LOTTA COME AMORE: LcA dicembre 1987

La politica dell'utopia

È constatazione ovvia, personale o collettiva che sia, che l'utopia è debolezza. Come un soffio di vento. L'onda che lambisce la spiaggia. Il velo di nebbia all'orizzonte. Il sognare di una notte di abbandoni. L'intravedere nell'esaltazione ciò che non esiste. La speranza che sarà ciò che non è e non potrà mai essere...
Eppure fa parte dell'utopia e spesso è parte integrante, di quei valori nascosti, segreti del costitutivo dell'essere umano, che sia pure invisibilmente, contribuiscono alla realizzazione della personalità e più ancora della specificazione della propria identità. L'uomo moderno è costretto dentro una programmazione determinata e ordinata dagli affari, dagli interessi, dal finanziario, dai giochi del potere politico, dai rischi (e sono di distruzione totale) della spietatezza militare.
In questo circolo chiuso è vitale sapere che esiste la spaziosità. credere che il sognare anche l'impossibile è riscoprire la propria libertà, ritrovare quella dignità di respirazione universale, cosmica e cioè la vera animazione della vita.
L'utopia è forzare l'incessante tendenza al chiudersi degli spazi, attraverso squarci di apertura che permettano di guardare oltre, d'intravedere l'invisibile, di scoprire il mondo dell'immaginario. Forse non sappiamo abbastanza quanto la concretezza ci uccida. La praticità è spesso legarci le mani e piedi e bloccarci in immobilità da soffocazione. È molto triste perdere la voglia dello spazio, il bisogno vitale della spaziosità.
Perché, è vero che siamo disegnati e concretizzati dentro la materia e I'inevitabilità delle sue dimensioni, ma la proiezione, l'espansione, la vastità di ciò che è racchiuso, contenuto dentro questi limiti, è a perdita d'occhio, al di là di ogni misura, oltre l'inimmaginabile.
Sono le forze creative, latenti, ma vie vitali, nel tessuto della propria interiorità, sicuramente sempre in attesa di manifestazione, come per una rivelazione, del proprio vero se stessi.
Non ci avvediamo spesso quanta fatica di riduttività della nostra autentica identità, operiamo alla programmazione e alla quotidianità del nostro vivere: e sempre perchè c'imponiamo e spietatamente, precedenze e antecedenze di concretezza, di praticità ecc.
Il mondo moderno è il finanziario, il profitto, il politico: tanto per accennare parole che significano e impongono quel restringersi dei valori umani alla contabilità puramente aministrativa.
È il tempo in cui sembrerebbe che potrebbe non esistere il cielo azzurro. Le stelle e le galassie a popolare gli spazi di meraviglia. Potrebbero non fiorire i prati a primavera... Difatti può marcire d'inquinamento l'atmosfera e l'acqua del mare e dei fiumi. Può avvenire la distruzione del mondo e lo scomparire della vita...
Ecco il perché del fascino dell'utopia... E la sua enorme valenza politica.
È indiscutibile che ogni valore può e deve essere tradotto, concretizzato, reso storia dalla politica.
Perché politica non è propria del Palazzo e tanto meno strumento raffinato o violento di dominio, d'oppressione, di sfruttamento...
Politica è anche e sopratutto ricerca di rendere vita vissuta, individuale e collettiva, i valori essenziali, costitutivi di questo mistero che è ogni uomo e la collettività intera. .
È politica dell'utopia raccogliere l'infinito nel palmo della mano, rendere il mistero poesia, dilatare la visione oltre l'orizzonte, il potersi perdere nel dolce labirinto dell'amore...
È politica dell'utopia vivere concretamente lo spazio fra la nascita e la morte con un avventura che non sia camminare fra le pietre, ma anche e particolarmente fra le stelle...
È utopia se resa concretezza dalla forza e dalla politica, che può svecchiare la decrepitezza della storia, logorata e dissanguata, in novità di primavera del mondo dove al posto dei missili crescono vigorose le sequoie, come cantava Tagore.
Non è un sognare l'impossibile, ma semplicemente l'immaginario del come tutto dovrebbe essere per rispondere alla propria verità e percepire la vera identità delle cose. L'utopia in questi nostri tempi è lo sfrondamento, la liberazione, la purificazione delle incrostazioni (è parola alquanto benevola) che il cosiddetto progresso, economico, scientifico, tecnologico ha infiltrato nell' orbe terraqueo e specialmente nel tessuto culturale dell'uomo, dei popoli, delle civiltà.
È un fatto però che l'attacco frontale contro questa alienazione che ormai imperversa come normalità di storia, è impensabile.
E di dove potrebbero sopravvivere le forze (ideali, culturali, individuali, collettive?) per rovesciare il cemento armato e fare posto alla fioritura dei prati.
Dai quattro venti del mondo non si intravede di dove possa spuntare la Speranza. I tempi delle grandi ventate storiche, delle emigrazioni di civiltà, sono definitivamente tramontati.
Soltanto l'utopia, questa traslazione di valori non esistenti in una volontà e quindi in una ricerca appassionata, di consistenza di traduzione del concreto, nella storia, nella cultura, nell'impossibile, forse perfino nell'assurdo, è forza capace di rovesciare i destini dell'umanità e smuovere e sgretolare quell' imprigionamento soffocante dell' espansività del vivere umano che la civiltà del profitto, del finanziario, del potere politico, culturale, religioso ecc. sempre più stringe nella sua morsa di disumanizzazione impietosa e progressiva.
È tempo in cui è urgente, vitale, ricominciare a sognare.
Certamente, prima di tutto, il sognare della propria interiorità, coscienti che il mondo, la vita, la propria dignità e identità, ha inizio e si dilata dalla propria interiorità, dal se stessi più profondo.
Le utopie ne sono il respiro, la provocazione, il fascino.
Il coraggio personale sta tutto qui, nel tentativo, a costo di tutto, di rendere concretezza, realtà, vita vissuta, esistenza storica... tutto quello che palpita nel profondo dello spirito, che nel segreto viene giudicato valore stupendo, tutto quello che nei momenti di trasparenza (e chi non ne ha?) e di liberazione, crede che qui è veramente l'uomo.
Qui e unicamente è umanità.
Rimane il problema e è fondamentale, di dare all'utopia la forza di azione politica.
Se quando l'utopia si calerà nella storia e affronterà lo scontro con questa civiltà del concreto, allora l'utopia risulterà un progetto e una lotta politica, come mai forse nella tormentata vicenda umana. Perché l'utopia assumerà i valori costitutivi, creativi di umanità e li trasformerà nell'aria da respirare, nella strada sulla quale camminare, la casa dove abitare... La Pace, l'uguaglianza sarà uguaglianza, libertà, libertà, l'uomo veramente uomo e anche Dio seriamente Dio...

