizioni" di migliaia di civili, con la copertura di vescovi e cappellani militari che "sapevano". La denuncia di questa angosciosa situazione è stata fatta con forza dalle "madri di Piazza di Maggio", che sono state per più di dieci anni la "voce profeti ca" che non si è stancata di gridare al mondo intero il bisogno di giustizia e di verità. Penso che ciò che è avvenuto in Argentina risponda ad una logica perversa, spinta sicuramente all'estremo, ma che porta dentro di sé una specie di interna giustificazione: la dottrina della "sicurezza nazionale" può abbagliare anche coloro che si dovrebbero ispirare unicamente alla luce e alla forza della verità e dell'amore di Cristo, così come è accaduto tante volte nel passato lontano o più recente a causa della teoria della "guerra giusta" e dal "sacro valore della patria". Credo che occorra lavorare molto intensamente, là dove ciascuno può arrivare nel proprio impegno quotidiano, per far crescere e maturare una coscienza cristiana libera da paure o compro missioni con il potere dominante, per cui sia possibile la presenza di uomini e donne sempre più disposti al rifiuto, alla respinta, all'obiezione totale verso l'apparato militare e tutto il "mondo" che guadagna, vive e si alimenta della guerra o della "paura della guerra". Cercando vie di pace, costruendo tenacemente un insieme di "forze disarmate" per quanto riguarda gli strumenti della morte e della distruzione, per arrivare (magari nel quarto millennio!) alla realizzazione del sogno che Bernard Benson descrive col suo stile intenso al termine del suo secondo "Libro della pace":
"Prima di tutto le persone cominciarono a credere che il Disarmo Totale del Mondo era possibile...
Milioni e milioni di persone furono catturate dall'idea.
Si dedicarono ad essa anima e corpo.
Poi tutti insieme affrontarono i loro capi, li minacciarono di cacciarli via. se non avessero eliminato le Armi.
Si rifiutarono di continuare a lavorare nelle Fabbriche di Armi.
Chiusero i cancelli...
Raccolsero tutte le Armi che erano state già fatte... e le distrussero...
Alcuni ne fecero delle sculture...
La Pace, come idea, aveva davvero messo radici, e l'idea si diffuse, finché invase tutto il Mondo... e niente poteva fermarla!"

don Beppe

L'ombra di Hiroshima

La notizia che la Francia, sotto la guida del suo nuovo presidente Chirac, ha dato il via alla ripresa degli esperimenti atomici nell'area del Pacifico meridionale, ha nuovamente portato alla ribalta il drammatico problema dell' esistenza e permanenza in "buona attività" delle testate nucleari "autorizzate": Stati Uniti - ex Unione Sovietica - Regno Unito - Francia e Cina.

Alla fine del 1994 sembra che la Francia avesse circa 500 testate nucleari: la ripresa dei test atomici è motivata dalla necessità di mantenere aggiornata ed efficiente la "forza d'urto" degli arsenali nucleari.

Già si sono levate alcune forti proposte sia da Greenpeace sia dagli abitanti delle zone interessate direttamente dal problema.

Ma il problema riguarda tutti!

Occorre unire le forze, alzare le voci, dare "segnali di vita" contro la logica del potere militare industriale che è logica di morte.

