LOTTA COME AMORE: LcA dicembre 1990

Come una mano alzata

Intendiamo - in questo ultimo numero del 1990 - proporre una nostra riflessione a voce alta senza nessuna pretesa che questa nostra piccola "voce" significhi qualcosa, ma per tutto un problema sociale assai delicato che riguarda ogni comunicazione ed informazione. Ogni tanto ci chiediamo se vale proprio la pena scrivere, stampare e spedire questo nostro giornalino. A volte questo succede quando qualcuno ci fa notare che proprio siamo 'di fuori', strani e incomprensibili. Non è che ce la prendiamo per questo: il fatto è - semmai - che non siamo molto distanti dal crederlo anche noi! Per cui è facile andare in crisi e sentirci inadeguati. Se poi ci vien fatto di constatare che "Lotta come Amore" ha un costo economico che non è indifferente, allora l'imbarazzo cresce: ma che cosa stiamo facendo?
Potete immaginare il panico che ci ha preso quando abbiamo sentito rimbalzare la notizia che i costi di spedizione per tutta la stampa periodica subiranno un aumento del 400 per cento dal gennaio 1991. Insomma, oramai i costi di spedizione superano abbondantemente quelli della stampa. E' strano che queste considerazioni trovino noi artigiani così impreparati. Dovremmo essere abituati da tempo a considerare normale che il costo di un prodotto sia inferiore al costo della sua commercializzazione. Ma sapete come vanno le cose: anche noi - di fronte agli aumenti - reagiamo con sofferenza! Specie quando si è abituati da anni ad avere quasi gratis i servizi.
Continuiamo però a scrivere, stampare e spedire le oltre duemila copie di "Lotta come Amore" anche e soprattutto perché i lettori continuano ad inviarci, nei modi più diversi, contributi che ci sostengono in modo decisivo in questa nostra fatica. Stiamo inoltre cercando di limitare i costi con simpatici e giovanissimi interventi nella parte informatica della composizione oltre a poter contare sul piccolo gruppo di fedeli collaboratori nella fase della spedizione. Sappiamo che tutte queste nostre parole in fondo non sono che un unico messaggio: una lettera dove ripetiamo di esserci, di non essere stanchi di essere sorpresi dalla realtà della vita quotidiana, di essere aperti alla speranza dei poveri perché la terra fiorisca umanità.
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Non rinunciamo comunque ad unire la nostra modestissima voce a quella di tutti i piccoli periodici che sostengono sottili reti di comunicazione perché sia fatta una distinzione - anche a livello di tariffa postale - per quei bollettini che non contengono pubblicità e/o non sono elementi di commercializzazione.

Sappiamo che in questo campo c'è tantissima confusione ed un diffuso approfitto per cui non ci illudiamo che sia semplice arrivare a delle norme capaci di salvaguardare le iniziative non lucrative. E sappiamo anche di dover scontare - in questo come in tanti altri settori - una ricerca di facilitazioni ed esenzioni. Ricerca spesso supportata da una generica affermazione di buone intenzioni senza saper collegare l'azione ad un progetto di comunicazione a livello di base aperto alle affermazioni di diritto. Ricerca spesso falsata soprattutto nell'area cattolica da una sorta di predestinazione sempre e comunque al privilegio.
Speriamo che le crescenti difficoltà cui stanno sempre più andando incontro le piccole pubblicazioni risvegli consapevolezza, promuova alleanze e comuni progettualità. Cercheremo umilmente di fare la nostra parte.
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Poiché siamo in argomento, dobbiamo dire anche che quando ci sentiamo rivolgere domande sui lettori di "Lotta come Amore" non è che sappiamo dare risposte molto chiare. L'indirizzario si perde lungo questi ultimi trent'anni e traversa così tante vicende e storie ed incontri per cui noi generalmente rispondiamo in maniera generica che il giornale è inviato agli amici. E tali consideriamo i nostri lettori, anche quelli che con un sorriso ci spediscono immediatamente nel cestino della carta da buttare. Non ce la sentiamo - forse proprio per questo - di fare verifiche, di chiedere conferme, ma continuiamo nella nostra presupponenza a non interessarci a chi e come va in mano questa nostra piccola cosa, questo seme fragilissimo destinato ad avere una ragione sia quando secca sul granito che quando affonda in una terra recettiva. E' una ragione forse tutta raccolta nella sua dichiarata inutilità. Come una mano alzata per un timido saluto.
Dobbiamo dire però che tra le lettere che riceviamo siamo stati colpiti da due recenti comunicazioni. Tutte e due "disdicono l'abbonamento". A questi lettori che nelle poche righe inviate lasciano trasparire lo spessore di quella umanità nascosta, invisibile, anonima che si allontana dalle luci del porto verso acque non segnate, a questi amici di cui non ricordiamo il volto vorremmo esprimere tutta la nostra affettuosa vicinanza.

"Avendo avuto lo sfratto, dovrò entro gennaio '91 lasciare l'appartamento e quindi cambiare l'indirizzo e forse la città. Soluzione che ancora non conosco.
Inoltre, per sopravvenute difficoltà economiche e di salute, desidero rinunciare ad ogni abbonamento e nel caso specifico a "Lotta come Amore".
Appena possibile provvederò a comunicare eventuali decisioni di nuovi abbonamenti."
"La prego sospendere l'invio di 'Lotta come Amore' per il motivo della mia raggiunta anzianità .
Ringraziandola di tutto cuore e nel ricordo presso il buon Dio, cordialmente porgo auguri d'ogni bene e religiosi saluti" .



La Redazione

La posta di fratel Arturo

Riceviamo e pubblichiamo questa lettera di Arturo comunicata dal bollettino di Rete Radie' Resch.