Utopia fattasi storia

Il recente referendum è stato occasione e provocazione di contrasti, valutazioni, di amarezze stupide ed esaltazioni artificiose. I partiti sono capaci di tutto meno che di onestà e serena oggettivi-tà. Le troppe astensioni ne sono l'accusa.
Non mi è possibile però nascondere la giusta soddisfazione di vecchio antinuclearista. E non è tanto per la vittoria (è sentimento sciocco se in contrapposizione alla sconfitta) ma unicamente perché l'utopia iniziata a palpitare nei sogni di trent'anni fa sulle piazze, a Capalbio, a Montalto di Castro, a Caorso, sulle timide paginette dei giornaletti della Nonviolenza, dei pacifisti, dei gruppi più o meno sparuti e dipinti delle manifestazioni, a fare folclore antinucleare, rischiando giudizi di pazzoidi, di arruffoni del buon comportamento politico, della saggezza lungimirante dei partiti, preoccupati per questa manica di urlatori decisi a riportare l'umanità, dal progresso dell'Enel, al lume di candela...
Fu pesante a quel tempo l'utopia e carica di angosciosa perplessità a decidersi di farsi manife-stazioni di blocco delle strade, del traffico ferroviario, di scontri con la polizia: questa fatica pazzesca di infiltrare l'utopia dell'antinucleare nell'opinione pubblica, nelle centrali del Potere, nei sacrari della scienza e del progresso...
Fu assai dura e lottata con passione, la vittoria al Tribunale di Grosseto con piena assoluzione per manifestazioni non autorizzate e blocco ferroviario.
E amarissima, sconcertante, in sede di Corte d'Appello a Firenze, la condanna a sei mesi di carcere e cinque anni di condizionale: e la Legge credette in quel mattino piovigginoso di aver respinto ancora una volta l'utopia a vagare nel mondo dei pazzi e a garantire così la libertà di progresso all'inciviltà criminale del nucleare. Ecco che quell'utopia adesso è diventata la Legge, orgoglioso motivo di civiltà, provocazione a ricerche scientifiche risolutive: a piani energetici a misura di uomo e di rispetto ecologico...
Quando l'utopia dal mondo dei sogni, dove logicamente nasce, si matura, acquista possibilità e sostanza d'autentico valore di umanità, a poco a poco, ma irresistibilmente, scende, si cala, entra nel tessuto di vivere umano, quindi diventa movente, provocazione politica, allora l'utopia diventa l'unica forza capace di rovesciare l'impossibile e di rendere concretezza il sogno.
Questa sul nucleare è la prima violenza, non violenta, che dimostra che l'utopia è questa forza nascosta nell'idealizzazione, nell' immaginario, nella fantasia, nel sognare l'impossibile nell'inconscio del cuore dell'uomo, dell'umanità.
E può tradursi quest'utopia in concretizzazioni giuridiche, di ordinamenti sociali, d'imposizioni economiche, di limitazioni e abolizioni militari: può cambiare, rovesciandola la storia e le leggi e la cultura che con assoluta prepotenza stavano dominando e determinando il vivere e il convivere con padronanza assoluta e arrogante.
Ora aspettano al varco dell'ingresso nella storia altre utopie come primi sogni della notte.
Il cammino può essere lungo ma anche breve. Dipende da come e quando il grande potere, le ragioni di Palazzo, la violenza del profitto ecc. saranno costretti dal dilagare delle utopie, antichi, frustrati, e sempre risorgenti sogni d'umanità, a prendere atto che i tempi sono e stanno cambiando, l'utopistico, l'impossibile, può diventare realtà, carne e sangue e anima di uomo e di donna, di popoli, di storia di umanità.
È il tempo in cui l'utopia è come la scintilla caduta dal cielo e dà fuoco alla foresta
La piccola goccia di rugiada che il primo raggio di sole al mattino trascolora in oceano.
È come un bambino, l'utopia, che piange e sorride, ma cresce inarrestabilmente...
Quest'utopia, adorabile come il sogno di Dio e che si chiama con mille nomi: Pace, Uguaglianza, Libertà, Dignità, Fraternità... ma specialmente il suo vero nome è Uomo.

don Sirio

Lettera di fratel Arturo

Cari amici dell'Italia,
Sempre lascio l'Italia con una spina nel cuore, perché la separazione sarà sempre dolorosa, ed è una dei segni di quella rinunzia al proprio "io" che Gesù lealmente chiede a chi decide si seguirlo, e forse non è il più doloroso. Sono sbarcato a Rio de Janeiro, dove ho passato due giorni riposanti, incontrando amici che mi hanno avvolto della loro cordialità così calda in questo sud del mondo, da cancellare ogni residuo di tristezza.
Uscendo dalla casa che mi ospita, m'imbatto in bambini macilenti che emergono da scatole di cartone dove hanno trascorso la notte. A venti minuti da qui c'è Copacabana la spiaggia, la mondanità, la nudità pulita all'epidermide qualche volta più veramente sporca del sudicio che appare sulla pelle di questi ragazzi, Una mattina, percorrendo una straducola molto simile a quella dei bassi di Napoli, per recarmi a una casa religiosa, mi è apparso improvvisamente nel fondo lo scenario del Corcovado: sulla cima emergeva poco a poco il Cristo redentore. Un Cristo lontano, turistico, che questi poveri ormai non guardano più. Il Cristo vicino cammina per queste straducole e si dà a conoscere solamente se abbiamo il tempo di sedere con lui con questi poveri che circolano per la Rio proibita, e mangiamo il pane che lui spezza per ciascuno di noi. Mi sono sentito stringere di angoscia pensando di non avere una casa dove costringere l'ospite ad entrare, e mi sono sentito sciolto solo quando mi hanno telefonato che le famiglie del barrio mi attendono con impazienza, "con saudade", suona con intraducibile parola portoghese che racchiude tristezza e gioia, il rimpianto della lontananza e la gioia di rendere vicino colui che è lontano. Non mi hanno dimenticato, mi accoglieranno e posso uscire di casa e camminare per queste strade e sorridere a questi bambini che noi escludiamo dalle nostre case per mantenerle pulite e in ordine. Purtroppo devo differire il ritorno, perché da Rio parto per Caracas a vedere gli amici venezuelani. I miei viaggi mi fanno pensare al fratello Paolo e vorrei come lui, essere un mezzo di comunicazione fra le varie chiese. In Italia ho parlato di complementarità delle culture e di una comunicazione fra gruppi che vivono esperienze storiche diverse, per superare un tipo di relazione verticale assistenzialista che, invece di favorire la pace, scava sempre più profondo il solco della separazione. Se veramente vogliamo la pace, e la nostra collaborazione alla pace va oltre i sospiri e le iniziative idealiste che non calano nel concreto della storia, bisogna cercare tutti i modi di favorire questa comunicazione che deve produrre il frutto di una vera comunione. Mi colpirono molto le parole che vidi scritte sulla copertina di una rivista "pentirsi della conquista". Anche il pentirsi potrebbe restare sterile, se finisce in tre colpi sul petto: bisogna cancellare un tipo di relazione inaugurata alla conquista e trasmessa come metodo di relazione, ormai accettato passivamente e incrostato nella nostra cultura.
Quanto a me, nella mia vita, ho scoperto che, per resistere psichicamente a tanti cambiamenti e a tante successioni, la sola condizione è quella di mantenere una unità interiore, evitare di perdersi nella moltitudine d'interessi, respingere le sollecitazioni che ci vengono da situazioni nuove che emergono dal succedersi di ambienti diversi. Ho notato in quest'ultimo viaggio di essermi stancato molto meno del solito, perché mi sono avviato a questa specie di quiete interiore e di raccoglimento nell'uno necessario che in fondo è l'amore che si offre nella sua opportunità concreta. Fino a qualche anno fa desideravo con una certa inquietudine, uno spazio stabile, una specie di stabilità monastica per dedicarmi con più libertà e forse più comodità, alla preghiera e alle attività sedentarie che mi hanno sempre attratto. Ora lo penso meno e con più calma e distacco.
Dopo il soggiorno in Venezuela, verso il 24 del mese, andrò da don Pedro Casaldaliga il Vescovo poeta dell'Amazonia con cui stiamo preparando un libro di spiritualità. Pedro è una di quelle persone che fanno riflettere seriamente alla radicalità del Vangelo: la sua stessa figura fisica che porta i segni evidenti di una vita povera e appassionata, è un richiamo permanente all'esclusività che Cristo richiede da chi manifesta il desiderio di seguirlo. Dialogando con lui, mi fa da sottofondo musicale la frase della beata Angela da Foligno: "Non ti ho amato per burla" e Pedro avrebbe il diritto di dire: "Non ho scherzato con l'amore" eppure la sua radicalità non ha cancellato per nulla la sua umanità che definirei travolgente: è poeta e per questo conosce il segreto di liberare il suo cuore dalle strette angosciose che gli procura la sua missione di Vescovo in terra di conflitto, e di lasciarlo portare sulle ali della fantasia. E l'umorismo, segno evidente di equilibrio e di saggezza, smorza sempre quel senso di ammirazione che farebbe sorgere la sua ammirevole vita. Nonostante lo abbia visto piangere, l'immagine che porto con me è quella di un uomo che riposa costantemente in Dio. Se viene in Italia, vi chiedo di non mostrargli queste righe, perché non gli piacerebbero. In fondo non so se gli farebbero dispiacere, perché pensare che Pedro possa essere raggiunto dalla vanità, vorrebbe dire conoscerlo solo da lontano.
Poi tornerò a Foz di cui, come vi dicevo sopra, mi sono giunte le voci. Finalmente il Natale con i miei; ma chi sono i miei? Questi viaggi mi fanno scoprire la vastità della nostra famiglia. Raggiungere i suoi spazi non vuoi dire perdere l'intensità del'affetto che ci unisce: quanto più aumenta lo spazio dell'amicizia, tanto più cresce la profondità dell'amore che ci unisce. E faccio l'esperienza che la morte non è triste quando ci troviamo circondati da amici. Come spostando continuamente di luogo, mi accorgo di non lasciare nessuno, cosi morendo, penso di non lasciare nessuno. Carlos il compagno argentino che mi accompagnava nel mio viaggio in Italia, è rimasto molto soddisfatto di incontrarsi con molti di voi: credo che abbia potuto constatare che il nostro nazionalismo e illuminismo cartesiano, che è visto un po' come il motivo della relazione nord-sud così disumana, non ha distrutto completamente il nostro cuore; e anche nell'emisfero nord esistono persone che hanno conservato una grande capacità di amare. L'ho visto partire dal Brasile un po' cupo, perché aveva la coscienza di andare nell'accampamento nemico, e tornare sereno, perché in questo accampamento ha scoperto degli amici. Gesù ha sentenziato che un regno contro lo stesso regno è destinato a polverizzarsi, e tutti speriamo che il regno della dominazione, della disuguaglianza della non-fraternità si polverizzi presto e si manifestino i segni del regno di Dio. Penso spesso ai violenti colpi di piccone che buttano giù i fregi barocchi e fanno apparire nella sua bellezza elegante l'edificio originale che un criterio discutibile di bellezza aveva nascosto sotto una fastosità apparente. Ma non dimentichiamo che il ricordo di Carlos è stato evocato perché egli desidera unire i suoi saluti cordiali ai miei.
Vi abbraccio con vera amicizia e arrivederci.