Pretioperai a convegno

"Stiamo entrando nell'Europa della ricchezza e dei ricchi, tavola alla quale non hanno accesso 35 milioni di poveri dell 'Europa né i popoli dei paesi del Sud. L'immagine dell'Europa si ritrova nel successo economico, ma anche nell' incapacità di condividere i beni eccedenti e nel divieto d'ingresso degli stranieri. Noi diventiamo sempre più un castello che si deve difendere dagli aggressori, anche da quelli che chiedono solo lavoro e nutrimento".
Con queste parole, Gaspar, giovane prete operaio portoghese, morto di cancro il giorno di Pasqua di quest' anno, riassume il momento presente in un articolo per il n. 30/1995 della rivista "Pretioperai" dedicata alla "Cronaca, storia, prospettive dei preti operai europei" in occasione del 40° anniversario del diktat delle Congregazioni Romane che vietava ai preti di continuare il lavoro in fabbrica avviato da un decennio.
Sulla stessa linea l'invito ai preti operai italiani per il convegno che si è tenuto alla fine d'aprile dal titolo "Beato chi resiste!": "In un contesto di grandi sofferenze di continenti e di popoli dove i molti (deboli) subiscono gli effetti delle decisioni dei molti (forti), abbiamo bisogno di mettere insieme, confrontare, ciò che vediamo e pensiamo, per allargare la nostra capacità di analisi per sostenere le nostre azioni, per resistere attivamente al "baccanale dell' esteriorità" che impazza nel nostro paese, per cercare ancora il volto dell'amico."
Il tema delle Beatitudini non è nuovo per i pretioperai italiani che ne fecero oggetto di un seminario che si tenne nella forte emozione per la morte di Sirio Politi che di molti preti operai fu punto di riferimento e amico forte e generoso. Proprio le sue parole, citate nell'introduzione al seminario, possono costituire il filo conduttore del cammino dei preti operai italiani in questi ultimi anni. Scriveva Sirio: "... Siamo poveri - e questa è la povertà autenticamente gloriosa, esaltante - perché non siamo niente e quindi non contiamo niente. Non abbiamo nemmeno l'ombra di un minimo di potere, nemmeno quello che può venire da una considerazione, da un appello, da una benedizione. Neanche un granello noi abbiamo di qualsiasi autorità, non soltanto quella, ci mancherebbe altro, che vuol dire comandare, ma quella che proviene dall'essere servi, servi tori riconosciuti e accettati. Niente. Nemmeno siamo quei cani che hanno un padrone, una medaglia al collo, qualificati perché di razza. Siamo cani senza collare, sciolti, randagi, ad abbaiare alla luna piena. Assolutamente però senza museruola e senza l'obbligo di scodinzolare a nessuno. Liberi in tutto, perfino dai problemi che il nuovo concordato comporta per il clero in materia economica e circa la religione nelle scuole dello stato ecc ... Non sappiamo come e perché siamo cresciuti così, all'aperto; e il vento e la pioggia, il freddo e il caldo, sono sempre stati e sono doni di Dio, cioè predilezione, abbandono, riconoscenza, accoglienza e offerta e cioé Amore. E' la povertà dell' aver venduto tutto, assolutamente tutto, perfino l'ombra del privilegio, per poter cercare il 'tesoro' nel campo del mondo, nella terra della storia, nella zolla di ogni essere umano... ".
In questo terreno aperto e di vasto respiro si sono sempre più alimentate le parabole di vita dei preti operai in questi ultimi dieci anni. Con maggiore consapevolezza collettiva dopo il convegno del 1989 dove, in un confronto che ha aperto tra noi evidenti lacerazioni, così è stato sintetizzata la "forma futuri" della nostra esperienza: "Se vi saranno ancora preti operai sbocceranno come carismi personali in ministeri ordinati e la loro "forza" non consisterà tanto nell' esercizio di una qualche pressione sulla chiesa o nell'operare chi sa quali conquiste sul piano religioso, quanto nell'essere segni, realtà simboliche, che associano nella loro vita aspetti che appaiono divergenti, se non conflittuali, e proprio mediante la contraddizione esprimono una comunicazione e un appello" (Relazione introduttiva). E dal convegno del 1992 emerge chiaro come la parola "resistenza" non abbia i connotati di una ostinata cocciutaggine a strutturare l'esperienza dei preti operai in maniera tale da vincere il tempo, ma l'umiltà di chi ascolta e contempla, attento a non sostituire se stesso alla Parola che viene da Dio:
"Sembra il tempo dell'impotenza; invece è proprio questo il tempo di lottare facendo appello alle riserve di energia, alle ragioni più vere ed alla più lucida ragione. Ciascuno cerchi quel nucleo di luce che abita nel profondo o quel sogno che non ha del tutto dimenticato. E' tempo di riprendere la parola, di comunicare tra umani, perché il rischio è proprio l'eclisse di quanto è umano in noi, l'appiattimento di ogni soggettività e della dimensione comunitaria del nostro vivere" ("Pretioperai" n.22).
E in questa comunicazione, ravvivata nei giorni del convegno, risulta chiaro come il "lavorare" per i preti operai sia ancora oggi "condividere con i cristiani qualsiasi l'essere trattati male, ignorati, strumentalizzati, oggetto di aggregazione anonima, gente comune, applaudenti, figli di un "dio minore"! e "resistere" è insieme una testimonianza e un appello ad assumere come "indispensabile l'essere adulti e liberi per sé a partire da questa sofferenza in proprio, per porre il problema della libertà, che è da condividere e diffondere per tutti, anche nella Chiesa" (dalla relazione del gruppo veneto).

Mi sono chiesto spesse volte dove passi il confine tra la necessaria resistenza e l'altrettanto necessaria resa davanti al "destino".
Don Chisciotte è il simbolo della resistenza portata avanti fino al nonsenso,- anzi alla follia - come Michael Kohlhaas, che diventa colpevole rivendicando il proprio diritto... Per l'uno e per l'altro la resistenza alla fine perde il suo significato reale e si dissolve in una sfera teorico fantastica; Sancho Panza è il rappresentante di quanti si adattano, paghi e con furbizia, a ciò che è dato.
Credo che dobbiamo effettivamente por mano a cose grandi e particolari, e fare però contemporaneamente ciò che è ovvio e necessario in generale; dobbiamo affrontare decisamente il "destino" - trovo rilevante che questo concetto sia neutro [nella lingua tedesca]- e sottometterci ad esso al momento opportuno.
Possiamo parlare di "guida" solo al di là di questo processo; Dio non ci incontra solo nel "tu", ma si "maschera" anche nell'" esso", ed il mio problema in sostanza è come in questo "esso" ("destino") possiamo trovare il "tu" o, in altre parole, come dal "destino" nasca effettivamente la "guida".
l limiti tra resistenza e resa non si possono determinare dunque sul piano dei principi; l'una e l'altra devono essere presenti e assunte con decisione.
La fede esige questo agire mobile e vivo. Solo così possiamo affrontare e rendere feconda la situazione che di volta in volta ci si presenta .
Dietrich Bonhoeffer