"Buon Natale".
Oggi la TV annunzia l'aumento del 30% della benzina. I poveri della mia comunità possono rimanere tranquilli: nessuno è proprietario di un motore a benzina o diesel. Eppure i colpiti dal provvedimento che si scandisce nel tempo a un ritmo regolare, implacabile, sono loro. Domani il biglietto degli autobus aumenta il 40%, tutti i prodotti del supermercato - i necessari e i superflui - aumentano il 50%; quelli che posseggono macchine di lusso, o per motivi di lavoro, non tremano all'annunzio televisivo: paradossalmente i danneggiati dell'aumento della benzina sono quelli che non posseggono macchine. La notizia che ha occupato la mia mente nel giorno in cui avevo deciso di scrivervi gli auguri di Natale, non è la nota giusta su cui intonare l'annuncio della festa. Non saprei dirvi se ha disturbato la mia preghiera mattutina, oppure devo considerarla come il suo contributo normale. I salmi piangono anche - l'acqua mi arriva alla gola - affondo in un mare di fango. La sollecitudine dei poveri è un disturbo per la preghiera, o non è piuttosto quel motivo che accompagna un'immagine che ci ha liberato dalla superficialità? Vi confesso che ho pensato con tristezza non solo al consumismo che ormai ha travolto il senso religioso del Natale; ma persino ai presepi, da quelli entrati nella storia dell'arte, a quelli più umili delle nostre case.
Per Francesco, l'inventore del presepe, la sceneggiatura dell'ingresso nella storia del Dio amoroso e solidale, è un momento contemplativo in cui coglie la totalità della storia umana avvolta dalla tenerezza del Padre che non può rinunziare all'opera delle sue mani. La storia che concesse pochi decenni a Francesco d'Assisi, prese il senso della riconciliazione e della pace. Credo che i presepi domestici conservino ancora il ricordo del momento contemplativo di Francesco; ma penso che per i più sia un gioco molto vicino all'aereomodellismo o a quei giochi per me enigmatici, che fissano per ore ragazzi davanti ad un computer. Non voglio scoraggiare le famiglie che hanno preparato uno spazio per il presepio; ma questo senso ludico e secondario della religione che si scopre non solo nell'iniziativa del presepio, ci costringe a meditare sui metodi della formazione alla fede. Dobbiamo assumere la responsabilità di essere nati nel centro di elaborazione e di diffusione del cristianesimo che ha promesso di condurre l'umanità verso la libertà e la verità, e non è certamente un impegno leggero. Il Natale 1990 e' particolarmente importante, perché è stato deciso di dare il via in quel giorno alla "nuova evangelizzazione dell'America Latina". Nuova vuol dire che non deve ricalcare il passato e deve emergere dalla critica di ciò che nel passato è stato negativo. La cristianità europea ha portato all'America la luce del vangelo, la rivelazione del Dio padre di Gesù, e in Gesù padre di tutti gli uomini. Ma questa rivelazione non ha rallegrato nessuno, perché, dietro l'avanguardia dei messaggeri del vangelo di pace, stavano uomini avidi di terra e delle ricchezze della terra. La storia della colonizzazione dell' America Latina non è chiusa; si è fatta solo più astuta e crudele per gli strumenti delle varie tecniche. Chi vive in mezzo a questo popolo sente nella sua carne l'ironia del saluto biblico che è stato divulgato dalla tradizione francescana: "che il Signore faccia brillare su te il suo volto". Altro che brillare: "fuori dalle vostre terre, perché io bianco devo tagliare gli alberi, scavare l'uranio. E se non ve ne andate vi snidiamo di lì con le armi". Credete amici italiani che questo che vi sto dicendo non è retorica, è storia contemporanea.
Portare il vangelo all'America Latina vuol dire tutta la verità su Cristo e dire che lui non può volere il genocidio degli indios. Non possiamo nel 1992 assistere all'azione di una chiesa che catechizza, che costruisce templi, che convoca il culto e chiude gli occhi su quella vergogna dalla quale non ci potremo mai lavare che si chiama schiavitù. Sono scomparsi dalla scena i teologi che, per liberare i cristiani dal complesso di colpa dichiaravano che i neri non avevano anima, non avendo ancora raggiunto lo stadio umano. Per annunziare il Dio di Gesù non possiamo attendere la liberazione politica ed economica del continente, ma la solidarietà è il solo metodo per mostrare il Volto paterno di Dio. E la solidarietà ha come punto di partenza il rifiuto energico di spiegazioni superficiali e beffarde che cercano di giustificare il ritardo del continente e la sua condizione di miseria. Gesù non ha risolto i problemi che pesavano sulle spalle del suo popolo; ma si è fatto fratello, uno del popolo, compagno e partecipe della vita degli oppressi per illuminare la sofferenza di speranza. Dividere i compiti; "io mi occupo di dare la dottrina, altri si occuperanno di risolvere i problemi economici e politici, nasconde una posizione antievangelica".Non esiste un Dio lontano. Noi crediamo del Dio di Gesù, il Dio solidale, il Dio della pace. I poveri dell'America Latina sanno il vangelo; non hanno bisogno di catechizzazione, hanno bisogno di dimenticare un incubo che ogni tanto si rinnova nella loro storia: cancellare il volto duro arcigno prepotente di un padre bianco, perché mostri radioso, senza ombre, il volto dolcissimo del Padre, il Padre che si rivela nell'esperienza felice di Gesù. Se abbiamo questa coscienza ecclesiale e solidale, il bambino Gesù non è un giocattolo, sua è l'immagine del Signore della storia che solleva gli umili e abbatte i superbi.
E se riusciamo a comprenderlo, vivremo un Natale felice.
Saluti a tutti gli amici,

Arturo

Oasi di pace

Questo articolo prosegue il racconto che nel numero precedente era rimasto senza firma per un refuso tipografico. Ma sono certo che i lettori avranno riconosciuto in "Chiedete pace per Gerusalemme" la mano e soprattutto il cuore di Beppe. Credo che sia tutto allo scoperto - come sempre del resto in lui - il significato del viaggio compiuto quest'estate in Palestina: un lungo respiro a pieni polmoni che gli ha riossigenato il sorriso, la battuta e, perché no?, anche l'inguaribile ostinazione di essere se stesso. (Red.)
Sono salito una mattina, molto presto, sulla piccola collina che si alza dolcemente vicino alla bella abbazia trappista di Latroun, sulla strada che da Tel-Aviv conduce a Gerusalemme. Un amico mi ha dato un passaggio in auto fino al monastero alle prime luci dell' alba: piano piano, nella frescura del primo mattino, mi sono incamminato tenendo gli occhi fissi alle bianche case di Neve' Shalom - Wahat as-Salam (l'Oasi di pace) circondate di pini, cipressi e campi di olivi. Andando in Terra Santa mi ero proposto di fare una visita alla piccola comunità che da parecchi anni porta avanti tenacemente, il sogno di una pace possibile fra ebrei israeliani, palestinesi, musulmani e cristiani.