Aturo

Un'utopia per la Chiesa

Per noi, ma non sto qui a chiarire chi siamo questi noi, pensare, riflettere, lavorare d'intelligenza, fare cultura; ricerca teologica, coinvolgersi politicamente, lottare socialmente ecc. ecc. in fondo è sempre unicamente raccontare.
È vivere cioè la grande avventura prima di tutto nel proprio mondo interiore, in quella spaziosità dell'immaginario assai più vasto della volta del cielo dove perfino le galassie ridimensionano la loro immensità e ugualmente nella profondità del mistero umano e della storia che inizia prima dell'inizio e continua ad esaltare e sgomentare, fino alle misure che sembrerebbero estreme, di questo nostro tempo.
Non è come sembrerebbe, eccezionalità questo vivere nella propria interiorità, l'universo: è semplicemente saper guardare la realtà, qualunque essa sia e l'immaginario, pazzo quanto si vuole, dentro di se, come in uno specchio. Portiamo tutti la capacità e insieme, quando non viene annebbiata, la trasparenza, perché la realtà dell'esistenza si rifletta in noi donandoci la possibilità di raccontare.

IMPORTANZA DEL RACCONTO
È questo raccontare, la vera e propria narrazione, che svela e manifesta i pensieri, le idee, i progetti, quest'animazione invisibile eppure determinante delle scelte, delle vicende, dello svolgersi, del dipanarsi del vivere la vita.
Il racconto della propria storia, insignificante o interessante che sia, significa che niente è avvenuto per caso ma per una preordinazione maturatasi dentro di noi, fino ad imporsi, a diventare inevitabile perché identificatasi con noi stessi.

IL SINODO
Pensavo e rigiravo dentro di me queste riflessioni che del resto mi sono molto familiari direi quasi come il mio respirare, nei giorni passati, durante il Sinodo dei Vescovi, a Roma, sul ruolo dei laici nella Chiesa.
Non ho nessuna intenzione di entrare in questo assurdo problema che fondamentalmente non dovrebbe essere nemmeno posto se la incontenibile e incessante sopraffazione del clero non l'avesse reso e con questa precisa programmazione, una impossibilità di soluzione.
Tanto meno avrei voglia di tentare chiarimenti teologici, più ancora evangelici, motivazioni intelligenti - un po' più intelligenti - pastorali, dati anche i tempi ecc.
Ho letto più che è stato possibile alla mia disponibilità, le prolusioni gli interventi, i documenti ecc. Ho seguito lo "spettacolo" delle cerimonie, così miseramente intenzionate, liturgiche e assembleari ecc. Discorsi, qualche piccolo, fraterno scontro, accenni di perplessità e insoddisfazione su tutto e su tutti la dolce nebbiolina ad ovattare ogni novità, ad arrotondare qualche angolo, a ristabilire con fermezza carismatica, come si conviene, la permanenza immutabile della Dottrina della Tradizione, da parte del Papa.
Molto bene, cioè non ne discutiamo, non solo perché è inutile data l'impossibilità, almeno attualmente di una qualsiasi novità, ma anche perché è dolorosamente chiaro, nonostante il Concilio Vaticano II, che i tempi, "i segni dei tempi". non hanno alcun potere nei confronti del clero, un mondo arroccato con ponti levatoi ovviamente manovrati dall'interno, come il sinodo recente ha ampiamente dimostrato.
Quindi niente ricerca culturale, assolutamente nemmeno l'ombra di una polemica, tanto meno l'ardire o la sciocchezza di avanzare idee, proposte ecc.

ALLORA IL RACCONTO
Però non può non essermi concesso il racconto, il raccontare.
Cioè quel ritornare indietro seguendo un filo conduttore, raggomitolandolo, a poco a poco, fino ad arrivare all'inizio, al punto di partenza. Può essere che ritornando a quel punto sia possibile capire tutto il racconto, per quanto strano possa apparire.
Ciò di cui vorrei raccontare è come è successo che io prete (era il 2 maggio 1943) a poco a poco, ma progressivamente, mi sono ritrovato ad essere sempre meno prete. Non so se questa patina ecclesiastica mi si è incrostata addosso. Forse nei primissimi tempi del fervore novello, ma i tedeschi del '44 fecero un buon lavoro di riduttività di ogni privilegio clericale. Poi subito dopo la parrocchia e la parrocchialità è sempre micidiale per rendere clero anche i sacrestani. La responsabilità delle anime, la disponibilità del Cielo e della Terra e quindi l'autorità.
Ho una memoria angosciosa dell'autorità per il semplice motivo che mi dovevo sforzare per sentirmi un'autorità e gestirla quest'autorità comportandomi come uno che conta, sa le cose, può e deve dare consigli, programmare e vigilare. Questa storia del vigilare mi era praticamente impossibile, diventava tutto un artificio che metteva in gioco la mia sincerità.
Non sto a raccontare la devozione per me della gente. Quella considerazione profonda, l'ascoltarmi con assoluta fiducia, l'affidarsi, quasi consegnarsi a me, perche io avevo in me, nelle mie mani, il potere, il potere sacro, sacramentale, il potere della parola, il potere della cultura, il potere politico... Ero uomo da piedistallo e poggiavo i piedi sull'umano e sul divino. Prete, sacerdote, ecclesiastico, chiesa... Così tanto che sotto tutte queste bardature civili, ecclesiastiche, spirituali, liturgiche ecc. spesso non avvertivo l'uomo semplice, libero, immediato, fatto di carne e di sangue, come tutti. Avevo profonda la sensazione di essere uomo di Dio e non quella, o almeno anche quella di essere uomo, concreto, pratico, fatto di quotidianità e di progetto.