Utopia della coscienza

"A vent'anni si diventa uomini di guerra": così è scritto nei millenni della storia; nulla è cambiato se non la spada l'arco e le frecce e il grido di battaglia.
Mi ribello e respingo questo destino. Mia madre non mi ha partorito perché la madre patria faccia di me un soldato mi rivesta di una divisa, mi rinchiuda dentro una caserma armato di fucile in fanteria o dentro la corazza di un carroarmato, a puntare cannoni di incrociatori sul mare, a fendere di bombe e missili l'azzurro sopra le nuvole del cielo, a seminare di morte questa povera terra.
Sono nato e sono al mondo per essere un uomo non un soldato, uomo che ama e vuole essere amato, non un ordigno che esplode la morte, un battaglione che parte all'assalto a cercare di uccidere per non essere ucciso.
Cos' è questo giocare alla morte per la grandezza di patria e l'esaltazione dell' onor nazionale?
Cos' è questa gloria sul campo di battaglia, il coraggio di ammazzare per non essere ammazzati?
E' la stupidità di un incredibile inganno che ha traboccato di morte la terra e affogato la storia di lacrime e sangue.
No, caporale o signor generale non vengo a mettermi sull'attenti a diventare un burattino in divisa per dire sempre e soltanto: signor sì!
La disobbedienza al servizio militare è obbedienza alla propria coscienza e rifiutare le armi e l'esercito è credere e lottare perché finalmente il mondo sia abitato da un 'umanità diversa.
(Sirio, "Le ombre di Hiroshima", Declamazioni sceneggiate di pace, Viareggio 1983)

