LOTTA COME AMORE: LcA luglio 1988

Un nuovo cammino (10 anni dopo...)

Nel marzo del 1977 - più di dieci anni fa - così Sirio apriva il primo numero della nuova serie di "Lotta come Amore". Abbiamo voluto riprendere questo scritto perché misura quanto il camminare di questi ultimi anni (e vorremmo dire anche di questi ultimi mesi) non sia stato casuale o improvvisato di fronte all'emergere di nuove situazioni e condizioni di vita.
Ci è sembrato di vivere la scoperta quotidiana di una intuizione, e forse sarebbe meglio dire vocazione, maturata e cresciuta in questo tempo a misura di fedeltà di vita. Questo radicalizzare il proprio coinvolgersi nella umanità in totalità di misura quale deve essere la misura dell'amore.
Ed insieme questo stare davanti a Dio allo scoperto.
La strada è ancora questa: precisata, dilatata, arricchita di volti conosciuti durante questi dieci anni, vissuta ed aperta giorno per giorno nella meraviglia di un dono sempre rinnovato.

Un nuovo cammino
Arrivati a questo punto di una già lunga storia di ricerca per una verifica personale e di gruppo a seguito di un bisogno, giudicato assolutamente importante nella propria vita, di vera autenticità, viene inevitabilmente da domandarsi se c'è e quale nel caso affermativo, il cammino da seguire ancora.
Tanto più poi per il fatto che la propria verità personale o di gruppo o di comunità che sia, impone e costringe ad una verifica di rapporto con una realtà nella quale stiamo vivendo e per la quale è più che giusto e doveroso significare qualcosa, o almeno tentare di significare qualcosa.
Può succedere - è buona cosa che succeda - che ci si avveda che qualcosa va radicalmente mutato. E può essere - ognuno veda cosa più gli conviene o meglio ciò che più gli sembra giusto - può essere che risulti che sia arrivato il momento di dare un colpo di barra alle vele, una sterzata al timone, e invertire la rotta della propria barca. Oppure semplicemente correggerla. E può anche darsi che sia sopraggiunto il tempo in cui un forte vento si è levato e allora convenga spiegare tutte le vele, fino all'ultimo velaccio, e dare il via alla barca sulla cresta delle onde.
Sta il fatto che un processo di liberazione deve essere assolutamente inarrestabile.
La libertà, se libertà è, deve dilatarsi aldilà di qualsiasi orizzonte. E se spazio proporzionato non ha, è perché ancora non ha forzato e non riesce a rompere grettezze di imprigionamenti, scioccamente giudicati conquiste di spazi.
L'analisi corretta delle proprie vittorie e sconfitte è assolutamente indispensabile e incredibilmente preziosa, per stabilire se il punto dove siamo arrivati è qualcosa di definitivo o è semplicemente l'aver posto - ma spesso non si tratta di una nostra volontà - le condizioni per un andare avanti, a costo di tutto.
Questo essere abbandonati, in balia del vento e dello spirito che non si sa dove viene e dove vada, è condizione fondamentale per costruire la serietà di una libertà che sia autenticamente liberazione per se stessi e per gli altri.
Non sappiamo bene cosa possa essere quel qualcosa che ci sta forzando a raccogliere i nostri stracci, un tozzo di pane e una borraccia d'acqua e rimetterci in cammino.
Non c'interessa nemmeno se la sosta è stata lunga o no, e se la terra è stata un po' dissodata e qualcosa è stato seminato. Tanto meno vale stare a controllare i frutti raccolti. Può anche essere stato tutto a vuoto. Anzi forse sembra che sia andata così. Non ha nessuna importanza. Siamo rimasti vivi, vuol dire che abbiamo mangiato e bevuto e il cuore è forte, l'anima aperta e gli occhi sanno ancora guardare lontano.
È il cammino di Abramo, a differenza di quello di Mosè, quello che ci interessa. La strada cioè ancora lontana dalla Terra Promessa. Perché ci sembra sempre più che il camminare più vero è quello nella Fede e intendiamo scommettere semplicemente sulla Promessa, e cioè sulla Fedeltà di Dio.
Non abbiamo bisogno di miracoli o di segni prodigiosi. E ci deve guidare un fuoco acceso in cielo di notte e una nube luminosa di giorno.
Ci basta la parola che ci è stata sussurrata nel segreto dell' anima. E su questa parola leviamo le tende con la mano sugli occhi a scrutare l'orizzonte, muoviamo i piedi nello sterminato deserto.
Il deserto di Dio.