Mi sono messo in cammino su questo pezzo di terra sconosciuto ma al tempo stesso familiare: il luogo rassomigliava molto alla campagna in cui sono nato e cresciuto. C'era un silenzio bellissimo, abitato dal volo e dal canto di tanti uccelli. Ho fatto un largo giro intorno all' abbazia; sono salito sulla prima collinetta per dare un' occhiata al panorama. Da lì, ho visto uno dei monumenti più osceni alla guerra e alle vittorie militari: sopra una specie di obelisco, gli israeliani hanno voluto mettere in bella mostra una grossa autoblindo, armata di cannone. Praticamente, in prospettiva, questo "albero della morte" si trova di fronte alla bella facciata dell'abbazia di Latroun.
In mezzo a questi campi di olivi e di vigne, di grano e di frutteti, fu combattuta una delle prime durissime battaglie fra arabi e israeliani nel '48. Ho cercato di dimenticare, passo dopo passo, questa visione davvero assurda e mi sono lasciato andare a "pensieri di pace" . Volevo allargare il cuore alla visione dolce e buona del profeta Isaia che la comunità di Neve' Shalom ha voluto tentare di incarnare nella realtà di un piccolo popolo di famiglie "diverse" che cercano di vivere la vita nella dimensione della pace.
Quando sono arrivato in cima alla collina, le stradine del piccolo paese erano ancora deserte. Solo qualche operaio si stava mettendo proprio allora all'opera.
Un sorriso, un saluto con la mano, poi mi sono seduto in uno spazio verde, con l'erba rasata di fresco, sotto un pino bellissimo. Ho guardato con pace profonda tutta la pianura sottostante, verde di alberi e di coltivazioni. Il primo "shalom" (pace) l'ho ricevuto da un cane molto affettuoso che mi è venuto a salutare, scodinzolando come tutti i cani "buoni e pacifici" .
Sono stato in pace su questa "collina della pace" ed ho pensato con grande tenerezza a questa gente che ha tentato di dare corpo ad un sogno di convivenza e di fraternità in mezzo ad una situazione davvero difficile e poco aperta alla speranza. E' bello davvero attraversare il deserto e trovarvi un'oasi di pace e di riposo. Un piccolo spazio disponibile all'accoglienza, al dialogo, alla comprensione.
Quando il sole era già un po' più avanti nell'arco del cielo azzurro, senza ombra di nuvole, mi sono incamminato per le piccole stradine del villaggio.
Ho cercato di farmi capire, nonostante la non conoscenza della "lingua". Sono stato anche molto fortunato, perché ho potuto fermarmi nella piccola casetta dove ha la sua residenza il padre domenicano Bruno Hussar che è stato uno dei fondatori di Neve' Shalom. E' stato bellissimo poter parlare con lui, con semplicità, fiducia, realismo. Ma anche con molta speranza. Questo incontro inaspettato, mi ha riempito di forza interiore, mi ha fatto capire ancora una volta che i sogni si possono realizzare se ad essi si crede intensamente e profondamente; se si ha il coraggio di giocarvi con passione la propria vita. L'impossibile può divenire realtà.
Nella pienezza del sole, sono ridisceso piano piano verso l'abbazia di Latroun, biancheggiante fra gli olivi. Prima, però, mi sono fermato dentro la bianca "dumia"; una specie di iglù di cemento bianco, con molti oblò che lasciano filtrare con dolcezza la luce. E' uno" spazio sacro" dedicato al silenzio della preghiera, dell'adorazione, dell'ascolto di Dio. Nella diversità delle fedi, delle culture, delle storie, il "silenzio" vissuto insieme da gente che cerca una vita di pace, può essere un modo per pregare l'Unico Dio ed accoglierne il pressante appello alla riconciliazione, al cambiamento radicale, per una condizione umana abitata dall'amore e dalla giustizia.
Nel Villaggio di Neve' Shalom - Wahat as-Salam c'e' da molti anni una attiva scuola per la pace, attraverso la quale molti ragazzi e ragazze israeliani (ebrei e palestinesi) si incontrano, cercano di conoscersi e di capirsi. Da quando si è messa in moto l'Intifada, molti problemi si sono aggiunti sul piano della convivenza e dell' intesa. Nel bollettino che uno dei dirigenti del villaggio mi ha gentilmente donato ("lettere dalla collina", due numeri all'anno) ci sono molte interviste che affrontano questo complesso problema.
Mi è sembrato cosa buona proporre una di queste alla nostra comune attenzione.

don Beppe

Intervista a Rayek, segretario della Scuola per la

D. - Tu, arabo palestinese, membro del nostro villaggio, come vedi N.Sh - W.S. di fronte al conflitto attuale?
R. - Per me l'Intifada è la lotta di un popolo per l'uguaglianza, la libertà e la realizzazione dei suoi diritti. Di fronte a questa situazione N.Sh.-W.S. pone una domanda e propone un cammino: come trovare una soluzione che crei migliori relazioni tra i due popoli che vivono su questa terra?
Noi siamo persuasi di non avere altra scelta che quella della coesistenza. Il nostro modo di vivere dimostra la verità della nostra opzione. Il conflitto tra palestinesi ed ebrei è speciale, non è soltanto territoriale o geografico, ma assai più centrato sulla qualità dei rapporti tra questi due popoli. Dobbiamo lavorare per rafforzare i vincoli di vicinanza, la comprensione. Non cesseremo il nostro lavoro finché non esisterà tra di noi una vera pace.
Se consideriamo il problema di Gerusalemme, vediamo che né gli ebrei né gli arabi cederanno mai i loro diritti su questa città. La soluzione non potrà venire se non si stabilisce tra di noi più comprensione, più razionalità.
A N.Sh.- W.S. noi "impariamo" gli uni dagli altri e vogliamo costruire un cammino di fiducia. Non vogliamo più combatterci, distruggerci: vogliamo tutti la pace. E la pace - penso anche per gli ebrei - è arrivare a una vita calma, a camminare verso un futuro sicuro. Non essere più spaventati di poter morire, di vedere i nostri figli partire per la guerra...
Si giungerà alla fiducia conoscendoci gli uni gli altri nelle nostre culture. Molti fraintendimenti derivano dalla mancanza di comprensione delle culture. Su questo punto N.Sh.- W.S. è un esempio buono e realista.
Quelli che vengono a vivere a N.Sh.- W.S. non vi sono accettati a motivo delle loro opinioni politiche: ciascuno è libero qui di pensare quello che vuole. Noi vogliamo accogliere delle persone che accettino di vivere rispettandosi mutualmente. Il conflitto attuale è il risultato di una lotta che dura ormai da molti anni. E' lo stadio ultimo. Tuttavia non appare ancora nessun segno che gli uni o gli altri si fermeranno...
Qui noi fabbrichiamo insieme un treno speciale: dimostriamo che e' possibile vivere insieme.

