Obbedienza e responsabilità

Ho ricordi dell'edificio esistente prima che fosse la chiesetta dei pescatori o la chiesetta di don Sirio. Un nome preciso non l'ha mai avuto; nella concessione iniziale del Demanio Marittimo si parla di "cappella con annessa abitazione del sacerdote". Per noi, amici che ci ritroviamo qui una volta al mese e per quelli sparsi un po' dovunque, è la Chiesetta del Porto inaugurata da una celebrazione eucaristica il 15 agosto 1956. Avrò avuto intorno a 10 anni e mio padre, appassionato pescatore a canna, mi portava con sè, a volte a pescare lungo il canale, alla bocchetta della Darsena Toscana, allora regno incontrastato delle barche da pesca che accettavano tra loro solo la vecchia draga ormai per lo più inoperosa. I ricordi a quell'età sono come vecchie fotografie che la memoria conserva ed io ho la "foto" di un abbaraccamento oltre un muretto, vicino al canale, di muri sbreccati e di lamiere ondulate a ricucire pezzi di tetto di una piccola costruzione ormai resa rudere. Due ombre vestite di nero vi si
aggiravano. Seppi, più tardi, che si trattava di Primetta conosciuta come la prostituta del porto e di sua madre; tutte e due ormai mal ridotte, con cinque bambini tirati su con l'aiuto dell'allora Opera di Maternità e Infanzia della vicina via Virgilio. Pochi anni dopo, al posto del rudere, una cappella che ricordo scura all'interno a contrasto con il sole che splendeva fuori. Ne ebbi timore e non vi entrai. Se qualcuno mi avesse detto che in quel luogo avrei trascorso più di 50 anni della mia vita, l'avrei preso come il frutto di una sbornia di vino adulterato. Eppure, entrai, non nella cappella ma nella abitazione, poco più di 10 anni dopo. Era l'estate del 1963. In seminario da due anni, in crisi per una situazione che così riassunsi al vice economo in un momento di confidenza. "Ho capito, gli dissi, perché ci tenete qui chiusi in seminario. Per osservarci e conoscerci meglio per quello che sappiamo fare. In modo tale da poterci comandare di fare tutto l'opposto, perché l'unica cosa che vi interessa (a voi, superiori) è tenerci al guinzaglio della vostra obbedienza". Gli occhi al cielo di quel uomo buono che era don Puccini, furono l'unica risposta che ricevetti. La stessa confidenza, con argomentazioni più ragionate, la feci poco tempo dopo a don Rolando Menesini, allora ancora parroco a Balbano, vicino Lucca. Capitai da lui quasi per caso, ma spinto dall'inquietudine di aver sbagliato tutto due anni prima, entrando in seminario con la stessa convinzione con cui si cambia vita per poi ritrovarmi in un mondo (quello ecclesiastico) che era più inerte e scontato del mondo che credevo di essermi lasciato alle spalle. Lui mi caricò sul suo Vespone e mi portò alla Chiesetta del Porto. Sapevo della Chiesetta, ma di don Sirio ignoravo tutto a cominciare dall'aspetto. Don Rolando invece si era avvicinato a lui fin dai tempi in cui Sirio era parroco a Bargecchia, sulla collina sopra Viareggio. E stava rinsaldando con lui una amicizia che li avrebbe portati di lì a poco a proporre al Vescovo l'inzio di una vita comune alla Chiesetta dove far incontrare il mondo del lavoro (Sirio avrebbe ripreso a lavorare a chiamata con gli scaricatori per aggirare il divieto vaticano del lavoro dipendente dei preti, salvo poche ridicole ore alla settimana) e il mondo della scuola (Rolando avrebbe continuato l'insegnamento della religione alle scuole magistrali parificate delle Mantellate a Viareggio) secondo lo slogan fatto proprio dal '68, "studenti e operai, uniti nella lotta!". Anche allora, se qualcuno mi avesse detto che avrei passato 50 anni nella Chiesetta del Porto, l'avrei guardato come dotato della più fervida delle immaginazioni. Ma quel incontro segnò un punto di non ritorno per la mia vocazione sacerdotale. Non ricordo niente di ciò che mi disse Sirio quel giorno in un breve colloquio personale. E probabilmente non capii niente di quello che mi disse, ma solo perché avevo già capito tutto di quello che mi interessava in quel tempo di crisi per me. Ciò che mi aprì la mente e il cuore fu la tavola apparecchiata nella sala di ingresso. Ancora una foto che conservo cara nella memoria. Questa volta con i colori del sole che entrava dentro l'ampia finestra e scaldava i colori del legno della tavola, della libreria già colma di libri e i mattoni rossi a facciavista. E, intorno alla tavola, Sirio immancabilmente a capotavola, Rolando, una giovanissima Maria Grazia (20 anni e il cuore aperto dalla lettura di "Una zolla di terra"), un pescatore con il volto cotto dal sale e dal sole, un "pellegrino" che aveva bussato alla porta, due donne rimaste un poco nell'ombra, un prete di Milano (don Piero che poi conobbi meglio ed apprezzai di più) che - su invito di Sirio che appena sceso dalla Vespa di Rolando, mi chiese a bruciapelo: "sai remare?" e, alla mia risposta affermativa - mi fu da lui affidato perché lo portassi su un gozzetto a fare il giro delle Darsene che ben conoscevo per le giornate di pesca con mio padre. Mi fu sufficiente quella tavolata, il parlare tranquillo e familiare, l'atmosfera scherzosa ma rivolta ai momenti essenziali della vita umana, così diversa dalle tavole ecclesiastiche che mi era stato dato di conoscere frequentando le canoniche nelle domeniche di servizio da seminarista nelle parrocchie. Capii in un attimo che tutto della vita del prete non si sarebbe giocato sulla moltiplicazione di replicanti come credevo di aver capito dall'impostazione dei buoni ritiri del seminario e da quegli esempi filtrati dalla direzione. Ora sapevo! Non mi interessava il "dove" e "quando". Sapevo di essermi consegnato all'obbedienza. Ma non fino al punto da farmi ingabbiare la fantasia e soprattutto lo stile di vita. Da quel giorno seppi che per me l'obbedienza si sarebbe sempre coniugata con la responsabilità mai delegata.

Luigi


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