Perché lo spazio della libertà dove la liberazione deve condurre ad abitare è quello di Dio. Crediamo che nonostante qualsiasi apparenza contraria, è in questo spazio che abita l'uomo e l'umanità. E se cerchiamo di camminare in questo deserto - l'assolutizzazione dei valori fondamentali, la liberazione di tutto ciò che è l'appartenenza, contingenza, temporalità ecc. - è perché nella conoscenza dell'adorazione di Dio, vi si trova senza equivoci o compromessi, la coscienza e l'adorazione dell'uomo.
Perché fra Dio e l'uomo, l'unità è perfetta.
E noi cristiani lo sappiamo bene in Gesù Cristo. Non è quindi un'evasione e tanto meno una disincarnazione abbandonarsi alla contemplazione di Dio. Vuol essere anche un guardare di più assai, perché senza distrazione, nel cielo e sulla terra, nel cuore di ogni creatura e nel groviglio di ogni e qualsiasi vicenda della storia, i segni di un volto in cui deve pur esistere immagine e somiglianza, sotto il velo delle cose e dell'umanità e ascoltare la Parola che ha parole di pienezza di vita fino alle misure estreme dell'eternità.
Si diceva visione di Dio e dell'uomo senza distrazioni. Quindi non ci occuperemo più della Chiesa intesa come realtà di clero, istituzione ecclesiastica, ingranaggio gerarchico, attrezzatura e bagaglio di tutto quel complesso più o meno macchinoso di temporalismi messo insieme in tanti secoli e terribili resistenze, nonostante l'usura del tempo e gli attacchi delle forze di purificazione del nostro tempo.
Rimane chiaro ed intatto e sempre più fedeltà assoluta, un rapporto di fede con la Chiesa. Nella visione di Dio la Chiesa si rivela immediatamente come il suo popolo, incessantemente e appassionatamente richiamato ed essere nel mondo segno di Lui. E la chiarezza di questo segno è tutta in Gesù Cristo.
E Gesù Cristo va semplicemente accolto e vissuto. Per noi tutto un tempo è passato ormai. Tempo in cui la lotta e sempre, è stata motivata e guidata dall' Amore, sia pure - ma come dovrebbe essere se è Amore? - da Amore duro, tenace, ardente, appassionato.
Ma era inevitabilmente una lotta di scontro, di polemica, di risentimento, di angosciosa sofferenza, di bruciante desiderio perché Chiesa fosse cuore di Dio e e cuore di popolo e assolutamente nient'altro. Ora questo tempo di lotta per noi si è forse concluso. Non è per abbandono o per stanchezza o perché ci è caduta perfino la Speranza e tanto meno l'Amore e la Fede.
Ma anzi è perché un più vero rapporto con la storia, una presenza più concreta, richiede ed esige motivazioni più profonde, quelle che stanno più a monte, si direbbe oggi. La serietà e la gravità di una lotta perché possa risultare veramente Amore, ha bisogno di essere causata e guidata da ragioni che nascano dalla roccia viva di una sorgente che scaturisca sempre più da Dio e dal suo Mistero, non da realtà di carne e volontà d'uomo, chiunque sia quest'uomo, anche se è sacra gerarchia.
Non sappiamo bene per il momento ma è esperienza che vorremmo fare - e nella nostra persona, concretamente, è già molto avanti, anche se tutt'altro che compiuta - di cercare l'adorazione di Dio «non in Gerusalemme o su questo monte, ma in spirito e verità perché sta venendo il tempo ed è ora, nel quale questa è l'adorazione che il padre vuole». E di cui l'uomo ha profondamente bisogno per ritrovare il vero senso di Dio nella liberata conoscenza di Lui e l'Essenzialità di un rapporto di Fede e di Amore che non crei una religione ma una realtà di vita per totalità di comunione fra creatore e creazione come luce di sole e i colori di fiori, la terra riarsa e la pioggia dal cielo.
Vorremmo raccogliere in una comunità, che può nascere dalla solitudine di eremitaggi dispersi e nascosti in questo marasma di confusioni che è il nostro tempo, chi ha scelto il deserto (vivere fuori, separato e solo, dall' abitato della civiltà attuale e dalla religiosità ufficiale) per poter radicalizzare il proprio coinvolgersi nell'umanità al di la di ogni condizionamento in totalità di misura quale deve essere la misura dell'amore, e stare davanti a Dio allo scoperto, a faccia a faccia nella Fede come sarà un giorno nella visione, al di là di ogni liturgismo e pastoralismo e per ascoltare la sua Parola pronunciata oggi e parlargli la parola che sale su dal cuore di ogni essere umano e dall'angoscia di tutta l'umanità.
Con umiltà e semplicità come uno che con la mano fa un cenno e dice: vieni, facciamo il giro del mondo, quello dell'universo... fin là dove certamente non finisce il camminare.
Sirio


