introduzione

Cari lettori
Questo primo numero del 2006 vi arriverà con notevole ritardo, in estate inoltrata. Spero che non abbiano perso la speranza tutti coloro che hanno voluto, in un modo o in un altro, dimostrare il loro sostegno a questo piccolo foglio. Li ringrazio veramente tanto della amicizia e della fiducia. Metto le loro lettere in evidenza, la traccia scritta delle telefonate, dei bigliettini sotto la porta di casa, ripromettendomi di rispondere a tutti..., poi la pigrizia mi vince. L'inconsistente difficoltà a prendere la penna in mano e a tradurre in semplici parole di riconoscenza quanto ho nel cuore. Passano lunghe giornate in cui sono stanco di niente. La pensione mi ha fatto forse il triste regalo di svuotare di significato il mio quotidiano? Non lo so. Per certo, non ho niente di diverso che mi difenda più di altri nei confronti di paturnie e depressioni. E so di portarmi dentro tanta fragilità. Eppure non riesco a dare un significato solo negativo a questo mio rimanere arenato nelle pieghe di ciò che giorno dopo giorno mi capita. Ho bisogno di questo nascondimento, fatto di un uscire di casa che spesso si traduce in una piccola avventura, passando da una persona all'altra, da incontri del tutto casuali, alle poche frasi scambiate ormai per consuetudine con coloro che incrocio tutti i giorni o quasi. Mi pare che questo ritmo così rallentato del mio vivere, sia come un naturale riequilibrio di tanti anni vissuti di corsa. Allora, da un problema all'altro. Ora, da una persona all'altra. Ed è tutta un'altra cosa. Anche se, tante persone rimangono "indietro" e per loro non ci sono, non ci sono più, continuo ad abitare "lontano". Limiti. Soglie di una casa da abitare. Là dove ogni essere umano accetta di essere riconosciuto e incontrato. Riuscirò a riconoscere il "luogo" della mia vita? Intanto, il tempo che passa mi porta incontro una bella opportunità. Quest'anno, il 15 agosto prossimo, sono 50 anni che la Chiesetta esiste. Sì, cari amici! Fu proprio il 15 agosto del 1956 che don Sirio invitò compagni di lavoro e amici alla celebrazione di una messa che inaugurò questo luogo, già segnato come "il cantacelo" del Porto, come piccolo segno di pace e cioè di incontro tra cielo e terra nella dimensione quotidiana del lavoro inteso come crocevia di tanta avventura umana stretta tra spirito e materia, oppressione e liberazione, lavoro per vivere e fatica di cui morire... Il 15 di agosto, che nel 1956 era ancora "Ferragosto", cioè a dire l'unico giorno di festa nell'estate arroventata di un Paese dove "chiuso per ferie" era un cartello sconosciuto e dove spesso, come qui a Viareggio nei cantieri si lavorava anche la domenica mattina. Paese ancora ad impronta agricola, e quando c'era lavoro sarebbe stato bestemmia rimandarlo a domani, come non mietere il grano maturo e lasciarlo ancora un giorno alla fame dei passeri o alla rapina di un temporale improvviso. Ma non il 15 agosto, non per Ferragosto! E in una fotografia dell'epoca, si vede la Chiesetta (senza ancora "la sala" sulla sinistra e le stanze dietro) imbiancata a calce cui fan contrasto i vestiti scuri, allora tradizionali della festa, della gente. Ero in Etiopia, il 15 agosto 1986, quando Sirio volle celebrare i 30 anni della Chiesetta con un semplice incontro con operai e pescatori e la messa a mezza mattinata. In una Darsena che stava cominciando a cambiare volto e a "ripulirsi" dalle reti impregnate di salsedine e dalle tute fuligginose, unte di morca, degli operai metalmeccanici.
15 agosto 2006. Ho capito che non potevo far passare quella data senza tentare di confrontarmi, ancora una volta, con una storia, con cui anche la mia si intreccia. Ma anche questo è una delle cose che mi paralizzano. Come se la mia storia (che è più vecchia della Chiesetta e che mi porta a ricordare - ragazzo a pescare sulla curva del canale - le mura sbrecciate della vecchia stazione sanitaria marittima, divenute ricovero per la Primetta, la sua vecchia madre e i suoi cinque figli...), come se la mia storia perdesse senso e significato, di fronte a quella di Sirio e di Beppe. Per fortuna che ci pensa Maria Grazia, con grande pazienza e costanza, a cercare di tirarmi fuori da questa inerzia passiva e quindi, sicuramente, il 15 agosto prossimo la festa ci sarà e sarà, ancora una volta, segno e sostegno di speranza nella comune avventura umana.
Siete tutti invitati! Idealmente e realmente. Se non quel giorno, in quei giorni. E mi farò trovare.

In questo numero...
Troverete il nuovo indirizzo di fratel Arturo Paoli che ha un punto di riferimento, per quanti desiderano incontrarlo, qui vicino, ad una mezz'ora da Viareggio. E, a seguire, una sua intervista per Oreundici che mi pare davvero interessante. "Se dovessi dire che cosa è per me la vecchiaia, direi che è leggerezza che non vuoi dire superficialità: vuoi dire che tutto quello che senti, che avviene, che vivi è come illuminato, leggero, non incontra ostacoli per essere assimilato dentro di te", dice Arturo alla fine dell'intervista, in riferimento a quella che sente come "tenerezza" del Padre.
Questa frase mi ha colpito, non solo su un piano personale e su quello che andavo analizzando in me poche righe sopra, ma riguardo al clero, a noi preti. Siamo vecchi, per la maggior parte. Il nostro sacerdozio fatto di tanta formazione, prima umanistica e poi teologica, è alla frutta. Nuovi rapporti tra forme diverse di ministero si affacciano nella Chiesa. Il prete è mercé sempre più rara. Eppure, mi pare di constatare con rammarico, attraverso gli incontri del mio presbiterio, la tenerezza non fa quasi mai parte della nostra "attrezzatura". Così quella leggerezza che non è affatto superficialità. Per un gregge che si assottiglia sempre più, siamo esigenti e facciamo pesare la nostra diversità come se il mondo si potesse salvare solo mettendo in pratica le nostre ricette. Siamo così poco abituati a lasciarci guardare dentro, assillati dal preteso compito di guardar dentro gli altri, da non accorgerci di quanto poco spazio lasciamo ad una vera fiduciosa speranza nella presenza di Dio nella storia del mondo. Riprendendo in mano alcuni scritti di Padre Dalmazio Mongillo, ho riletto alcune sue riflessioni pubblicate trent'anni fa su "la Voce dei Poveri", su un testo riguardante il Ministero Sacerdotale, posto all'attenzione dei Vescovi in uno dei primi Sinodi post conciliari. Scrive Dalmazio, "che ciò che mi ha più rattristato in questo documento è la mancanza di fiducia e di speranza". Nostalgia, la mia, forse di un tempo che sta passando, insieme ad una Chiesa attraversata da tante differenti esperienze, dalla ricchezza di persone la cui memoria invita ad un confronto rinnovato con la vita e con la speranza: padre Dalmazio, don Michele Do (che vorrei ricordare nel prossimo numero), Elena e le sue compagne, Lena e la casa accogliente di Pederobba... Mi raccomando: il 15 agosto! La morte non chiude la storia!

Luigi


in Lotta come Amore: LcA giugno 2006, Giugno 2006

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