Don Sirio Politi
(1920-1988) prete operaio nella Darsena di Viareggio, abitante dei grandi spazi dello spirito, uomo impegnato con passione sul fronte della giustizia sociale, della pace, della lotta antinucleare, restio ad ogni forma di protagonismo, don Sirio non si è mai considerato un leader, rifiutando le certezze e le sicurezze di un sacerdozio chiuso in sacrestia. Volle abitare nel mondo per vivere una fede semplice ed essenziale, liberata da teologie e ideologie. Spesso incompreso ed emarginato incarnò nella insignificanza della vita quotidiana, nella sua piccola chiesetta del Porto e nel laboratorio di ferro battuto, il detto a lui caro: "chi lotta e soffre su una zolla di terra, lotta e soffre su tutta la terra".
Obiettore di ogni forma di concordato tra stato e chiesa per una libertà pienamente fondata sulla coscienza personale al di sopra di ogni autoritarismo e forma di potere, lottò a lungo contro quell'insieme di interessi politici, religiosi ed economici che si servono del concetto di "patria" per alimentare i focolai di guerra nel mondo.
Per risvegliare la coscienza popolare riguardo a questi temi, promosse, a cavallo degli anni '70 e '80, delle azioni teatrali con la collaborazione di un folto gruppo di giovani di Viareggio e dintorni. Un teatro itinerante seguito da infiniti e appassionati dibattiti in giro per l'Italia e nei luoghi più disparati, dalle chiese, alle fabbriche, alle discoteche. Convinto sostenitore dell' obiezione di coscienza al servizio militare, offrì ai giovani, fin dal 1980 a Viareggio, la possibilità del servizio civile nell'associazione A.R.CA. da lui fondata. Presidente nazionale del M.I.R. (movimento pacifista inter confessionale, nato in Europa dalle ceneri della II guerra mondiale), fu attivamente presente nelle campagne per l'obiezione fiscale contro le spese militari e per la riconversione civile delle fabbriche di armi.
Preoccupato per l'adesione indiscriminata al nucleare fortemente legato all'industria bellica nelle scelte energetiche della fine degli anni '70, si impegnò in prima persona in una attività a tutto campo che lo portò ad essere incriminato per occupazione della linea ferroviaria in occasione di una manifestazione del popolo della Maremma contro la costruzione di centrali nucleari a Capalbio e a Montalto di Castro.
Dieci anni dopo, pochi mesi prima di morire, visto il risultato del referendum- che sancì l'opposizione al ricorso al nucleare, poteva però scrivere sul suo giornaletto "Lotta come Amore":
"Non mi è possibile nascondere la giusta soddisfazione di vecchio antinuclearista. E non è tanto per vittoria (è sentimento sciocco se in contrapposizione alla sconfitta), ma unicamente per l'utopia iniziata a palpitare nei sogni di vent'anni fa sulle piazze, a Capalbio, a Montalto di Castro, a Caorso, sulle timide paginette dei giornaletti della Nonviolenza, dei pacifisti, dei gruppi più o meno sparuti e dipinti delle manifestazioni, a fare folclore antinucleare, rischiando giudizi di pazzo idi, di arruffoni del buon comportamento politico, della saggezza lungimirante dei partiti, preoccupati per questa manica di urlatori decisi a riportare l'umanità, dal progresso dell'Enel al lume di candela...
Fu pesante a quel tempo l'utopia e carica di angosciosa perplessità a decidersi di farsi manifestazioni di blocco delle strade, del traffico ferroviario, di scontri con la polizia: questa fatica pazzesca di infiltrare l'utopia dell'antinucleare nell'opinione pubblica, nelle centrali del Potere, nei sacrari della scienza e del progresso.
Fu assai dura e lottata con passione, la vittoria al tribunale di Grosseto con piena assoluzione per manifestazioni non autorizzate e blocco ferroviario. E amarissima, sconcertante, in sede di Corte d'Appello a Firenze, la condanna a sei mesi di carcere e cinque anni di condizionale: e la Legge credette, in quel mattino piovigginoso, di aver respinto ancora una volta l'utopia a vagare nel mondo dei pazzi e a garantire così la libertà di progresso all'inciviltà criminale del nucleare.
Ecco che quell'utopia adesso è diventata la Legge, orgoglioso motivo di civiltà, provocazione a ricerche scientifiche risolutive, a piani energetici a misura d'uomo e di rispetto ecologico...
Quando l'utopia dal mondo dei sogni, dove logicamente nasce, si matura, acquista possibilità e sostanza d'autentico valore di umanità, a poco a poco, ma irresistibilmente, scende, si cala, entra nel tessuto del vivere umano, diventa movente, provocazione politica, allora l'utopia diventa l'unica forza capace di rovesciare l'impossibile e di rendere concretezza il sogno".
L'occasione per queste citazioni di scritti di Sirio nasce dalla richiesta del Comune di Viareggio di un breve profilo di Sirio da inserire in un libretto per dare ai giovani informazioni sul servizio civile. Iniziativa "meritoria", ma assai lontana dallo spirito con cui Sirio portava avanti la sua lotta contro le strutture militari.
Si può parlare ancora oggi di obiezione di coscienza nel campo del servizio civile alternativo a quello militare? O piuttosto di una obiezione di coscienza che può essere attiva in alcune (e non tutte, di per sé) modalità del servizio civile? E molto giocate sul filo della resistenza agli inquadramenti che si materializzano concretamente nell'attuale iter della legge di riforma del servizio civile come alcune testimonianze, non solo individuali, ma di gruppo, fanno chiaramente intendere?
Così le vigorose espressioni di Sirio nei suoi testi teatrali di lotta suoneranno assai strane in un testo pubblico (ammesso che siano realmente pubblicate integralmente) se non ci sarà una ripresa di iniziative collegate a questo spirito di utopia che cammina sulle strade degli uomini.
La prima provocazione è nei confronti di noi stessi, pacifici abitanti della Chiesetta del Porto, custodi di una memoria che però rischia ogni giorno di essere solo formale.
Di questo rischio ci sentiamo consapevoli, ma non gravati dalla responsabilità assoluta che questa memoria sia sostanziata nella nostra povera ricerca di onestà di vita. Gravati semmai dalla responsabilità della ricerca, dentro di noi, intorno a noi, fino ai confini della terra... per riconoscere, meravigliarsi e benedire i luoghi, le persone, i popoli dove la storia che la morte non chiude, continua.




Rwanda: e come un anno dopo?