Abbiamo voluto aprire questo numero con uno scritto di Sirio non tanto per rendere atto di una memoria fedele, quanto per riallacciarsi ad una storia vissuta insieme e che insieme intendiamo continuare a vivere. In una dimensione nuova, intensa, ricca di energie forse liberate proprio nonostante il morire. Parlando con alcuni amici è venuta fuori una sensazione comune per cui la morte di Sirio non è sentita come termine, annullamento, scomparsa, fine. Certo in questo può giocare la difesa psicologica contro tutto ciò che atterrisce nella novità non sperimentata. ma è difficile spiegare una sensazione di serenità che non porta affatto i segni dell'eccitazione interiore, dell'artificio di una mente che cerca di nascondere a se stessa la verità. La morte appare ridimensionata da spazi nuovi che. si aprono, da una vita che si scopre assetata di nuove ricerche. E una presenza che non sapremmo ben definire, ci rende assai più presenti a noi stessi.
Così non diventerà una abitudine questo riportare nel giornalino uno scritto di Sirio, comunque sia, in modo rituale. Ma l'inoltrarsi a cuore aperto nella storia porterà talvolta a rileggere parole nate per aprire un cammino.
Ci perdoneranno ancora gli amici se siamo restii a fare qualcosa "per" Sirio. Se non ci entusiasmano iniziative per anniversari e commemorazioni. Non certo per attenuare la memoria o pretenderne un assurdo monopolio.
Molto più semplicemente siamo ancora convinti di fare le cose "con" Sirio. Sarà la vita a giudicare se questa nostra sensazione è solo velleità spiritualeggiante o verità che la carne e il sangue non può credere di poter in sé contenere.
Non abbiamo fretta: la vita ha i suoi ritmi, le sue stagioni: i tempi nascosti della gestazione e i tempi gioiosi della novità.
Fare memoria è vivere nella continuità rendendo vero oggi quello che è stato ieri, colmando la frattura del tempo e dello spazio fino a rendere identico ed insieme nuovissimo ogni gesto compiuto.
"Con umiltà e semplicità come uno che con la mano fa un cenno e dice: vieni, facciamo il giro del mondo, quello dell'universo... fin là dove certamente non finisce il camminare".