PRETE SI EPPURE PRETE NO
Dunque mi trovavo profondamente a disagio, come fuori dalla mia strada, a fare il prete perfettamente in linea (o quasi) con il mondo ecclesiastico, dentro quelli schemi obbligati, quelle vie segnate e inconfondibili del Diritto Canonico, della Pastorale stabilita.
Prete o per essere più chiaro, sacerdote, sì, e a gran cuore, dal più profondo dell'anima, sicuro, sempre, che questa realtà di vita, era la mia unica vera ragion d'essere, il mio caro, adorabile destino.
A un certo punto (la mia maturazione si è andata poco per volta, assolutizzando) è stato inevitabile, si è imposta la necessità, prima e poi logicamente nella realtà pratica, di smontare pezzo per pezzo, la mia costruzione ecclesiastica. Il prete si è andato dissolvendo, il prete ecclesiastico e nel frattempo è andato costruendosi il prete-uomo o se si vuole, l'uomo-prete. È il tempo della decisione, chiara e netta, senza eroismo e bisogni di eccezionalità, di fare il prete-operaio.
È chiaro che a 36 anni, uscire dalla canonica, dalla parrocchia, dalla sicurezza a tutti i livelli del mondo ecclesiastico, dal circolo chiuso e ben difeso dei privilegi ecc. e andare a fare il manovale specializzato in un cantiere navale, la rottura fu totale. Il prete scomparve e così tanto che non era facile ritrovarne i segni caratteristici se non leggendo in fondo all' anima e scoprirne le profondità dove è sempre facile e possibile incontrare il Mistero di Dio.
È così la continuità della storia, un raccontare che investe e coinvolge Dio, Gesù Cristo, la Chiesa, il Regno di Dio, e quindi la libertà, la giustizia, l'uguaglianza: cioè il vivere insieme, dove la distinzione, la separazione, la differenza non esiste e è sacrilegio, tradimento che esista.
Il mio raccontare in fondo è raccontare camminando per la stessa strada di tutti, vivendo l'identica avventura, pagando gli stessi prezzi, lottando per le stesse liberazioni.
Ciò che accomuna appassionatamente è la Fede in Gesù Cristo e l'Amore per l'umanità. Il prete che è soltanto prete non può essere cristiano, sarà sempre e soltanto un prete.
Il gran problema che opprime e soffoca la Chiesa, Popolo di Dio, è soltanto questo che i preti (leggi anche Vescovi, Cardinali, Papa) non sanno, non possono, non vogliono essere che preti, vescovi papi. E perché questa possibilità-volontà non incontri complicazioni o possibili difficoltà, i laici, cioè gli uomini e le donne, non devono (ragioni divine o no) avere poteri, privilegi o tanto meno l'immagine del prete, l'uomo consacrato ad essere diverso, inimitabile, al di sopra, chiuso e ravvolto di mistero...

CLERO E LAICI
In questa realtà tipicamente propria di una religione (il cristianesimo non doveva essere una religione) la distinzione fra laici e clero è indispensabile.
Così la separazione, la differenza. Anzi tutta la forza, la potenza dell'istituzione è direttamente proporzionale alla solidità di questi piani e alla loro scrupolosa organizzazione. È così anche l'esercito, per l'organizzazione dello stato, in una azienda, per esempio una multinazionale ben organizzata ecc. ecc.
Gesù forse pensava e immaginava (sognava con adorabile utopia) che la sua Chiesa sarebbe stata fondata sul servizio non sull'autorità, sui piccoli non sui potenti, sugli ultimi e non sui primi ecc. Lo so che sono aspirazioni come sospiri di nostalgia, sogni antichi, anche se sempre nuovi, utopie pazze, ideali assurdi...
Va bene, ma io ho il mio racconto pratico, la mia follia concreta, scelte, fatti, vicende avventure, realizzazioni, vita vissuta, duramente pagata... e questo racconto è tutto un progetto: un progetto assurdo, d'accordo, come tentativo di concludere una storia e iniziarne un' altra, rovesciare posizioni e sistemi ormai assolutizzati, credere che l'impossibile diventi possibile.

L'UTOPIA
Perché è qui il mio racconto, io ho creduto, umilmente e ingenuamente, che il gran problema del rapporto fra il clero e il laicato potesse essere affrontato e in parte risolto, attraverso un cambiamento radicale del clero.
Abbreviarne le distanze, cancellare le differenze, spazzar via i privilegi, camminare sulla stessa strada, essere uguali o meglio ancora sotto i piedi di tutti, essere gli ultimi, senza diritti e solo con infiniti doveri... non essere più preti, clero, mondo ecclesiastico, ma semplicemente degli accattoni della bontà altrui, dei coinvolti e possibilmente dei travolti dalle lotte per la libertà, la giustizia, la testimonianza di una alternativa che si chiama Regno di Dio al regno degli uomini...
Il mio racconto, insignificante ma chiarissimo di Fede e di Amore alla Chiesa. L'essere operaio ha voluto dir questo, prima di qualsiasi altra cosa: togliere via una qualificazione, quella di essere prete eppur rimanere serenamente prete, uomo di Dio, fratello universale. Come lasciar cadere una maschera, un paludamento, una "divisa" e ritrovarmi, come solo, io, allo scoperto, con tutta la mia Fede e quella misteriosa carica di Amore fraterno, appassionata e inesauribile.
Il racconto può essere, è lungo quanto tutta la mia vita sacerdotale e il raccontarlo richiederebbe lunghe serate intorno al caminetto come nelle novelle del nonno.
Lo so che non è stato accettato durante l'avventura e tanto meno può essere gradito il racconto "quando ormai si fa sera" e non solo individualmente, ma anche nella Chiesa.
Allora i Sinodi per dibattere la spinosa questione del clero e del laicato: ma è perché tutto rimanga e si solidifichi così: il clero, il clero e i laici, laici.
E cioè come dire: amici e nemici. Potere e servizio. Autorità e popolo. Il monumento e il piedistallo. Il carro e chi sta sul carro e guida l'asino che rassegnatamente da millenni tira il carro e tutti coloro (sono tanti) che vi stanno comodamente adagiati.