(da Goma, Zaire)
La donna giace sul nero terreno vulcanico del viale di una delle strade principali di Goma. Un uomo - forse suo marito? -, si china accanto a lei e stende un panno sopra il suo corpo esile. Migliaia di rifugiati Rwandesi camminano avanti e indietro portandosi dietro le loro povere cose e li scansano appena. Le macchine delle organizzazioni assistenziali passano veloci sollevando nuvole di polvere cercando di portare aiuto alla sofferenza di milioni di persone. L'uomo sussurra qualcosa alla donna e alza le spalle in segno di impotenza. La tiene tra le sue braccia emaciate. La donna fa una smorfia di dolore, ha un sussulto e muore. L'uomo le sta un momento silenzioso accanto, poi la avvolge tutta strettamente con il panno e lentamente si allontana. Quasi nessuno avverte quella straziante tragedia che si è consumata in quell' incubo che è lo Zaire orientale. Ognuno sta cercando di sopravvivere anche solo un giorno di più.
C'è gente dappertutto. Le strade sono intasate da un mare di umanità. Chiese e cortili sono pieni di gente che giace su misere stuoie o semplicemente distesa fianco a fianco su quella dura terra rocciosa. I viali, le traverse, i parchi e le spiagge del lago Kivu, ogni possibile spazio aperto di Goma e in direzione nord è affollato di Rwandesi disperati che hanno lasciato in massa le loro case per cercare rifugio in Zaire.
"E' il peggior disastro mai accaduto al mondo", dice un portavoce della Croce Rossa Internazionale, "e noi non possiamo farci nulla: ogni giorno va sempre peggio".
Non ci sono più alberi, quasi più erba. Le strade così congestionate da gente esausta che le macchine dei soccorsi quasi non si possono muovere. Una nuvola di fumo e di polvere stagna sopra la piccola città di provincia con i suoi 150.000 abitanti divenuti ora oltre un milione.
Ci sono corpi dappertutto. Esili corpi infagottati di coperte, stuoie e pezzi di stoffa; bambini, ragazzi, donne, uomini, vecchi. Corpi abbandonati da coloro che possono muoversi e vagare in cerca di acqua, cibo, medicine, qualunque cosa possa sostenere i loro corpi esausti. Muoiono dove cadono, a migliaia.
E' una scena di dimensioni apocalittiche.
E' un inferno.
Ma, come dice l'arcidiacono Katanga Masingo della diocesi Anglicana di Goma, cominciano ad apparire fragili segnali di speranza: "Cerchiamo bambini che sono stati separati dai loro genitori e li stiamo radunando in un posto in modo tale che possano essere ritrovati dai loro genitori, se questi sono ancora vivi. Offriamo parole di incoraggiamento e diamo una mano per provvedere cibo e acqua per coloro che sono troppo deboli per andare ai campi, adesso meglio organizzati, fuori di Goma. I cristiani in Zaire sono molto generosi". In effetti è nei recinti delle chiese dove vengono effettuati alcuni degli interventi più ardui. File di ammalati di colera giacciono tremanti contro un muro. In ogni braccio c'è un'endovena. I volontari cercano di far qualcosa per gli ammalati di colera e dissenteria che affluiscono senza fine in condizioni così disperate da non credersi. Trenta corpi sono messi in un angolo l'uno sopra l'altro nelle ultime 24 ore e si aspettano i volontari Zairesi e i militari Francesi per trasportarli in una fossa comune scavata dai bulldozers nella roccia dura vicino l'aeroporto.
Quasi ogni cristiano, prete o laico, in Goma ha dei rifugiati in casa, dice il Rev. Paluku Musavabo, presidente locale del Consiglio Cristiano dello Zaire. "Non abbiamo mai visto così tanto la morte. Solo morte, morte, morte. E' una catastrofe e noi non sappiamo neppure immaginare su quali risorse contare per lottare contro. E' tutto ben oltre le nostre capacità. Tutti i nostri pastori sono esausti, le chiese sono stipate, ogni famiglia qui ha dei rifugiati che vivono con loro. Non sappiamo come fare di più. Non riusciamo neppure a seppellire tutti i morti.
Alcuni dei 2 milioni di rifugiati R wandesi nello Zaire orientale stanno lentamente spostandosi nei campi fuori Goma organizzati dall' Alto Commissariato ONU, ma oltre un milione rimane ancora nella città o nell'immediata vicinanza. In circa 2.000 hanno iniziato un viaggio molto incerto per ritornare alle loro case piuttosto che affrontare la morte in Zaire.
50.000 persone moriranno ugualmente di colera a meno che cibo e acqua non arrivino al più presto. Già almeno 12.500 sono morti e i sanitari Zairesi dicono che la malattia è fuori di ogni possibilità di controllo. Un morto per colera ogni mille abitanti è normale da queste parti, due per mille significa già epidemia, 10 per mille vuol dire catastrofe, "ma qui - come dice un volontario stravolto ed esausto, - siamo già oltre il 30 per mille, tra i rifugiati".
La sicurezza inoltre è appesa ad un filo.
Migliaia di soldati dell' esercito dell'ultimo governo rwandese sono fuggiti con i rifugiati. Il posto di confine di Gisenyi-Goma è pieno di armi ammassate in alte pile. Granate, fucili automatici e perfino mortai con altro equipaggiamento militare sono stati sequestrati dai soldati dello Zaire che hanno messo i soldati fuggitivi in campi separati. Ma in questi campi si spara ogni notte e la tensione è altissima.
Nell'area di Goma ci sono almeno 100.000 bambini rimasti soli.
Lunedì' mattina, 25 luglio, le autorità dello Zaire si accordarono per permettere a quelli che desideravano tornare in Rwanda di partire. Il Fronte Patriottico Rwandese (RPF) assicurò loro la vita. I rifugiati, macilenti e impauriti dissero di voler tornare indietro. "E' meglio correre il rischio di essere uccisi che morire di fame qui. Se resto ancora un giorno, rischio di morire ugualmente: non mangio nulla da una settimana. Meglio esser uccisi in patria che morire di fame qui in Zaire. Ci hanno rubato tutto; il cibo che abbiamo portato, le scarpe, le coperte, i vestiti. Voglio correre il rischio con il RPF", dice un uomo ad una piccola folla che si raduna intorno a due visitatori. Altri dicono che le condizioni in Zaire non sono poi così disperate e che preferiscono rimanere: "Ma fondamentalmente siamo spinti a tornare indietro perché qui si muore di fame e quindi si cerca una via per sopravvivere".
E' l'alba. Il sole sta sorgendo sul bellissimo lago Kivu. Gruppi di gente cominciano a sollevarsi dal suolo dove hanno cercato un po' di riposo. Fa freddo. I fuochi sono ancora accesi con pezzi di legno ancora ardenti. C'è un sordo sussurrare ovunque nella città e quella massa umana è come un solo corpo scosso dalla disperazione, dalla paura, dalla malattia. La gente si alza in piedi per rispondere alle domande di ogni inizio di giornata: troverò da mangiare?, acqua da bere? ci muoveremo nei campi?, che cosa succederà oggi? Ma non tutti si rialzano. Si muore di più, di notte. E cresce la malattia e l'esaurimento delle energie. I sopravvissuti avvolgono in miseri panni i corpi dei loro congiunti, delle persone amate. Si chinano su di loro cercando di fare qualcosa che lenisca la febbre che li divora. Un sorso d'acqua di dubbia provenienza, appena per bagnare le labbra dei più deboli. E i volontari locali con i lavoratori dei gruppi assistenziali cominciano a muoversi per portare incoraggiamento e speranza là dove ce n'è veramente rimasto ben poco.