La Redazione

Lettera di fratello Arturo

Miei cari amici dell'Italia,
Vi scrivo dal deserto dove lo Spirito mi ha elegantemente invitato a passare una settimana con la sola occupazione di ascoltarlo. Sono in una piccola casa di legno in mezzo ad un bosco che si arresta sulla riva sinistra del Paranà. Il tempo scorre lentamente sulla superficie di questo immenso fiume che porta l'odore della foresta giù fino a Buenos Aires. Alzando gli occhi, vedo le bianche case del Paraguay che di notte mi parlano della loro esistenza dall'alta sponda. Questo ritiro rappresenta un momento molto speciale della mia vita. Una persona che segue un itinerario spirituale, si propone un tempo di ritiro per prepararsi alla professione religiosa, al matrimonio o a un anniversario importante. Ma lo Spirito sceglie il tempo a suo piacere, e non pare molto incline alle celebrazioni fissate un po' convenzionalmente da noi, Una notte nel tempo del mio ritiro ho sentito le parole di Giuditta e sono andato a cercarle: "Chi siete voi che avete tentato Dio in questo giorno e vi siete posti al disopra di lui, mentre non siete che uomini? "(Gdt. 8, 12). Queste parole rimproverano gli anziani della città che avevano fissato arbitrariamente il tempo dell'intervento divino. Forse capirete perché mi si è presentato questo esempio, quando vi dirò cosa ha deciso lo Spirito a mio riguardo. Prima di tutto vi devo confidare che da molti anni per me la preghiera è la storia di una convivenza o, se preferite, di una amicizia. Una amicizia che si sarebbe rotta tante volte se l'Altro non fosse tenacemente, caparbiamente fedele. Nonostante tutte le contraddizioni create dalla mia fragilità di uomo, scopro all'epilogo della vita, che l'ALTRO ha svolto e svolge un lavoro coerente. Talvolta ha dovuto abbattere quello che avevo edificato con incompetenza e obbedendo a criteri egoistici, ma Egli non ha mai abbandonato il progetto. Sono molto soddisfatto di questa convivenza, e felice della sua amicizia.
In questo momento mi chiede di sospendere ogni attività letteraria. Devo lasciare lettura, studio, tutto ciò che è in relazione coi libri e ogni tipo di collaborazione con quello che viene stampato. Non vorrei vi faceste un opinione sbagliata del mio Amico che non è per nulla un anti-intellettuale, tutt'altro. Una prova per me indiscutibile è che io vivo questo cambio di vita non come una rottura o una delusione o stanchezza. Ci tengo molto a farmi capire perché non voglio che porti un segno di tristezza un avvenimento che io vivo con immensa gioia. Pensando al mio passato di "scrittore" non lo rimpiango come tempo perduto, ne ringrazio Dio dal profondo del cuore, e non potrei pensare la mia relazione con l'Amico fuori di questa attività. In altre parole, la mia risposta all'Amore è stata fondamentalmente questa ricerca di verità che ho sentito la necessità di condividere con i miei fratelli. In questa epoca della mia vita non vi avrebbe certamente sorpreso se qualcuno vi avesse reso noto che un incidente aveva interrotto il mio lavoro: o la morte totale o parziale del corpo o della psiche. Mi pare una grazia notevole essere io a comunicarvi il mio congedo, in un tempo in cui fisicamente mi sento bene e psichicamente secondo l'opinione di quelli che convivono con me, non presento alterazioni.
Un nostro poeta chiudeva la sua attività letteraria con un verso molto malinconico: "si spengono i canti nel mio cuore". Posso dire che questa interruzione è per ascoltare i canti nel mio cuore. Non mi sento vittima di una legge inesorabile, sono il pellegrino di Emmaus invitato alla sosta festiva. Pensando a voi, mi sorgono delle domande:
Questo nuovo tipo di vita sarà temporaneo o definitivo?
Non potevo preannunziarlo con un anno o a qualche mese di distanza?
Ho girato queste domande all'Amico, ma non ho avuto risposte se non una, che tutte le leggi sull'impiego, sui diritti dei lavoratori e degli impiega tori, sono necessarie, ma Egli si è divorziato dalla legge e non pensa ad una riconciliazione. Continueremo a volerci bene e a camminare insieme sulla strada del Regno fino al congedo finale e oltre.

Arturo

(Molti amici...)

Molti amici hanno continuato a scriverci in questi mesi, rinnovando la memoria di incontri sempre intensi, di lotte comuni, di fatiche nella ricerca e nella solitudine che hanno trovato qui - nella Chiesetta del Porto - nell'amicizia e nell'abbraccio di Sirio, un momento di pace e comunione.
Ringraziamo tutti con grande commozione. La Chiesetta è ancora qui, piccola barca segnata dalle rughe del tempo ma con il cuore ancora giovane ed il desiderio profondo di sognare ancora.
Può accadere che Beppe e Luigi rientrino a bordo solo di notte, quando è ora di dormire, e che non si riesca a trovarli neppure quando dovrebbe essere la sacrosanta ora del pranzo e della cena. Ma si sa: i marinai - specie quando si trovano a terra e la loro barca è ben ancorata - i marinai dicevo, sono persone inquiete e si lasciano conquistare dai miraggi più strani...!
Ma troviamo ancora il tempo per arrostire un po' di pesce, riposare un poco all'ombra del piccolo campanile a vela ed abbracciare con la nostra solitudine quella di chiunque è in cammino oltre ogni meta.