Sirio Politi

I diritti dei più piccoli

È un periodo di tempo che sulle pagine dei giornali compaiono con maggiore frequenza cronache di tristi delitti di violenza verso bambini ed adolescenti. Non so se sia possibile confrontare statistiche e trarre deduzioni su questo complesso e complicato nostro modo di vivere; certo è che l'attenzione ai diritti di categorie fino a ieri ritenute solo appendici degli adulti è sicuramente un fatto tipico del nostro tempo.
Mi appassiona la battaglia per i diritti quando essa ancora prima di rivestirsi di fredde, ma necessarie, norme giuridiche, espone la lotta per orizzonti allargati, spazi liberati, sogni di uguaglianza e libertà. Affermare i diritti della gioventù può apparire quantomeno imprudente oggi al momento che noi constatiamo come una "certa" gioventù fa assolutamente quello che vuole. Ed al bambino di pochi mesi è dato di scegliere anche il colore delle scarpine. Tuttavia è generalizzazione che non rende di fronte alle terribili cifre di un'umanità che ogni due secondi sacrifica un bambino sugli altari della religione politica e di quella economica.
E la libertà più sfrenata spesso altro non è che ammissione da parte degli adulti di un fallimento totale dal punto di vista educativo e peggio, di volontà fredda e crudele di sfruttamento del capitale di energie, fantasie, sogni che la gioventù alimenta per la vita e il denaro piega verso la morte.
Ma se l'affermazione dei diritti è fondamentale in quanto certificazione di esistenza, autonomia e pienezza di soggettività, mi sembra sia importante arricchire la lotta rivendicativa di itinerari segnati da rapporti che al rispetto dei diritti fanno riferimento, ma, nello stesso tempo ricamano nel quotidiano un vissuto dove i diritti si intrecciano con i doveri. Parlo di diritti e di doveri non per circoscrivere i comportamenti dentro i confini di una moralità esteriore o legalistica, ma per individuare con un'espressione tradizionale l'incontro tra assunzione di responsabilità e pienezza di soggettività che caratterizza l'essere autenticamente "libero".
Così partire dai "diritti" significa attribuire ad ogni "diverso da me" la stessa pienezza di soggettività che, sia pure con espressioni diverse, ma non di per se contrastanti, permette di intrecciare relazioni liberanti partecipazione, solidarietà, comune progettualità.
In un mondo complesso come quello in cui viviamo, facile alle strumentalizzazioni, alle prese di posizione di comodo, ai trasformismi più spregiudicati, le carte dei diritti che stanno nascendo e che lentamente stanno affermandosi nella coscienza popolare, costituiscono un punto di riferimento comune, una base di verifica che permette il discernimento nella molteplicità delle forme e dei rapporti che si vivono oggi.
Perché l'affermazione dei diritti non risulti solo dichiarazione verbale è necessario anche dotarla di strumenti perché sia possibile concretizzarla, almeno nelle istanze fondamentali. Ormai questo fa parte della consapevolezza di chiunque si muove sul terreno della partecipazione: inutile e avvilente quest'ultima se non è sorretta da reali possibilità di giocare un ruolo a livello istituzionale.
Mi pare questa la fase più difficile eppure decisiva di una lotta per una diversa democrazia, di uno stato di diritto soffocato da politiche economiche maldestre che finiscono per premiare la confusione dell' approfitto di singoli gruppi e quindi il diffondersi di una coscienza che ne fa il principio di ogni diritto.
Nei confronti dell'infanzia e della adolescenza si sprecano le parole ma si è molto "tirati" nell'impiegare energie se non quelle che producono incentivazione dei consumi specifici di massa e quindi in parole povere rendono quattrini. Si lavora sulla gioventù. E magari questo si limitasse allo sfruttamento di una delle tante fasce deboli di questo nostro sistema!

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Mentre scrivo queste cose vedo che sto sorridendo (o forse meglio sogghignando) di me stesso.
Questa mia pretesa di analisi sbrigativa, forse assai demagogica perché appunto sommaria, riguardo ai fenomeni che ci interrogano ogni giorno con gli occhi arroganti della. disperazione, non vuole essere altro che una dimostrazione di pazienza e di fiducia nella razionalità. Nello sforzo continuo di gente che crede ed impegna ogni energia in una rete sottile, ma resistente, di sostegno e solidarietà. nella fiducia, gettata oltre la siepe della cinica resa, di un cambiamento e di una novità. So che ogni diritto sarebbe inutile parola scolpita su vuoti frontali se non ci fosse l'anima di un popolo. Un popolo, nel nostro caso, spesso scompaginato e disperso che parla però il linguaggio di una umanità che aspira ad orizzonti diversi da quelli chiusi del profitto e della giustificazione di sé. Gente che parla linguaggi diversi, spesso così diversi da generare assurde gelosie e lotte intestine, piccole misere imitazioni delle autentiche lotte per il potere. Gente però capace di una qualche protesta a lampeggiare qua e là un cielo altrimenti troppo grigio e uniforme. Una battaglia per i diritti può dare un minimo di linguaggio comune per interessi comuni, per aggregazioni ormai lontane da quelle determinate dalle aree ideologiche...
Mi sembra però che la pazienza, l'attesa, la razionalità ed anche quella parola che ormai si trova in ogni discorso e cioè la laicità siano tutte sfaccettature - quando sono e spesso sono autentica vita vissuta e spesa con ammirevole generosità - di una stessa condizione di povertà. Dignitosa, umana, estremamente vera, la povertà è come una bocca aperta da indicibile fame che non esprime, non urla, non richiede: "è" parola, urlo, domanda, attesa silenziosa eppure così tremendamente espressiva: la povertà è condizione di presenza de "l'altro", Ed anche quindi "condizione" di profezia. Una profezia donata da chi legge nel cuore della storia degli uomini.
Con la nostra razionalità sappiamo se dare retta o meno ad Erode. Questa razionalità-povertà ci fa seguaci della stella, sapienti impegnati di diverse contrade e lingue e di modi di vivere. Vivere con i giovani ci dà di accogliere il bambino nella novità di un rapporto dove sia verità di carne e di sangue e non sentimento, illusione o fantasia che "il più piccolo tra di voi sia come il più grande".

Luigi

Le radici della mia non violenza

Mi è capitato molte volte di riflettere sui motivi profondi della mia totale avversione per tutto ciò che appartiene alla realtà militare, al mondo della armi e di tutte le organizzazioni di ogni tipo che su di esse fanno affidamento, per ragioni di istituzione e di mestiere. Vorrei cercare di mettere allo scoperto questi motivi nascosti nell'intimo dell' anima, nelle radici dello spirito, dove sicuramente confluiscono i mille rivali di quel fiume straordinario ed irripetibile che è la vita di ciascuna creatura. Così anche per la mia vita ho sempre pensato che ci dovevano essere motivazioni legate alle vicende della mia esistenza, al cammino concreto in cui essa si è svolta fin qui, alle scelte interiori, alle convinzioni di fede, alla volontà di appartenenza alla condizione umana a partire da una precisa scelta di campo. lo scrivere queste cose è occasione e motivo anche per me di tentare una specie di "analisi", di lettura interiore di tutto un desiderio di nonviolenza, di amore alla vita, di appassionata volontà di pace e di fraternità, di sogno di un'umanità dove non ci sia più il rombo del cannone, lo sferragliare dei carri armati, le caverne dei silos che nascondono missili atomici, i sottomarini o gli aerei supersonici continuamente all'erta, per ogni evenienza. E così le caserme, i generali, la truppa, le fabbriche di armi, le parate, i cacciamine e le corazzate in azione sui mari...
C'è una prima ragione ("Prima", per me, per importanza, per significato, per consapevolezza) ed è quella che nasce dalla mia fede in Gesù Cristo, dal modo in cui mi è sempre apparso il suo messaggio e tutta la sua vita, così come mi è stata possibile raccoglierla attraverso le pagine dei Vangeli. La storia di Gesù nella sua limpida trasparenza, è il motivo di fondo, la prima radice da cui piano piano, lungo il filo degli anni, mi sono sentito crescere nel cuore la sicurezza che il Cristianesimo non può essere vissuto se non superando concretamente lo schema amiconemico che è l'asse portante di tutta la logica militaristica.
La giustificazione di tutti gli apparati militari, di qualunque epoca "cristiana", poggia essenzialmente sull'accettazione della validità del principio della lotta contro i nemici, anche a prezzo della loro distruzione violenta. L'accoglienza del' messaggio evangelico come motivo di orientamento e ragion d'essere di tutta l'esistenza, mi ha portato quasi senza accorgermene al di là di tutti i fili spinati che da sempre hanno separato gli uomini, fino a rendere "normali" le terribili stragi di tutte le guerre. Sono giunto alla convinzione chiara che non c'è alcuna possibilità di mettere d'accordo la logica del Cristo morto e risorto con quella in cui affonda le sue secolari radici la "ragione militare".