Joseph Ngala



Resistenza all'indifferenza sessuale

Vorrei intervenire in questo nostro incontro toccando un tema su cui sto riflettendo e lavorando per diversi motivi, ma la cui elaborazione è ancora molto acerba in me. Posso solo suggerire alcuni spunti con la speranza di non riuscire del tutto banale o irrimediabilmente ermetico. Non so neppure se questi miei accenni si possono collocare nell' ambito della testimonianza o dell'esperienza. Certo sono accenni di una resistenza che mi accompagna dai tempi assai lontani della comunità di Bicchio con Sirio, Rolando, Maria Grazia, Mirella. La chiamo "resistenza alla indifferenza sessuale".
Ho pensato a questo intervento prima di conoscere il tema e i contenuti della lettera di Giovanni Paolo II ai sacerdoti per il giovedì santo 1995. Non parlo quindi, prendendo a pretesto le parole e le argomentazioni del Papa. Non ho difficoltà a dire che da sempre basta una donna a rendermi 'debole'; perché mi ricorda la mia condizione di bisogno e la nostalgia della completezza. E da sempre ho temuto la debolezza.
Sono stato educato in seminario secondo quel prototipo della falsa forza maschile che nel vangelo è Pietro, il quale non può ammettere che Cristo soffrirà e morirà: "Questo non ti accadrà mai!". E come Pietro - anche senza aver sentito cantare il gallo - ho pianto amaramente.
In quegli anni, giovane uomo vestito a donna, la cui massima aspirazione potevano essere la giacca e i pantaloni del clergyman (da portarsi con il collare che segna il limite della distinzione sessuale dal collo in giù come la contemporanea moderna veste delle suore con la gonna sotto il ginocchio ne segna il limite dal sotto in su: quello che può comparire è quindi l'indistinto sessuale... ); in quegli anni sono stato educato all'umiltà, obbedienza, sincerità, sensibilità, fiducia, disponibilità al perdono, pazienza, virtù che il padre francescano Richard Rohr nei "Discorsi spirituali per la liberazione dell'uomo" , da cui attingo queste intuizioni, definisce "virtù da ditta", Virtù che i capi predicano per tenere insieme l'azienda e che sono assegnate nella famiglia alla donna il cui ruolo classico è quello di tenere tutti uniti e di far sì che vivano felici e contenti.
Tutto questo può ancora andar bene! Ma il percorso era solo agli inizi. Dopo un anno del mio primo lavoro con i trattori nelle campagne, la comunità mi regalò un cappello rosso fuoco a tesa larga che portai per tutta la stagione della trebbiatura. Quel cappello me lo ricordo ancora e, dopo tanti anni, segna un lungo cammino in contro tendenza segnato da una stagione intensa di lavori di manovalanza in ambienti rimasti fermi a prima della guerra, sia in campagna che in cantiere a spostare pesi immani con gli stessi attrezzi in uso al tempo delle piramidi. Facevo parte di quelle storie quotidiane che Beppe Pratesi prete operaio in quegli anni a Viareggio, che adesso vive e lavora nel Mugello con Lucia e 5 figli, racconta così: "Un sibilo di sirena e 130 uomini escono da un portone che dà su via Indipendenza. E' mezzogiorno. Uno dopo l'altro, con la borsa logora del pranzo, si incamminano verso la mensa. La gente delle case popolari è avvezza a questo corteo e non ci fa più caso. Solo i bambini si voltano curiosi e si domandano: chi sono questi uomini così sporchi?".
Uomini. Uomini.
Il linguaggio dei preti operai che descrivono la loro esperienza è tipicamente virile ed usa espressioni scopertamente falliche: "entrare in classe operaia", "essere dentro" e così via. E il contatto con una realtà già così esplicitamente segnata dalla virilità, non può non crescere tutta una dimensione sessuata connotata da una spiccata tensione maschile. Ho in mente in questo momento tanto Sirio, ma non solo lui. Dall'esperienza della vita operaia entrano in gioco altrettante contro virtù. Non solo umiltà, ma anche sana autocoscienza; non solo obbedienza, ma anche e soprattutto responsabilità personale. E' virtù la fiducia, ma va completata con l'autenticità e con la decisione. Il perdono è importante, ma lo è ancora di più l'amore duro che, alla maniera di Gesù, chiama le cose con il loro nome, perdona ed esige reale cambiamento.