18 febbraio 1988 - 28 aprile 1988

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Rolando

La Nonviolenza è Resurrezione

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don Beppe

(da "nuove armi per la pace" di B. Haring)

"L'esperienza che l'umanità è una e che la storia dell'umanità è in cammino verso l'umanità appaiono a un numero sempre più grande di uomini e donne come una nuova verità. Questa verità sta ancora soffrendo i dolori del parto... non dovremmo essere capaci di creare un'orchestra attorno all'appello di apostoli della pace come Erasmo da Rotterdam? Faccio appello a tutti coloro che si dicono cristiani, affinché uniscano le loro forze e i loro sforzi nel combattere contro la guerra."

Guatemala

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(testimonianza di una donna guatemalteca)

"Sappiamo tutti chi siamo, abbiamo una radice, conosciamo i nostri antenati, e nonostante la crudeltà che ci schiaccia non smettiamo di essere quello che siamo. A volte non abbiamo voce per rispondere, ma non per paura, ma perché non abbiamo questa libertà ... Noi conosciamo un Dio che è il donatore della vita: ma se questa vita è sua, noi dobbiamo rispettarla e averne cura."

Svuotiamo gli arsenali, riempiamo i granai

La richiesta della dirigenza NATO, fatta in modo ufficiale al nostro ministero della Difesa, di "accogliere" in una adeguata base militare dell'Italia del Sud i 79 aerei da caccia F16 che la Spagna non vuole più, mi ha fatto tornare alla mente un coraggioso e lucido documento di sette vescovi pugliesi, dal titolo significativo: "Terra di Bari, terra di pace" (8 dicembre '87).
Non so quello che il Parlamento italiano deciderà in proposito; so però con certezza che una chiara coscienza cristiana non può accettare tranquillamente simili operazioni di riciclaggio di "scorie di guerra".
Soprattutto se si volesse rendere concreta la felice intuizione laica, ma profondamente vera, di un nostro passato presidente della Repubblica che dichiarò con molta saggezza che era giunto il tempo di "svuotare gli arsenali e riempire i granai". E non credo proprio che volesse dire di svuotare gli arsenali degli altri per riempire i nostri!
Per questo, mi pare interessante e attuale la rilettura di un brano di un documento sopracita-to, perchè in esso vi è descritto molto bene l'atteggiamento necessario per costruire una realtà di pace che sia concreta, radicata nella realtà della vita e che non resti una "pia aspirazione" dello spirito
"Nei grandi discorsi politici noi pastori abbiamo il diritto di accesso solo per annunciare la speranza. Ma se annunciare la speranza significa giudicare gli avvenimenti alla luce di Dio, e non semplicemente avallarli alla fioca lanterna dei calcoli umani, in questo momento ci incombe l'obbligo di esprimere, se non un giudizio, almeno la preoccupazione per come, sul nostro territorio, stanno andando le cose in fatto di pace...
Ma saremmo pastori sonnolenti, oltre che cittadini distratti, se tacessimo di fronte alla prospettiva, tutt'altro che ipotetica, che oltre l0 mila ettari della nostra Murgia vengano sottratti ai contadini per essere utilizzati a megapoligoni di tiro. A questo punto il silenzio sulle nostre labbra non sarebbe più compatibile né con la parola di Dio che, invitandoci a rimettere la spada nel fodero, condanna perfino i simboli della violenza, né con il grido del popolo, che per questa già povera terra chiede trattori e non carri armati, granai e non arsenali, sviluppo e non armi...
E a legittimare il nostro intervento è lo stesso Vangelo con la sua inequivocabile parola di nonviolenza, sulla quale non ci è più lecito fare operazioni di sconto, neppure per attenuare lo scandalo di averla scoperta troppo tardi." Ritornando al problema del trasferimento sul suolo italiano degli F16 della NATO, mi pare interessante considerare alcuni dati:
- l'intero costo dell'operazione pare si aggiri intorno ai 600 miliardi di spesa.
- i militari americani al seguito dei cacciabombardieri sono circa 3000; con le loro famiglie, costituiscono una popolazione di circa 8000 persone per le quali dovrebbe essere costruito un intero paese.
Alla luce veramente evangelica delle considerazione dei sette vescovi pugliesi, mi pare doveroso chiederci che non sia questa una occasione (un "segno dei tempi") per mettere in atto tutte le possibili strategie capaci di ottenere una progressiva e reale smilitarizzazione del territorio europeo. La soluzione potrebbe essere molto semplice: tutti a casa!