D. - Tu sei contento di vivere qui?
R. - Sono persuaso che questo è il mio posto. Non c'e' nessuna contraddizione tra la mia vita e N.Sh.- W.S. e i miei pensieri personali.
E' difficile accogliere l'altro con i suoi punti di vista e le sue idee diverse. Ma se questa è la condizione per arrivare alla pace, sono disposto a pagare questo prezzo. Forse gli arabi si aspettano che gli ebrei non siano più sionisti e vivano accanto a loro con la loro sola identità religiosa; e gli ebrei che gli arabi lascino l'O.L.P. e abbandonino la loro volontà di indipendenza: ma questo è impossibile. L'amore degli ebrei per Israele non è minore dell' amore degli arabi per la loro terra.
Ognuna delle parti ha voluto distruggere, annullare l'altra, non soltanto fisicamente, ma anche sul piano dell'identità profonda: "Voi non siete un popolo. Non avete dei diritti". Tutta questa lotta può durare ancora a lungo: vorrei abbreviare il cammino che ci condurrà ad una soluzione. Vorrei un'esistenza non soltanto fisica, ma anche "spirituale" .
In fin dei conti non siamo più nel 1948, ma oggi, nelle condizioni di oggi. Bisogna tenere conto di queste condizioni attuali. Dobbiamo prendere un'altra strada, anche se fosse accompagnata da amarezza e sofferenza: dobbiamo accogliere l'altro come lui è, accettare le nostre differenze

Alle sorelle di Assisi e di Roma

Carissime,
abbiamo ricevuto con gioia il vostro libro. Stiamo giusto mettendo insieme questo giornalino e quindi non c'è il tempo materiale per poterlo leggere, ma lo faremo con affettuosa attenzione. Nel frattempo vogliamo farvi giungere i nostri ringraziamenti perché la vostra storia, scritta attraverso le lettere di Linda a Lelio Basso, non ci è estranea. Per tanti motivi sentiamo che leggendo le pagine di questo vostro libro sarà un poco come scorrere un testo che anche noi abbiamo vissuto, almeno in parte, sia pure attraverso percorsi così diversi. In fondo stiamo camminando lungo quella strada che appare tale solo dopo ogni passo e che ripete ostinatamente la stessa domanda: chi sei? Finché ciascuno arrivi alla compiuta pienezza della propria identità rispondendo: sono un uomo, sono una donna.
Certo non abbiamo ballato con voi il minuetto (Boccherini, lucchese, è stato un grande maestro di questo ballo dai passi strettamente concertati) ed anche se la conoscenza con voi risale ai primi tempi del vostro arrivo in Italia, abbiamo vissuto ritmi diversi e abbiamo anche reciprocamente sofferto la dura sincerità dell'amicizia.
Credo che abbiamo sperimentato sia pure in forme e modi diversi come sia aspro e indecifra-bile il deserto che dalla servitù ordinata della regola porta verso terre nuove di libertà. Specie quando nel deserto si aprono strade e destini diversi e lacerante appare il dramma di dover dividere l'indivisibile libertà.
Solo quando la terra nuova comincia a comporsi in noi, avvertiamo quanto ciechi eravamo e come la libertà di qualcuno non possa mai separarsi dalla libertà di tutti.
Ci siamo però anche incontrati con grandissima gioia e serenità. Sempre e nonostante tutto. Voi non siete per noi un gruppo anonimo di donne perché ognuna di voi ha per noi il proprio nome e volto e storia. Ed anche tutte insieme: ci siete sorelle.
Vi ringraziamo per il dono di esserci e di accoglierci ancora nella vostra amicizia, noi ecclesiastici sotto la pelle, maschi dall'inconsapevole arroganza e dalla altrettanto sgomentante fragilità...
Vi ringraziamo per il dono della vostra storia, parabola - questa sì senza nome - dell'esodo di sempre.
Vi abbracciamo con tantissimo amore.

" Queste cronache sono una scia perché la nostra esperienza finirà con noi, come tu sai e contesti.
Dopo, la superficie del mare tornerà indifferente al passaggio.
È stato un piccolo agitarsi delle acque, ma una rotta tenace in armonia col grande sommovimento dell'universo"
LINDA BIMBI, "LETTERE A UN AMICO" Ed. Marietti

Gli scritti di Sirio

Abbiamo riproposto l'articolo di Sirio "Vi raccomando la pazzia" apparso su questo giornalino nel giugno del 1980, perché è uno di quelli in cui ci sembra apparire con più chiarezza come e perché tutta la sua vita fosse vissuta come un segno chiaramente offerto ai diversi incroci della storia sua e di coloro con i quali si è incontrato o scontrato, mai comunque su un terreno di opaca neutralità. Avevamo già riletto questo articolo l'anno scorso in occasione del secondo anniversario della sua morte almeno per quello che lui dice del suo scrivere e quindi già da tempo ci eravamo posti il problema di come fare perché i suoi scritti che mai, anche nei rapporti più stretti, sono stati prodotti in chiave esclusivamente intimistica e "privata", potessero essere resi pubblici.
Le sue cose sono rimaste com'erano e la sua camera, come sempre, la stanza della casa dove abbiamo il telefono e un caminetto.
Dovevamo però arrivare ad affrontare questo problema e abbiamo valutato positivamente l'offerta dell'Istituto Storico della Resistenza e Storia Contemporanea in Provincia di Lucca riguardo alla costituzione di un fondo contenente gli scritti di Sirio in modo che possano essere non solo conservati, ma conosciuti e consultati.

Stiamo procedendo lentamente all'esame del materiale e alla sua catalogazione con il consiglio di amici che hanno esperienza. Questo lavoro, come spiegherò tra poco, ha i tempi della vita e non della ricerca di studio.
Dalla cortese attenzione e dal consiglio della direzione dell'Istituto abbiamo raccolto l'idea di realizzare, accanto al fondo, una piccola Fondazione in modo da incentivare - anche attraverso pubbliche iniziative - la ricerca storica e non solo storica intorno a Sirio, le tematiche che gli sono proprie, il suo tempo, le esperienze di vita che lui ha attraversato.