Non ci si può allora meravigliare che la Chiesa non abbia mai accettato l'esperienza dei preti operai così identificata sessualmente da una ricca virilità. Tesa a rappresentare l'indifferenza sessuale (l'ideale di essere come tra fratello e sorella) quale elemento profetico della natura umana e leva di forza e di potere nella struttura ecclesiastica e non solo, la Chiesa si è scontrata con questa nostra scoperta differenza sessuale. Gli anni più recenti hanno portato dentro la mia vita, come in quella di altri preti operai, esperienze di lavoro diverse, maggiormente legate all'attività terziaria e all'intervento sociale. Anche la presa in carico di comunità parrocchiali e non, ha, di fatto, reso meno evidente lo scarto con l'atteggiamento della Chiesa. Ma lo ha forse reso più consapevole. Assunto non per reazione, o almeno non solo per reazione, ma attraverso tanti rivoli di azioni e relazioni creative.
L'incontro da uomini con donne alla ricerca di una liberazione, le esperienze di solidarietà internazionale e l'incontro multietnico anche all'uscio di casa, l'abitudine a guardare la realtà da un punto di vista diverso e cioè dal basso, hanno portato a collocare la differenza sessuale, come altre differenze, nel modello antropologico di un'unica natura umana esemplificata in una molteplicità di differenze.
E questo va al di là dei modelli contrastanti sia di un dualismo sessuale maschile e femminile che di un'identicità di individui astratti (appunto l'indifferenza sessuale): arriva a celebrare la diversità come qualcosa di assolutamente normale.
E questo la Chiesa è ancora molto lontana dal poterlo anche solo prendere in considerazione. Tutta la conclamata attenzione all'"uomo" e ai diritti dei più deboli colgono un valore primario che si scontra però con una cronica difficoltà a spostarsi da un sistema unico (l'uomo, appunto) o binario (maschi e femmine, normali e handicappati bianchi e neri ad esempio) ad un sistema multiplo che garantisca un legame nella differenza invece di garantire costantemente l'identità per mezzo della contrapposizione o dell'uniformità. Solo questo spostamento può portare ad un autentico rispetto per tutte le persone nelle loro innumerevoli ed infinitamente concrete combinazioni di costanti antropologiche. E la differenza stessa, anziché apparire come uno spiacevole ostacolo per la Chiesa può funzionare come una forza creativa che dà forma alla Chiesa stessa.
Le quattro religiose nordamericane assassinate in Salvador nel 1980 e i sei gesuiti assassinati dieci anni dopo nella loro abitazione presso l'università insieme alla loro collaboratrice domestica e alla figlia di lei danno, tutti, una testimonianza teologicamente identica, pur nella unicità delle loro persone e delle circostanze del loro martirio. Come afferma Elizabeth Johnson in un articolo su Concilium 1991, da cui traggo queste considerazioni, teologicamente identica è la capacità di donne e di uomini di essere conformi alla immagine di Cristo. E l'immagine di Cristo non consiste nella rassomiglianza sessuale con l'uomo Gesù, bensì nella coerenza con la forma narrativa della sua vita compassionevole e liberatrice nel mondo, per la potenza dello Spirito. La storia del vangelo di Gesù chiarisce molto bene che il cuore del problema non sta nel fatto che Gesù era maschio, ma in quello che tanti maschi non si sono comportati e non si comportano come Gesù. Gesù predicò ed agì da una posizione sociale di privilegio maschile; e in ciò c'è un monito preciso. Anche la croce è un robusto simbolo dell' autosvuotamento del potere egemone maschile in favore della nuova umanità del servizio compassionevole e dell'aiuto reciproco affinché tutti - questa volta sì senza differenze! -, tutti acquisiscano la possibilità e la capacità di agire.
La pesantezza di tanti anni di lavoro, le lotte, le speranze ed i sogni, la solitudine e l'angoscia dell'amore duro, l'abitudine alla responsabilità personale, l'incontro sempre più assunto con l'identità sessuale e l'autorevolezza di una vita, fa sì che si lascino alle spalle dogmi, princìpi e ideologie.
Il dono dell' età della saggezza è, per usare le parole di Paolo, il "servizio della riconciliazione"(2Cor.5). Il saggio non lotta più per un'alternativa "o - o". E' capace di vedere e di lasciare essere entrambi i lati di una questione. E di cantare, come dice ancora E. Johnson, con una poetessa americana "la differenza è un vincolo grezzo e potente... ".