don Beppe

L'impresa del capannone

Da poco più di tre mesi è cresciuta la popolazione del nostro capannone di via Virgilio. Tace quasi del tutto il canto del martello sul ferro arroventato nella forgia, ma in compenso risuonano le voci di una decina tra ragazzi e ragazze sui 15 anni a ringiovanire l'ambiente.
Ragazzi appena usciti dalla scuola dell'obbligo, segnati da handicap più o meno gravi, per un'esperienza di passaggio tra la scuola e il lavoro. Almeno per quelli meno in difficoltà, sempre che fortuna e leggi di sostegno consentano loro un inserimento del resto sempre più difficile nella crescente e preoccupante situazione della disoccupazione giovanile.
Non è davvero difficile stare con loro anche se a volte si comportano con la leggerezza dell'irresponsabilità e ricevono occhiate severe da parte dei "vecchi" della ceramica e dell'impagliatura sedie. Loro sì che ormai lavorano con autentica coscienza operaia e non possono non sentire il fastidio di ragazzini intorno che vogliono sempre scherzare. Uno di loro, ogni tanto mi batte la mano sulla spalla e scuotendo la testa in segno di commiserazione dice: "ma cosa fanno quei mammalucchi!"
Comunque la "Famiglia" cresce portando, è vero, nuovi problemi, ma anche una ventata di novità che aiuta a sentirsi vivi, a fare programmi, a creare qualcosa di più e qualcosa di meglio nella nostra "Disorganizzazione".

* * *
Certo aumenta la dimensione "assistenziale" della nostra piccola azienda e questo fatto preoccupa un poco, specie se confrontato con il progressivo impoverirsi della dimensione produttiva, di impresa.
È vero, non siamo mai stati votati al lavoro alla morte. Ma se ci guardiamo indietro possiamo vedere tutta una serie di realizzazioni uscite fuori da denaro guadagnato giorno per giorno, cercando di non tirarci indietro di fronte a nessun lavoro, anche quelli meno gratificanti, quelli commissionati da gente che credeva di comprarci con un'elemosina. Di poco ci siamo sempre accontentati, ma l'elemosina non l'abbiamo mai accettata da nessuno.
Ora le convenzioni con la U.S.L. (a parte i cronici ritardi nei pagamenti) hanno preso il sopravvento nella nostra economia di sopravvivenza. E questo ci mette in un certo senso di disagio. Abbiamo sempre tenuto ad una nostra dimensione "privata", ad una autonomia che deve trovare il suo riscontro anche nel fatto economico. Non abbiamo mai pensato alla nostra iniziativa come alternativa a quella pubblica, come in una contrapposizione legata alla sfiducia nella azione politica. Abbiamo semplicemente voluto portare nella dimensione pubblica la piena dignità di una partecipazione attiva, autonoma, e cioè non dipendente per la sopravvivenza dal denaro pubblico o dal favore dei pubblici poteri. Una autonomia che ci ha permesso di giocare la nostra responsabilità nella libertà di pensiero, di atteggiamento, di giudizio.
Scomodi tantissime volte, ma sempre coinvolti decisamente nelle problematiche che abbiamo deciso di accogliere. Fino a determinare in maniera decisiva l'orientamento della politica istituzionale locale nei confronti delle problematiche dell'handicap con le sperimentazioni e le lotte portate avanti da diversi anni.
Oggi rischiamo di perderla questa autonomia - e quindi questa libertà - se non riusciamo a crescere e solidificare quell'inventiva che ci ha caratterizzato all'inizio e che ancora conserviamo attiva nell'atteggiamento e nel modo in cui affrontiamo il lavoro.