Invitiamo coloro che conservano scritti di Sirio, foto, registrazioni o memoria viva di fatti e parole, a segnalarcelo.
Non inviate niente per ora.
Solo la segnalazione e l'eventuale disponibilità a darne anche solo un cenno o una copia.
- Istituto Storico della Resistenza in Provincia di Lucca,
Piazza Napoleone 55100 LUCCA
- Chiesetta del Porto, Lungo Canale Est, 37 - 55049 VIAREGGIO

Vorrei proseguire ora in una chiave più personale in modo da cercare di comunicare come stiamo vivendo questo ritornare in un contatto più immediato con Sirio attraverso le sue pagine. Vuol dire riprendere in mano cose, fogli, appunti che suscitano ondate di ricordi a volte discreti e sereni, a volte dirompenti fino a dover smettere ogni cosa. Mi rendo conto in modo concreto che quest'opera non è né facile né immediata. Avverto la consapevolezza di una cosa che è doveroso fare, ma ho bisogno letteralmente di costringermi al lavoro di ricerca e di catalogazione degli scritti di Sirio, anche se questa costrizione non è mai violenta (e come potrebbe essere altrimenti?). Sirio è sempre molto vivo per me e sento piuttosto il bisogno di discutere ancora con lui, di confrontarmi con lui nelle realtà attuali che sto vivendo. E a volte mi capita di sorprendermi in quella dialettica aspra che non gli risparmiavo neppure prima quando passavamo assai tempo a cozzare insieme le nostre teste, ognuno riservatissimo nei confronti dell' altro, duri come agli uomini hanno insegnato ad essere. Non mi manca Sirio perché me lo porto dentro e sento che ancora mi sfida e sento che ancora non ho perso il piacere di stare al gioco.
Con Maria Grazia ho cominciato a rileggere i suoi scritti iniziando da quelli pubblicati su "Lotta come Amore". Abbiamo capito di dover fare questo ora o mai più' come ora, consegnando un poco per volta le sue pagine ali 'Istituto Storico passandole dalle mani, dal cuore e dall'amore di una vita.
Con lei, Elena, Beppe, Dalmazio, con altri amici stiamo cercando di ripercorrere temi, tracce con la sensazione di cominciare ad emergere dalle nebbie e fissare i contorni di un rapporto che ci ha investito così profondamente. Le strade possono essere e sono realmente diverse, percorse da differenti sensibilità, ma ciò che importa è addentrarsi senza timore con la sola ricchezza delle domande che ciascuno di noi vorrebbe rivolgere a questo nostro comune amico.
Io credo che il lavoro che abbiamo avviato - sia pure con tempi non segnati da alcun calendario - darà modo a coloro che hanno conosciuto Sirio e con lui hanno vissuto un rapporto sempre unico e irrepetibile di potersi di nuovo/incontrare in un cammino pubblico con un uomo che pubblico, cioè di tutti, si è sempre sentito.