* * *
C'è anche un altra motivazione che sta prima in ordine di tempo - di quella che ho cercato di esporre nei precedenti pensieri. È motivazione legata al tempo storico, al calendario della mia vita che ha avuto il suo inizio in anticipo di pochissimi mesi dallo scoppio della 20 guerra mondiale.
Le primissime cose che ricordo di avere scoperto nel mondo di cui ero venuto a far parte, sono memorie di guerra. Unitamente ai volti, per me dolcissimi, di mio padre e di mia madre, porto stampate dentro di me figure indefinite di soldati in armi, autoblindo, caccia da bombardamento, fughe nella notte verso "il rifugio", una lunghissima permanenza (quasi un mese) nelle profonde cave di alabastro della zona in cui abitavo... Prima, soldati tedeschi; poi soldati polacchi fuggiti da un campo di prigionia, con tanta fame e neppure un moschetto. Mio padre li tenne nascosti dietro i sacchi del grano, nella soffitta della nostra casa. Un giorno, in un fosso di deflusso delle acque dei campi, ho scoperto - tenuto per mano da mio padre - i primi due americani che ho visto nella mia vita. Erano due paracadutisti, lanciatisi di notte, che tranquillamente facevano colazione con le loro famose scatolette, Ricordo perfettamente il loro sorriso rassicurante e l'invito a mantenere il segreto della nostra involontaria scoperta. Ricordo anche i due grossi fucili mitragliatori appoggiati vicino agli zaini.
Ci sono anche, nel fondo del nastro della mia memoria, immagini perfettamente nitide di sol-dati morti in mezzo alle strade, stesi nella polvere con la faccia rivolta verso terra. E la paura, grande e continua, dei miei genitori e dei vicini di casa, che però non riuscì mai ad entrare nel mio cuore di ragazzino totalmente incapace di percepire il rapporto tra la vita e la morte, così strettamente mescolate. Sono passato in mezzo alla guerra filmando tutto con la sensibilità della pellicola nella mia mente, vivendo con intensità gli avvenimenti quotidiani - sempre imprevedibili - ma non ricordo di avere avuto la sensazione della paura.

* * *
È la prima volta che scrivo queste cose, forse molto banali, simili a quelle che videro in quelli stessi anni milioni di bambini della mia generazione: ma ho avuto voglia di raccontarle perché mi sono persuaso che in esse affondi le sue tenaci radici il mio "istinto non violento", l'avversione quasi viscerale per qualsiasi arma, per tutto ciò che ha un rapporto con il mondo militare, con le insegne e agli strumenti che inevitabilmente mi fanno pensare alla guerra. Non riesco a commuovermi nemmeno ai pacifici raduni dei bersaglieri o degli alpini: dal fondo della memoria subito emergono i lontani ricordi della mia infanzia e li vedo come "uomini di guerra", destinati a fabbricare la morte, per se stessi e per gli altri.
C è uno slogan pacifista che dice: "Ho visto la guerra e non voglio vederla mai più". Forse a me, in quei primissimi anni del mio ingresso nel mondo, è successa una cosa molto particolare: una specie di inconsapevole battesimo nelle acque della non violenza, per una contrapposizione immediata, istintiva, a tutto ciò che di brutto, di spaventoso, di assurdo avevo visto con i miei occhi da bambino. Deve essere nato allora il desiderio insopprimibile di una vita umana non più segnata dalla violenza e dalla pazzia della guerra.
Ho scoperto molto più tardi che la prima bomba atomica fu sganciata quando avevo 6 anni,
Ma per fortuna, ho avuto anche la misteriosa avventura di incontrare - lungo il dipanarsi della strada - il Vangelo di Gesù Cristo. E chissà per quali strane ragioni mi è venuta subito la voglia di lasciarmi portare da Lui sulla strada. Così, fra le tante cose, fra i tanti valori, sogni, proposte, utopie, urgenze, anche la nonviolenza si è riaffacciata, come una cara compagna di viaggio, ai bordi del sentiero.
Mi sono convinto sempre più che non è possibile percorrere la via cristiana senza lasciarsi condurre da lei, senza accogliere le sue radicali proposte di rifiuto chiaro di tutto ciò che in qualsiasi modo racchiuda in se l'amaro sapore della morte imposta, della "morte violenta". E non riesco a rassegnarmi alla cultura del mio tempo (ma che viene da molto lontano) e che cerca in tutte le maniere di trovare giustificazioni, attenuanti politiche o sociali, raffinate e ragionate spiegazioni: una fabbrica di armi non è "un posto di lavoro", ma un cimitero dove si fabbrica la morte. I campi, in qualunque parte del mondo, non li arano i carri armati. E gli eserciti non sono associazioni di volontariato, pie organizzazioni di mutuo soccorso pronte a correre ovunque ci sia un terremoto o un' alluvione... La mia memoria di bambino che ha visto la guerra non mi consente di cadere in simili inganni. Tanto più la mia fede in Gesù Cristo, il suo appassionato messaggio di fraternità e d'amore, la sua incessante proclamazione della paternità di Dio, la sua lotta pagata a caro prezzo per abbattere il muro della divisione e fare una sola umanità. Per questo, non mi arrendo e non voglio smettere di sognare la possibilità di una esistenza illuminata e riscaldata dal fuoco appassionato della non violenza.

don Beppe

A proposito... della diocesi con le stellette

Seguo con attenzione - spesso dissentendo - il giornale Avvenire, quotidiano di cosiddetta ispirazione cattolica: in questo mese di Novembre 11/12/13/14 un susseguirsi di articoli sulla violenza.
LA CHIESA CONDANNA LA VIOLENZA DELL'IRA
L'attentato terroristico di Ennis-Killen ha destato un senso di orrore e repulsione quale l'intera comunità cattolica non provava da tempo.
Chi aiuta i terroristi o nasconde armi, chi aiuta i responsabili di violenza a fuggire, chi si presta all'omertà si addossa le medesime colpe dell'Ira "a tutti costoro noi diciamo molto solennemente che anch'essi sono rei dei crimini d'omicidio". La dichiarazione si conclude con un'inequivocabile sentenza ammonitrice per ogni fedele "È peccato aderire ad organizzazioni votate alla violenza o restarne membri. È peccato sostenere tali organizzazioni o anche fare propaganda presso altri perché li sostengano".

1987 ANNO RECORD DI VITTIME GIOVANI: È EMERGENZA NON HANNO
NÈ LAVORO NÈ MODELLI, ECCO PERCHÈ SI DROGANO:
"Per affrontare con serenità il problema droga - ha osservato d. Luigi Ciotti, del gruppo Abele di Toriru _ non bisogna considerarlo avulso dal rapporto generale che i giovani hanno con la società".

NUOVI CASI DI VIOLENZA SU MINORI, SIAMO IN EMERGENZA
DICE IL MINISTRO RUSSO IERVOLINO.
Nella stessa pagina 7 di Venerdì 13 Novembre; l'ultima tratta di minori scoperta tra il Sudamerica e l'Europa riporta in luce la situazione di estrema miseria in cui vivono milioni di persone nel Sud del globo.
Argentina 30 milioni di abitanti, il 23% dei quali non ha abbastanza per vivere, né cibo né acqua, né servizi sanitari. La unità di questo 23% è costituita da giovani al disotto dei 18 anni.
Il presidente del CID, l'organizzazione che riunisce gli operatori dell'informazione che si battono favore dell'infanzia e dello sviluppo, vive a Buenos-Aires e conosce a fondo la situazione del suo paese l'Argentina, fino a non molti anni fa una delle nazioni più ricche del mondo.
"Nel 1976 - anno di presa del potere della dittatura militare il nostro debito con l'estero era di 5 mila miliardi di dollari. Nel 1986 la cifra è arrivata a 45 mila miliardi. Forse è banale, ma la realtà è che la ricchezza si è trasferita, convertendo il capitale produttivo in capitale finanziario".
E sono naturalmente i poveri a pagare le più drammatiche conseguenze di tutto ciò.
"La situazione interna - seppure migliorata - sconta gli errori e le violenze di tanti anni di dittatura. L'Argentina è l'unico paese dell'America Latina che ha molto più analfabetismo oggi che 20 anni fa... troppi dei nostri bambini continuano a vivere abbandonati nelle strade, come figli di nessuno".