* * *

È questo, ed in modo sostanzioso, problema economico, di forze, di produttività, di mercato. È legato alle nostre motivazioni, ai nostri bisogni, alle nostre disponibilità e scelte. Ma soprattutto è "impresa" di idee, di ricerche, di realizzazioni tirate fuori dalle mani, dalla mente e dal cuore come dice un vecchio slogan. È vitalità che nel nostro caso abbisogna in modo particolare perché l'handicap molto spesso, oltre a deficienza, difficoltà, ritardo fisico o psichico, è soprattutto sottolineatura del limite, abrasione della fantasia, distorsione della creatività, annebbiamento della personalità, incentivo al gesto ripetitivo che rassicura nei confronti del potenziale disgregativo del "diverso". Per la pressione sociale che intorno all'handicap si realizza e produce preoccupazione e cioè esagerazione di paura o di affetto, che è poi la stessa difesa di fronte a tutto ciò che rompendo gli schemi della normalità si manifesta come imprevedibile.
Anche per questo sembra necessario che coloro che lavorano nel mondo dell'handicap (... che strano: mi accorgo di parlare di handicap per indicare un contesto, ma non mi viene da scrivere "handicappato", proprio come mi sarebbe difficile dire dei miei amici etiopi che sono "negri"...) non siamo persone troppo preoccupate di ritagliare la propria normalità in un contesto statico, ma gente capace di offrire e di ricevere le continue provocazioni che lo spirito di "impresa" produce. Impresa umana, sociale ed economica.
Produttività di beni materiali, di servizi, di idee, di una cultura nuova, solidale, umana. Non la limatura degli spigolo vivi dei crocevia della condizione umana per ottundere paciosamenre il cammino delle coscienze (... se non ci pensate voi che siete preti ...), ma la capacità di rimettersi in discussione senza angosciosi ricami su di "sé", nel confronto aperto anche con i problemi "impossibili" del nostro vivere.
Altrimenti c'è il rischio di fare l'abitudine a tutto ed è cosa molto triste normalizzare le diversità e cioè non prenderle sul serio fino a proporre solo limitazione per non lasciarsi mettere in questione. Anche se è difficile armonizzare le diversità in un percorso comune. Difficile? Forse sarebbe meglio dire impossibile fino all'utopia! Ma è proprio per questo che occorre agitarsi, trafficare, provare, sperimentare, inventare, rischiare fin quasi a bluffare con se stessi per non arrendersi di fronte ai limiti spesso carichi all'eccesso del peso di tutta una storia umana e di una esperienza che parla il linguaggio opposto e che etichetta come "impresa" tutto ciò che è assegnabile a merito individuale o di gruppo per forza, abilità coraggio, fortuna, ecc. ecc. sempre misurabile sul distacco quantitativo tra coloro che sono riusciti ad "imprendere" e coloro che sono rimasti al palo.
Nel nostro caso, come in quello di tutti coloro la cui misura è a respiro di umanità, l'impresa non consiste nell' arrivare a determinati traguardi, ma nel mantenere viva una capacità di levitazione perché un sogno possa illuminare la vita e le tensioni di questa nostra storia umana. Si parla di handicap in un mondo in cui tante sono le occasioni di fasulla onnipotenza per poter prendere sul serio il limite ed insieme il suo concreto supera mento. Si parla di diversità in un contesto in cui drammatico pare il confronto per l'inasprirsi dei conflitti che sulle diversità sono alimentati. E angoscioso appare l'incrociarsi confuso di lotte per la liberazione, di corporativismi regionali, di semplici aggiustamenti di sfere d'influenza. Come la rigidità convenzionale in un contesto di rapporti per contro sempre più fluidi che segnano spesso la sterilità di rapporti uomo-donna, giovani-anziani. Si parla di inserimento nel mondo del lavoro in un contesto drammatico di disoccupazione, in un modello sociale ed economico che teorizza l'inevitabile formazione di un terzo di popolazione "povera" per dare l'opportunità ai due terzi di essere competitivi nella società dei consumi (come consumatori s'intende). E questo come "impresa" da realizzare, rendendo merito alla dirigenza che sarà capace di ridurre ad un solo terzo gli italiani destinati ad arrivare solo alle briciole della tavola imbandita dei beni e dei servizi che la "normalità" acquisirà come suo diritto.
L"'impresa" è opporsi a questo vento che spira forte e deciso nella mentalità di tanti, oggi.
L'''impresa'' è realizzare spezzoni di modelli diversi seminando storie ispirate a ben altra idealità. Impresa che. non può abbandonarsi nelle comode braccia di rapporti convenzionali, di assistenza programmata, di gratificazioni per opere buone. Impresa è non rassegnarsi mai alla sopravvivenza, in nessun caso. Anche se la nostra associazione si chiama A.R.CA. noi non vogliamo essere, non vorremmo mai essere, dei sopravvissuti. Solo gente che porta nel cuore un sogno e lotta nella vita sognando la multiforme diversità dei colori dell' arcobaleno ed insieme il chiudersi perfetto del suo arco all'orizzonte "impossibile" dove si congiunge cielo e terra.