Luigi

Vi raccomando la pazzia

Cari amici, parlare o scrivere può essere anche un mestiere, come il conferenziere di professione o come quel nostro (grande) scrittore vivente che ogni giorno né una di più né una di meno, scrive puntualmente cinquecento parole.
Può essere anche una pericolosa e disonesta alienazione: mettere in parole la propria incapacità di azione, tradurre in fiato di voce o con una biro (meglio ancora, modernamente, con una Olivetti) la propria pigrizia, se non la propria vigliaccheria nei confronti di iniziative di azioni, di lotte concrete, pagate a suon di rischio, magari di galera o peggio ancora. E può essere ancora, il parlare e lo scrivere, tentativo di sopraffazione, ricerca di dominio, con poca spesa e forse anche guadagnandoci su qualcosa, oltre alla gloria, anche di quattrini.
Ma speriamo che possa anche significare questo benedetto vizio di parlare in pubblico e di scrivere, come un lasciar parlare il cuore, l'aprirsi dell' anima perché dalla sua pienezza trabocchi l'urgenza di un dilatarsi creando spazi più vasti dove il respirare di se stessi e di altri, sia più facile e più vitale.
E' da un pezzo che mi sto ponendo questo problema: se possa sentirmi giustificato ancora (e gli anni sono tanti e le gioie e le amarezze, gli entusiasmi e le stanchezze) a parlare e a scrivere. Perché sto continuando a parlare in pubblico. E sto insistendo, quando me ne capita l'occasione, nello scrivere.
Ogni volta che mi invitano a parlare, non so dire mai di no. A volte mi sembrerebbe doveroso rifiutare e per mille motivi, fra i quali, l'impreparazione, l'impossibilita' di mantenere un livello di informazione, se non altro quella spicciola, quotidiana, la difficoltà di uno svolgimento logico, ordinato, insomma, la mancanza assoluta del "mestiere". Non so mai se dopo aver parlato, ho comunicato idee, convincimenti, risoluzioni, qualcosa che arricchisca, accenda, provochi. Forse lascio soltanto delle impressioni, come quella di uno che crede in quello che dice, ne prova tutta la passione, e più ancora offre la testimonianza che quello che riesce a dire non sono soltanto parole, ma prezzo di carne e sangue, compromissione totale, un mettere di contro e un giocare ogni cosa, senza riguardi e sottintesi, fino al tutto donato. E rimango sempre con l'angoscia di essere e di avere così poco, che mi viene, ogni volta, davanti alla gente, lì seduta, che mi ascolta, una bruciante vergogna come di mani vuote davanti a chi chiede qualcosa, come una sorgente d'acqua disseccata o con appena un niente di filo d'acqua ed ecco, lì, chi è riarso di sete.
E mi metto a parlare come un bambino smarrito e mi viene da chiedere semplicemente perdono per osare di mettermi davanti a della gente, a parlare, come se avessi qualcosa da dire realmente, come se rappresentassi e significassi qualcosa. Mi assale uno stranissimo pudore, quell'immenso rispetto per la gente da accendermi nell'anima un incredibile desiderio come di abbracciare tutti, di voler loro un bene senza fine e allora mi metto a parlare lasciando parlare l'Amore intensissimo, la Verità che mi si agita dentro, la Speranza viva e tenace che intravedo e che mi consuma di passione.
Se poi parlo di Dio (e quando non parlo di Dio? E come potrei non parlarne?) allora - certo non posso proprio dire, disgraziatamente, che è Lui che parla con le mie parole - allora il perdermi è dolcissima passione di agonia adorabile perché avverto con estrema chiarezza che le parole sono niente o non sono che ripetere con monotonia di canto dolcissimo, Santo, Santo, Santo Dio dell'universo.
Le parole non possono essere più di un fiore nel prato, di stelle nel firmamento, o gocce di sangue versato nella gloria, o agonia di ansia contemplativa adorante.
Eppure ogni volta è l'angoscia di parlare in pubblico, un rischio misterioso per incertezza di me e coscienza d'indegnità, di cui sento il terrore e poi per quel pudore davanti alla Verità, perché la parola pone scopertamente e immediatamente davanti alla Verità senza veli e nascondimenti. Può vincere questo senso di pudore l'Amore alla Verità, perché l'Amore giustifica l'amplesso. Ma quest'Amore è connaturato soltanto con Dio e in Lui soltanto è la Parola. Amore e Parola sono Dio. E Parola pronunciata sulla terra è unicamente Gesù Cristo, la Parola di Dio che si è fatta carne e è parlata fra gli uomini.
Ogni altra parola o è segno, almeno ombra di quella Parola, eco fedele, anche se appena sussurrata o in qualche modo sinonimo, modulata su quella vibrazione oppure è menzogna, inganno, assurdità, fiato di voce. "Io vi dico che nell' ultimo giorno vi sarà chiesto conto anche di una sola parola detta inutilmente".
E questo giudizio mi pesa sull'anima un po' sempre ma specialmente quando devo parlare in pubblico perché ogni volta sento con impressionante chiarezza che quelle parole sono giudicate, una per una, dalla Parola. E' unicamente da quella Parola che le parole acquistano senso e hanno significato. A quella Parola devono ritornare con fedeltà, come l'interpretazione alla Verità, l'acqua che scorre alla sorgente, il compiersi al suo principio.
Perché diversamente è lo smarrirsi, il disorientamento, l'illusione, la menzogna. E sono menzogna non soltanto la falsità, la doppiezza, ma specialmente quando le parole sono a se stanti nei confronti della Parola e di chi la Parola è' segno e dono. Perché il pronunciamento della Parola è soltanto di Dio, le parole o ne sono un eco fedele anche se con risonanze immense, misteriose o balbettamenti penosi e linguaggi di una Babele caotica, impazzita.
Di questo mistero ne discorreva già il profeta Isaia nelle sue stupende intuizioni:
"Dice il Signore: come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare... così sarà della Parola uscita dalla mia bocca; non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata".