A GENOVA, OLTRE 300 DONNE L'ANNO SUBISCONO VIOLENZA CARNALE.
I casi registrati sono tremila dal 1961 al 1982, ma molti altri non sono stati denunciati.

IERI (12 NOVEMBRE) LA CERIMONIA: L'ORDINARIATO MIUTARE DIVENTA DIOCESI.
L'ordinariato militare italiano ha ricevuto ufficialmente i nuovi statuti che danno avvio alla Costituzione Apostolica "Spirituali Militum Curae" emanata il 21 Aprile 1986 dal Papa. Con il Nunzio Poggi, il cardinale Poletti, Mons. Giovanni Battista Re segretario della congregazione per i vescovi, (gli ordinariati militari dipendono nella maggioranza, proprio dalla congregazione per i vescovi, alcuni però dipendono dalla Congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli) del segretario della CEI mons. Camillo Ruini, era naturalmente presente il vescovo militare generale di corpo d'armata mons. Gaetano Bonicelli, che è stato uno degli artefici del cammino pastorale e giuridico che ha portato alla redazione, di questi nuovi statuti.
Fanno parte di questo ordinariato militare tutti i battezzati che a vario titolo appartengono in modo continuativo o temporaneo alla struttura militare. La diocesi con le stellette ha 558 chiese, 150 cappellani ordinari e 95 ausiliari; le religiose addette agli ospedali militari sono 285.
Mons. G. Bonicelli ordinario militare - vescovo - generale di corpo d'armata - guida, dal 28 Ottobre 1981, di questa chiesa con le stellette, spiegava in un'intervista recente che la nascita di questa istituzione è antica: le radici arrivano fino all'imperatore Costantino (colui che vide prima della battaglia la croce splendente "In questo segno vincerai") che fattosi cristiano introduce nel suo esercito un vescovo e un corpo di sacerdoti. Importante da sottolineare è la dimensione evangelizzatrice che questa presenza sacerdotale compie (Mons, Bonicelli è anche presidente in Italia del centro di Orientamento Pastorale) "con i miei vicari nel 1986 abbiamo amministrato 14 Cresime e numerosi Battesimi; è un servizio che mettiamo a disposizione di tutta la comunità cattolica italiana".
Il l0 Marzo 1986 il papa - ai cappellani convenuti all'udienza - sottolineava che "il compito del cappellano è divenuto oggi più esigente, ma anche più prezioso, per la chiesa e l'intera società... Non sarebbe saggio che la Chiesa trascurasse l'opportunità preziosa di incontro e di dialogo legata al periodo del Servizio Militare. Un periodo di servizio di pace e di libertà "nel doveroso rispetto di legittima scelta alternativa" un servizio che i cappellani sono chiamati a dare in modo particolare perché, sempre per ricordare le parole del Papa "la cura della pace e dunque la sopravvivenza dell'umanità, richiede oggi un'attenzione ed un equilibrio particolari".
Come sacerdoti siete chiamati a dare il vostro contributo a questa buona causa, educando gli uomini, i giovani soprattutto - alla maturità cristiana.
Dal 1976 al 1983 in Argentina l'ordinario militare e i cappellani dovevano sottolineare la dimensione evangelizzatrice di questa presenza sacerdotale nell'Esercito che aveva preso il potere con un golpe militare.
Data l'insistenza sulla Diocesi con le stellette noi vogliamo insistere su alcune pagine da "Nunca Mas'' rapporto della Commissione Nazionale sulla scomparsa di persone in Argentina - un libro che molti miei amici non hanno avuto il coraggio di terminare la lettura per l'orrore e lo sgomento provato alle prime pagine.
"Ai delitti commessi dai terroristi le forze armate vollero mettere fine con un terrorismo molto peggiore, contando, dal 24 marzo 1976 sulle forze e l'impunità dello stato dittatoriale! Si dedicarono, quindi, a sequestrare, torturare, uccidere migliaia di esseri umani.

"CURA DELLA PACE E SOPRAVVIVENZA DELL'UMANITÀ"
"Una volta vidi come un detenuto nudo era sotterrato vivo, lasciandogli fuori della fossa solo la testa; la terra veniva bagnata e poi schiacciata perché fosse più compatta; tale supplizio durava 48 ore. Generava crampi molto dolorosi e infezioni sulla pelle, In due occasioni assistetti a delle fucilazioni in questo campo; a sparare per primo era il generale Antonio Bussi. Egli poi obbligava gli ufficiali di grado più elevato a fare lo stesso... ogni 15 giorni si assassinavano 15 - 20 persone" (Pag. 235).

ECCO LA MORTE COME ARMA POLITICA, LO STERMINIO.
La morte come conseguenza della tortura delle scariche elettriche, dell'immersione, del soffocamento; la morte di massa, collettiva o individuale; la morte premeditata; la morte come conseguenza di lancio in mare dall'elicottero, di fucilazione. "I sequestrati, dopo essere stati fucilati, venivano gettati in una fossa scavata in precedenza. Legati mani e piedi, imbavagliati e bendati, venivano fatti sedere sulla sponda della fossa e nel medesimo istante si sparava loro un colpo." (Pag. 245)