Luigi

Cristiani e pagani

Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione,
piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani.

Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,
lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.
I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza.

Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione,
sazia il corpo e l'anima del suo pane,
muore in croce per cristiani e pagani
e a questi e a quelli perdona.

D. Bonhoeffer


Semi di resistenza

SCUOLA DELLA PACE
Cari amici, la nutrita partecipazione al primo anno della Scuola della Pace e l'interesse dei seminari che si sono svolti ci incoraggiano a proseguire in questo nostro progetto (sempre in collaborazione con le Edizioni Cultura della Pace e con la sponsorizzazione del Comune di Fiesole). Veniamo dunque a presentare il programma del secondo anno, che avrà come tema generale:
Violenza e pace nella storia dell'Occidente.
7-8 ottobre '95
Due figure di pace: - Erasmo da Rotterdam - Nevé Shalom (Franca Fabrìs, rappresentante italiana di Nevé Shalom).
25-26 novembre '95
Guerra e pace nel mondo classico (Adriana Cavarero, Univ. di Verona)
27-28 gennaio '96
Momenti e figure di storia femminile:
- l'esperienza femminile nella tradizione cristiana: tra potere e profezia (Adriana Valerio, Univ. di Napoli)
- l'esperienza femminile nella modernità: tra violenza e liberazione (Anna Rossi Doria, Univ. della Calabria).
24-25 febbraio '96 L'antisemitismo:
- di matrice cristiana: dal Nuovo testamento alla cacciata degli ebrei dalla Spagna (Piero Stefanì, teologo),
- di matrice laica: dall'Illuminismo alla Shoà (Stefano Levi della Torre, saggista)
23-24 marzo '96
- Dalle guerre di religione alla nascita della tolleranza e della libertà religiosa (Massimo Fìrpo, Univ. di Torino)
- Il passato vive nel presente: il dramma della ex Jugoslavia (Nicole Janigro, giornalista e saggista)
4-5 maggio '96
Politica e guerra nel pensiero moderno:
- '600 e '700 (da Hobbes a Kant) (Antonio Stragà, Univ. di Padova)
- tradizione marxista (da Marx a Gramsci) (Umberto Curi, Univ. di Padova).
L'iscrizione comporta l'impegno a seguire i sei seminari che compongono il ciclo annuale. Essa prevede il versamento di una quota di £. 30.000 ed è aperta fino al 10 settembre.
Armido Rizzi Centro Sant' Apollinare 50014 Fiesole (FI) tel/fax 055/599707

Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone: "IN GUERRA SENZ'ARMI. STORIE DI DONNE 1943-1945", ed. Laterza 1955
In una discussione tenutasi a Torino il 7 marzo u.s., Bianca Guidetti Serra e Gian Enrico Rusconi hanno interrogato le autrici su alcuni punti nodali del loro lavoro. La prima ha chiesto, tra l'altro, se quella delle donne intervistate era guerra, e se si possa dire: non ho sparato, ma sono un partigiano. Il secondo ha osservato che oggi si sta spostando l'attenzione dalla resistenza armata a quella civile, passiva, "simbolica", la quale scivola, a suo dire, nell'attendismo e nell' opportunismo.
Bravo e Bruzzone, nota Enrico Peyretti su Il Foglio n.219, hanno dato risposte decise e chiare a queste osservazioni. Anna Bravo ha ricordato la ristretta definizione di partigiano, di carattere armista o milìtarìsta, data dall'apposita commissione istituita per legge nel dopoguerra, presso il Ministero della Difesa. Su quella base, si stabiliva una gerarchia tra partigiano (partecipante a tre azioni armate), patriota, benemerito. Gerarchia da rompere sia perché i resistenti non armati sono stati determinanti per la Resistenza, sia per la ricostruzione dell'immagine nazionale diversa da quella del cittadino armato.
La tematica nonvìolenta, la proposta di Gandhi di resistere a Hitler senza violenza, ha detto Anna Maria Bruzzone, era allora sconosciuta, ma noi abbiamo dato lo stesso valore a chi sparava e a chi ha nascosto in casa gli ebrei. Nel 'maternage' c'era anche una netta protesta: possiamo fare qualcosa, finalmente disobbediamo!
Occorre ridefinire la guerra. Questo è il tema - dice ancora Peyretti - su cui tante volte lavoriamo: la difesa non è solo guerra, né la guerra è la miglior difesa. Il concetto di giusta difesa è più ampio e articolato. Limitarlo alle armi significa difendere meno ciò che merita difesa. Sia nella storia che nella strategia non si può ulteriormente ignorare ciò.




Vangelo di Luca 8,43ss.

Resisti, donna, al pianto;
incrina e soffoca la tua voce.

Asciuga le lacrime amare del cancro
che spinge flussi di sangue e di vita
dal tuo corpo malato.

Afferra il lembo del mantello di un uomo
cercato da tutti perché guarisca la velenosa radice
che fa di una malattia, la spietata condanna a morire.

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