Sono stato risucchiato in questo flusso adorabile di Parola fra cielo e terra, terra e cielo: vorrei non avervi mescolato niente di mio in questo scendere, dilatarsi e risalire della Parola pronunciata dal Mistero di Dio. Ma so che non è così ed è motivo di profondo sgomento per me, anche se è vero che ho sempre cercato, ma è perché mi è stato donato, di coinvolgermi nella potenza della Parola gettandovi dentro tutta la mia passione, un credervi e un consentirvi totalmente, così da rimanerne traboccato e sopraffatto: e le parole sono il traboccamento di questa pienezza, le cicatrici brucianti di questa violenza.
Così è per lo scrivere. Anche se con più calma e quasi visione interiore più distesa, più a perdita d'occhio. Perché la pagina bianca davanti è come la polvere della piazza sulla quale Gesù scriveva: è cercare di raccontare quello che a viva voce è forse impossibile.
Scrivere è parlare nella solitudine. E' raccogliere, ascoltare nel segreto profondissimo dell'anima e gridare quando nessuno ascolta. Soltanto un'eco si ricama sulla carta. Come sangue che fila giù dalla ferita e lascia segni dove passa. Un cammino lungo e faticoso sulla distesa assolata, a perdita d'occhio di solitudine e uno cammina da solo e lascia segni dei suoi piedi e della sua fatica di viandante sulla sabbia, non si volta indietro a guardare il tracciato delle sue impronte, a rileggervi la sua fatica ansiosa, la speranza e la disperazione. Perché scrivere è inondare il foglio di anima, lasciar dilagare lo spirito in una effusione di se fino al dono totale. E' diventare filo di scrittura, un disegnare l'invisibile, lasciar cadere nell' abisso il lento liquefarsi del proprio mistero e di quello del mondo.
Scrivere è silenzio. Solitudine. L'ascoltatore rispettoso. Attesa trepidante. Sussurrare la risposta. Lasciare che la fiumana sia incontenibile dalle sponde. E che il fuoco divampi a bruciare la foresta.
Stringere tutte le mani. Un abbraccio a misure universali. E percepire la voce dell'umanità; Quella silenziosa timida, infinitamente paziente. La voce della moltitudine, a scroscio di marosi a frangersi sugli scogli. O per lo straripare,finalmente, del fiume della storia.

Questo scrivere le parole ascoltate nel terzo cielo che orecchio non ha mai ascoltato e parola ha mai raccontato. Sono parole che possono essere scritte, se scrittura non è vocabolario, grammatica, sintassi, cultura e scienza, nemmeno teologica, ma profezia, cioè manifestazione del nascosto, rivelazione del segreto, visione dell'invisibile, racconto del Mistero dell' uomo e di Dio.
Allora è il momento di prendere la penna colmata d'infinito e la carta come la volta del cielo e scrivere il numero delle stelle e raccontarne la luce. Mettersi ad andare avanti e indietro nel deserto della vita e scrivere sulla distesa di sabbia la sua storia. Dal principio fino al compiuto. Ascoltando con attenzione e rispetto il fragore delle mareggiate, la dolcezza del vento maestrale, guardando e descrivendo l'orrore spaventoso della tempesta, lo scivolare sul filo dell' orizzonte, della vela.
Perché scrivere è raccontare. Di sé, degli altri, dell' universo, dell' indicibile e del filo d'erba, delle civiltà e del bambino nella culla, del respiro del vivere quotidiano, dello sdipanarsi inesauribile del tempo. Di te e di Dio...
Mi capita qualche volta di rileggere cose che ho scritto e sono contento di non riconoscermi, fino al punto di rimanere sorpreso e stupito delle cose che leggo, come se fossero di un altro e sono veramente di un altro, di un me stesso in altro tempo. Allora vuol dire che sono in ricerca e penna e pagina sono il segno di un camminare incessante. Non so bene dove, ma forse lo so: al di là di me stesso, del tempo, dello spazio, verso dove sento che è il compiuto, il principio e la fine, il punto perfetto nel quale è nascosta la Verità mia e di tutte le cose. Giorno dopo giorno con serena e tenace fedeltà. E penna e pagina ne sono un segno, quasi una risposta.
Perché ogni parola che fiorisce come un ricamo sulla trama della vita e della storia, è parola e pagina di diario. E ogni giorno devo voltare pagina e vorrei, con preciso impegno, non ripetermi, anche se gli strumenti dell'armonia sono sempre gli stessi.
Perché scrivere, è vero che è raccogliere tutto il passato per viverlo intensamente nel presente proiettandolo nel futuro.
Perché è anche vero che arrivare in fondo alla pagina è un po' come morire e cominciarne un' altra, bianca e tutta disponibile, è un po' come una risurrezione, un inizio di vita nuova, di una meravigliosa, adorabile avventura.
* * *
Cari amici, ecco che ho scritto tutto quello che mi passa nell' anima in questo momento. Non è stato per dirvi qualcosa di me (e chi sono io?) ma per parlare anche di te, anche se non fai il conferenziere o lo scrittore. Ma anche tu parli e anche tu scrivi, quindi penso che offrirti queste mie riflessioni ti può significare qualcosa nel tuo parlare (o nel tuo non parlare) nel tuo scrivere (o nel tuo non scrivere).
Ma più che tutto volevo dirti che una buona misura di utopia è indispensabile nella vita e più ancora giova assai una vera e propria pazzia. Cioè la capacità di credere anche all'incredibile e di giocare disinvoltamente e infantilmente ogni cosa nell'impossibile. Diversamente che cosa rimarrebbe da dire, di cosa potremmo parlare e su quale argomento scrivere, per raccontare cosa?
Eccoti queste paginette: spero che tu le trovi traboccate di dolcissima pazzia. E se ci è stato dato di conoscerci e di parlarci, ho fiducia che tu abbia potuto concludere: ma questo tipo è un po' pazzo. E Dio voglia che lo possa diventare del tutto: perché qui sta il difficile.
Ti abbraccio.