"EDUCANDO GLI UOMINI, I GIOVANI SOPRA TUTTO, ALLA MATURITÀ CRISTIANA"
Un altro fucilato fu Fernando Jara. "Furono pure condotti alla Escuelita 16 ragazzi della UES ognuno dei quali aveva circa 17 anni; furono torturati perché riconoscessero di essere gli autori di un attentato alla Agenzia Ford di Bahia Blanca, avvenuta a metà dicembre del 1976. Solo due di quei ragazzi rimasero con noi; gli altri risultarono morti in uno "Scontro armato" vicino a La Plata." (Pag. 241) Ecco i modelli di vita donati ai giovani dalla dittatura militare! li terrorismo di stato perseguitò con speciale accanimento i religiosi che erano impegnati con i più bisognosi e che sostenevano un atteggiamento di denuncia di fronte alla violazione sistematica dei Diritti umani. Fu così che i sacerdoti, religiosi e religiose, seminaristi, catechisti, e membri di altre confessioni cristiane dovettero soffrire il sequestro, le vessazioni, le torture, la morte.
I responsabili militari della repressione mentre sbandieravano lo stile di vita occidentale cristiano avevano un permanente disprezzo per la creatura umana. Il colonnello J. B. Sasion affermava "l'Esercito rispetta l'uomo in quanto tale, perché l'esercito è cristiano".
L'ammiraglio Massera nel 1976 in una intervista a Famiglia Cristiana: "Però, visto che tutti operiamo spinti dall' amore, che è il cardine della nostra religione, non abbiamo problemi fra noi e le nostre relazioni (Chiesa cattolica) sono ottime, come si addice a dei cristiani" (Pag. 397)
In tempi più recenti (1983) il generale Videla, parlando del rapporto finale sugli scomparsi reso noto all'ultima giunta militare disse che si trattava di un "Atto d'Amore".
"Ci tolsero i cappucci e il Capitano Acosta ci disse che in occasione della festa del Natale Cristiano avevano deciso di farci assistere alla Messa, confessarci e comunicarci se eravamo credenti oppure ottenere una tranquillità spirituale se non lo eravamo: ci invitò a pensare che la vita e la pace erano possibili... nel frattempo si udivano le grida di coloro che erano torturati e il rumore delle catene di coloro che erano condotti al gabinetto... "
"Nel sotterraneo vidi arrivare i sequestrati: udivo le grida dei torturati, il pianto dei neonati in prigionia. Conobbi ciò che era la "guerra sporca" condotta da esseri che decidevano della vita altrui come se si trattasse di semplici numeri, guidati secondo loro dalla mano di Dio che li aveva incaricati del grande lavoro" (Pag. 399).
"Una volta venne nelle carceri il Vescovo Witte, accompagnato dal Capitano Marcò che aveva in braccio il figlio di G. Borelli, nato in prigionia; lei si trovava in un altro settore delle stesse carceri; il Vescovo celebrò una Messa per noi detenuti che eravamo tenuti per un braccio da un carceriere; finita la Messa il Vescovo consegnò ad ogni prigioniero una medaglia e dette un abbraccio che il Papa Paolo VI mandava ai prigionieri politici. Quando giunse il mio turno per l'abbraccio, sussurrai al Vescovo che avvisasse la mia famiglia che mi trovavo lì, che stavo bene e che non si preoccupassero; la mia famiglia non ricevette mai il messaggio". (Pag. 400)
Si vede che il Vescovo Witte era troppo impegnato nelle visite pastorali, nell'amministrazione delle Cresime e non aveva tempo per "L'opportunità preziosa di incontro e di dialogo" con la famiglia di un detenuto politico.
"Molti deliravano. Una volta, mentre dovevo essere torturato, udii Haig (Commissario Generale) che dovevano farli confessare, ed in realtà si riferiva ad una confessione che mi fu richiesta da Mons. Medina il quale mi assicurò che in cambio avrei ottenuto il perdono ed il giudizio. Gli dissi che non avevo nulla da confessare. Mi rimproverò di essere testardo e coloro che si trovavano vicino a lui cominciarono a picchiarmi".
Che abisso tra Mons. Medina (sembra che sia sempre in servizio presso l'esercito Argentino) e Mons. Angelelli Vescovo della Rioja trovato cadavere nell'agosto '76 sulla strada col cranio spappolato, come se l'avessero distrutto a colpi. Aveva detto al suo ingresso nella diocesi "non vengo per essere servito ma per servire, servire tutti, senza differenza alcuna di classi sociali, di modi di pensare o di credere: come Gesù, desidero servire i nostri fratelli più poveri".
Diceva con enfasi il capitano di Vascello Horiaco Majarga in una allocuzione ai suoi militari:
"La nostra istituzione è sana, non è contaminata dalle piaghe dell'estremismo, né dalla falsificazione di un terzo mondo che non dà la vita al vero Cristo, né al tortuoso e demagogico atteggiamento di politici effimeri che ieri hanno adottato posizioni che oggi essi dimenticano".
Noi non vogliamo dimenticare: Nunca Mas = Mai più
Da povero parroco di campagna e fabbro oserei consigliare al Vescovo ordinario. Mons. Bonicelli Generale di Corpo d'Armata, Presidente del Centro di Orientamento Pastorale (ex assistente ACLI) di tener presente per la formazione del Corpo dei Sacerdoti nel suo Seminario di Cappellani Militari, insieme al Vangelo, come meditazione, questo documento terribile e sconvolgente "Nunca Mas" = Mai più.

don Rolando

Signore pietà

Dio, Dio, Dio
ti chiamo, ti adoro, ti amo
sia fatta la tua volontà
nella chiarezza dei cieli
negli orrori della terra.
Non la mia volontà
di nessun uomo,
del potere o della disperazione
della pace o della guerra
dell'economia o della scienza
dell'ateismo o della religione
del ricco o del povero
del vecchio o del giovane...
forse va bene quella del bambino
dell'onda del mare
del ruscello di montagna
del fiore a primavera
degli occhi puri che ti vedono
del cuore libero che ama
di chi giunge le mani e prega
di chi le apre e dona.


Campo della pace

Il progetto di un breve itinerario lungo il quale sia possibile incontrare la pace

Il cammino della storia lungo il suo tracciato fatto di guerre incessanti, sta liberando la Pace dall'orrore della disumanità della guerra, per rivendicare, alla Pace, l'unico vero, essenziale, costruttivo valore di umanità.
La scienza e la tecnologia del nostro tempo, nel loro impazzimento di ricerca e di scoperta di potenzialità di morte e di annientamento fino alla distruzione della stessa sopravvivenza umana, ha costretto la coscienza dell'umanità ad una scelta: o la Pace o la morte universale.
E' questo il tempo in cui la Pace si è manifestata come valore supremo, totalizzante, assoluta.
La Pace è veramente come l'aria che si respira.
La Pace è l'equivalenza di vita, di umanità.

Una città, un popolo dimostra la maturità della sua cultura, la sensibilità della sua coscienza di umanità, la sua volontà di esistenza e coesistenza nuova, unicamente, sulla realtà e nella misura di quanto la pace sia il suo respiro, la condizione dei suoi rapporti culturali, sociali, l'espressione visibile, concreta dei suoi progetti di popolo nuovo.
A questo scopo, se giustamente va rispettata la memoria della storia trascorsa specialmente per imparare l'aspra e dura lezione delle guerre, con particolare cura e passione va resa viva e visibile quella che può, e assolutamente dev'essere, la storia di oggi e di domani, la storia scritta e raccontata non dalla guerra ma dalla Pace.
E' specialmente alle nuove generazioni, quelle alle quali appartiene di diritto il domani e per le quali il futuro è terribilmente in pericolo, che dev'essere dato, quasi toccandola con mano, cosa è la guerra e cosa è la Pace.
Un racconto dove l'arte inventa la parola capace di chiarezza inequivocabile.
Dove il segno visibile e il simbolo possono riuscire a illuminare visioni diverse e nuove di coesistenza pacifica d'individui e popoli, di razze e culture.
Dunque una sequenza visiva d'immagini di Pace, realizzate in opere d'artisti, di fronte alle quali potersi fermare in una sosta, sia pure breve, di riflessione, per raccoglierne il messaggio in un dialogo nel quale la pace sia una parola che illumina e costruisce umanità.

Sono motivi - ma il discorso contiene approfondimenti senza fine - che hanno convinto il Comitato Versiliese per la Pace insieme ad amici particolarmente dotati di sensibilità umana e artistica, a progettare la realizzazione di questa promozione della cultura della pace nella città di Viareggio.
La scelta del sito più adatto, più confacente perché già contenente una realtà di rispondenza allo scopo, è l'angolo alberato all'ingresso della Darsena Toscana, adiacente alla Chiesetta del porto. La sua visibilità è totalmente allo scoperto e immediata per chi gira per le darsene, per chi naviga lungo il canale Burlamacca, per il traffico della via Regia. Offre poi particolare significato l'adiacenza della Chiesetta, quasi come ricerca di coinvolgimento nella ricerca della Pace, di quei valori morali, spirituali, umani e per il credente cristiano, assolutamente indispensabili per un'umanità di Pace.

Il comitato per la Pace ringrazia sentitamente il Sindaco per la sua squisita sensibilità di progetto, la Giunta e il Consiglio Comunale per la pronta accoglienza e l'immediato gradimento, manifestato nella richiesta alla Capitaneria di Porto di Viareggio della concessione al Comune dell'area suddetta.

Il Comitato Versiliese per la Pace

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