Luigi

Dizionario 2000

Verrà un giorno nel quale i bambini
impareranno alcune parole
che sarà loro difficile comprendere.
I bambini dell'India chiederanno:
Che cos'è la fame?
I bambini dell'Alabama chiederanno:
Che cos'è la segregazione razziale?
I bambini di Hiroshima chiederanno:
Che cos'è la bomba atomica?
E tutti i bambini del mondo
chiederanno: Che cos'è la guerra?
E tu sarai colui che dovrà rispondere
e allora dirai loro: Questi sono nomi
di cose cadute in disuso,
come la diligenza, come le galere
o la schiavitù. Queste parole
non hanno più alcun senso, per questo
sono state tolte dal dizionario.


Debruyne

PRETIOPERAI Scritti di Sirio Politi

Il primo numero del 1988 della rivista "Pretioperai" è uscito completamente dedicato a Sirio.
"Più d'uno - è scritto nell'introduzione - ha proposto di lasciar parlare Sirio lungo tutto questo numero della rivista, che lui aveva fortemente voluto e entusiasticamente aveva diffuso.
Nell'incontro di redazione abbiamo deciso di dare la parola a quella parte di Sirio che riconosciamo più "nostra", di noi preti operai.
Man mano poi che nasceva questo numero, abbiamo constatato che le note, i commenti e le inquadrature storiche che avevamo previsto non erano così necessarie. Sirio si fa benissimo comprendere da sé, basta che lo si legga con attenzione "sim-patica" (nel senso etimologico del termine). Abbiamo così potuto accelerare i tempi della stampa, in modo da poter presentare questo numero durante il seminario di Verona del 13-15 maggio.
A noi pare che il materiale qui raccolto - nonostante parecchi tagli impietosi - dia davvero l'immagine di quel Sirio di cui noi preti operai ci sentivamo un po' tutti fratelli minori: quello che ascoltavamo periodicamente ai nostri incontri, a cui non poteva mancare; e che cercavamo di trovare in qualche articolo sulle "sue" pubblicazioni che parecchi di noi ricevevano prima "La voce dei poveri", po "Lotta come Amore".
Non ci pare esagerato affermare che siamo orgogliosi di dare la parola a Sirio da queste pagine: ogni prete operaio potrà riconoscersi in qualche sfaccettatura della sua vicenda; chi prete operaio non è, potrà ritrovare concentrata in poche pagine cosa può vivere/dire/pensare uno di noi, anzi, il primo di noi.
Dopo Sirio, tante altre storie di preti operai hanno cominciato a svolgersi: ciascuna diversa, pur con alcuni tratti di fondo comuni; ciascuna potrebbe essere storia-da-comunicare.
Questa rivista è nata perché queste storie non andassero perdute: Sirio - ancora - può esserci di esempio e di stimolo.
E mentre ringraziamo i nostri amici per la sensibilità ed il lavoro uscito dal cuore, invitiamo i nostri lettori interessati alle vicende individuali e collettive dei preti operai ad abbonarsi alla rivista. Un modo per fare memoria di tanta storia e comunicare la storia di oggi di uomini e donne che vogliono legare nella propria esistenza la fedeltà a Dio ed all'umanità.

Lungo Canale Est 37

Viareggio 21 Febbraio 1988

Non conosci un luogo
non ne hai fatto
un luogo del tuo cuore
fino a quando
non vi hai vissuto l'estremo
del dolore e della gioia
l'incontro solitario
e la gloriosa amicizia.

Così oggi è per me
la chiesetta del porto di Viareggio
il sagrato tra le barche
e tutti i giorni
vengono a questo giorno
tutti gli incontri
i colloqui
i silenzi
vengono a questo abbraccio
estremo e continuo.

Luca Sassetti

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