Sirio

Volontariato, solidarietà, pace

Firenze, 2 dicembre: Giornata Internazionale del Volontariato.
La mia preparazione è tipicamente artigianale. Vivo una realtà molto circoscritta ed un quotidiano fatto di lavoro manuale e della lettura di quel libro non scritto che è lo scorrere lento ma continuo della vita di tanta gente.
Dico questo perché sono consapevole di usare un pennello invece della penna certo più adatta a scrivere di realtà complesse, articolate, che ci coinvolgono. E non vorrei confondervi ancora di più perché quando parlo di pennello non intendo certo quello usato dagli artisti che hanno affrescato queste imponenti pareti di Palazzo Vecchio, ma, ad un livello infinitamente più modesto, parlo della pennellessa dell'imbianchino.
E vorrei invitarvi con me ad uscire da questo imponente e storico salone dei Cinquecento per seguirmi in una stanza assai ordinaria nella dimensione e nello stile e a dare con me alcune pennellate sulle quattro pareti. Abbiamo nell' ordine una parete con una piccola libreria, dei dizionari, dei libri, quindi una parete dove si apre una finestra con ampio orizzonte, poi una terza parete con un divano ed infine l'ultima con un pianoforte.
Ecco, siamo nella nostra piccola stanza e sfogliamo un dizionario. Volontariato e pace. Perché atteggiamenti, stili di vita, scelte originate da motivazioni diverse e che pure si incontrano in una visione positiva e ricca della multiforme manifestazione della vita e della umanità in questo mondo, perché volontariato e pace sono quasi sempre descritti, o meglio, chiamati al negativo, "in contrapposizione a", per quello che non sono, prima e piuttosto che per quello che sono?
Ho tantissimi volontari giovani davanti, eppure credo che se dovessero esprimersi sul "loro" volontariato non lo farebbero con gli schemi progettuali delle teste pensanti del movimento, ma lo farebbero con i termini coniati dalla generazione che li ha preceduti e cioè precisando che è non pagato, non pubblico, non politico, non professionale.
E così la pace, quando ci si allontana troppo dai suoi spesso scomodi testimoni non diventa forse generico pacifismo, non volontà di guerra, non violenza nemmeno di fronte a se stessi per affrontare a viso aperto la vita e le sue contese? Là dove ormai l'immaginario non riesce a discostarsi dal fucile spezzato o dalla ormai decotta colomba picassiana?
Vorrei trovare un libro dove il volontariato e la pace si esprimessero con categorie positive, parlando direttamente di sé senza doversi sempre definire tramite il confronto con il loro vero o supposto contraltare. Temo altrimenti una continua omologazione ai contrari ed una mancanza di progettualità positiva e fiduciosa nel cambiamento. Forse dovremmo veramente essere più convinti che siamo noi - ciascuno di noi e tutti quelli che ci sono compagni di strada - le parole di questo libro affidato alla lotta quotidiana per una vita e per una società solidale. Guardiamoci intorno; passiamo alla seconda parete e apriamo questa piccola finestra sul mondo. Un mondo dove si frangono ondate di speranza e ondate di paura, vita e morte in continuo duello. Dove volontariato e pace trovano i loro lineamenti storici e confrontano il loro aspetto ideale.
Ho letto su "Repubblica" un'intera pagina dedicata al servizio sanitario presente nel corpo di spedizione americano nel Golfo. Medici richiamati alle armi con una esperienza professionale troppo lontana dallo specifico dei traumi provocati da un conflitto armati. Medici che in vita loro, per esem-pio, non hanno mai visto una ferita d'arma da fuoco. Un problema per gli strateghi e i pianificatori del Pentagono.
Si sono però quasi subito resi conto che non avrebbero dovuto improvvisare nessun teatro di esercitazione: una piccola grande guerra è in corso nelle periferie delle grandi città e il pronto soccorso di certi ospedali non ha niente da invidiare alle esperienze sanitarie in prima linea. Così i medici richiamati alle armi prima di partire per il Golfo si sono fatti il loro bravo training in ospedali pubblici come quello di Washington dove i medici normalmente scarseggiano. Sarà un dramma quando questo finirà: cioè quando e se arriverà la pace! Lo stato di guerra nel Golfo è divenuto il motore di una migliore organizzazione dei servizi socio-sanitari, per tutti quei non ricchi che non si possono permettere la clinica privata.
Quanto volontariato si sente all'interno di questa logica? Quanto volontariato è tale solo perché c'è la guerra, il bisogno, il dissesto dei servizi e non perché c'è una giustizia, un diritto da affermare, un modo di essere e di essere insieme che va affermato? Quando il volontario dice che lo stato è inefficiente, quale efficienza vuole affermare attraverso la propria azione? Guardiamo ancora attraverso la finestra e puntiamo l'attenzione sull'evento storico che ha aperto nuove dinamiche tra Est ed Ovest, tra due enormi invasi divenuti comunicanti per il cedimento strutturale delle impalcature e dei sistemi di separatezza e di diversificazione. Anche il volontariato è coinvolto in un processo di incontro e di allargamento delle frontiere. Seminari ed incontri tra espressioni del volontariato orientale e occidentale hanno dato modo di constatare visioni, bisogni, progettualità comuni sulla linea di una partecipazione attiva alle vicende collettive. E' cartina di tornasole, questo rapporto est/ovest, per vedere quanto i nostri movimenti di volontariato hanno maturato la coscienza di ciò che il volontariato nel suo insieme rappresenta nella dinamica storica di un processo di democrazia di base e quanto invece - certamente anche di fronte alla drammaticità delle situazioni - potrà di nuovo prevalere la consapevolezza di ciò che si ha e ciò che si fa come volontari di fronte ai soggetti (individui, come popoli) classificati "deboli". Perché se dovesse prevalere questa ultima logica senza una precisa coscienza politica di sé che apra la strada a nuove forme di convivenza civile, si dovrebbe tristemente concludere che è stato e solo il mercato ad abbattere i muri e non tanto la pace per prima a scavalcarli. Forse a questo punto val proprio la pena di mettersi un poco a sedere sul divano della terza parete. Complessità, appena intraviste, che ci avvolgono, domande di sempre che vanno molto al di là (ma quanto, davvero?) rispetto al nostro raggio di azione, problemi senza soluzione. E dunque seduti sul divano possiamo lasciarci andare ad un discorrere più leggero, per qualcuno forse un po' frivolo.
E prendiamo un po' in esame questa umanità che sembra nel suo agire esprimere due stili assai distinti. Da una parte sta l'uomo chiuso nell'armatura di una azione che deve costantemente produrre risultati e che deve riflettere un' immagine forte di sé. Dall' altra sta l'uomo che agisce in interazione, che scambia volentieri, che riflette una immagine non debole ma coinvolta e capace di contenere positivamente la complessità. Potremmo cedere alla tentazione di attribuire il primo stile ad una supposta "mascolinità'', come il secondo ha senz'altro più di qualcosa di "femminile". Potremmo anche soffermarci sul fatto che - guarda caso - il volontariato è maschile e la pace è femminile: non diciamo forse correntemente che il volontariato si fa (è soggetto) e la pace si desidera (oggetto)? Il discorso non è così frivolo come sembra, ma avendo detto di voler mantenere un tono leggero proviamo semplicemente a scambiare tra loro questi due modi di dire: che ve ne pare di una pace che si fa e di un volontariato che si desidera?
Proviamo ad immaginare gruppi ed associazioni di volontariato che non si organizzano per dimostrare che accanto al male c'e' la bontà ma per condividere le situazioni di violenza (di ogni violenza) per renderle umane tramite la ricerca di giustizia e verità, gruppi addestrati a prevenire lo scatenarsi della violenza nei rapporti individuali e collettivi perché non si muovono contro un nemico, ma insieme verso modi diversi di confrontarsi con il bisogno. Proviamo ad immaginare autoambulanze (quelle del volontariato) con una barella sollevata dall'uguale umanità di razze diverse, un respiratore collegato ad una bombola di accoglienza vicendevole allo stato gassoso (capace cioè di miscelare insieme responsabilità e libertà nella fluidità del vissuto), una sirena spiegata dal canto polifonico di un popolo che vive le proprie armonie nell'urgenza di ogni tempo in cui si può vivere o morire.
E chiediamoci se desideriamo realmente vivere l'arcobaleno delle reciproche disponibilità nei delicati colori della gratuità che fa della solidarietà non un dovere ma un diritto di ognuno. Se desideriamo veramente che il sole sorrida su una umanità che intreccia relazioni partecipate e caloro-samente attive.
Ci possiamo avvicinare a questo punto alla quarta parete e al pianoforte, o se preferite alla fisarmonica o alla chitarra, visto che si parla ormai così con il cuore in mano e con quel calore che un bicchiere di buon vino può dare. La mente può scandagliare i problemi, chiarirli nei loro elementi, avvisarci con logica impietosa delle loro profonde e vaste dimensioni. Il gioco può servire a distrarci, ma la vita non è forse anche un gioco? Un po' di musica, un po' di poesia, prima di lasciare questa nostra stanzetta imbiancata con le aeree sfumature dell'utopia e ritornare in questo salone carico di storia.
Poesia? Certo. Utopia? Senza dubbio.
Ma perché la speranza torni a fiorire è necessario non lasciarsi rinchiudere neppure dalle grandi pareti della storia perché ogni misura che non sia colma e traboccante è condannata comunque alla sterilità.

Luigi

(liberare la pace dalla guerra)

Dovremmo essere capaci di cominciare
a liberare la pace dalla guerra.
Fin qui abbiamo pensato
che quando non c'è guerra c'è pace.
Un grosso sbaglio veramente.
Ora bisognerebbe cominciare a pensare
alla pace in quanto pace.
Amare la pace perché è la pace.
Valorizzare la pace
perché la pace è il valore supremo
perché la pace è essenzialità della realtà umana
perché non c'è umanità se non c'è pace
perché non sei uomo, non sei donna
se non sei pace.

don Sirio

Mai più

Noi non vogliamo più
tornare in quell'edificio,
e non perché ci spaventi
il ricordo della morte.

Vogliamo una scuola nuova per affermare finalmente
la dignità dello studio da troppo tempo negata
da una scuola cadente dentro e fuori
nella quale male si studia e malissimo si vive;
dove si cresce isolati e dove spesso non c'è
possibilità di instaurare sentimenti
di rapporti collettivi.

Non torneremo in via del Fanciullo
per tradurre
il terrore di quelle morti
in necessità di rispetto delle nostre e altrui vite.

Rivolgiamo un pensiero
al giovane pilota dell'aereo.

Vogliamo affermare
contro logiche di guerra
un'idea di pace
e su questa invitare alla riflessione tutti,
specialmente quei giovani che su ordigni di distruzione
possono divenire strumenti di morte e vittime essi stessi.

Parole dette dagli studenti
ai funerali delle dodici vittime dell'aereo.
Casalecchio, 7 dicembre 1990

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