Un parroco che fa da babbo e da mamma?

Da quattro anni abbondanti, a più di 75 anni d'età, sto assolvendo al ruolo di parroco di San Pietro a
Vico. Mi separano fisicamente almeno 70 km (tra andata e ritorno) dalla Chiesetta del Porto. La
distanza (che percorro usualmente due volte per settimana) è del tutto nella norma per pendolari del
lavoro e dello studio, ma ancora eccezionale per chi, come me, ricopre un incarico che quasi sempre
lo colloca accanto al campanile di pertinenza. Lo rilevo ogni volta che persone estranee alla vita
parrocchiale si rivolgono a me nella qualità di parroco componendo il numero del fisso della
parrocchia e - nonostante l'annuncio del trasferimento di chiamata - mi fanno richieste che
prevedono io sia solo temporaneamente fuori casa per tornarvi se non a pranzo, almeno a cena.
Quando li rimando alla mia presenza per le due messe domenicali o do loro indicazioni di altre
persone cui rivolgersi, sento un po' di sconcerto nel silenzio che lì per lì segue prima che io
provveda a rassicurare l'interlocutore di turno che non sto frapponendo ostacoli ma solo cercando di
aiutarlo a venire a capo del suo problema. Evidentemente resiste nell'immaginario collettivo la
figura del parroco quale responsabile, direttore e custode unico di tutto ciò che esiste e si può fare in
parrocchia, nonostante la situazione attuale del clero, con problemi di carenza d'organico e
complessivo invecchiamento, stia erodendo questa immagine che la tradizione ci consegna. Del
resto non mi ha mai convinto tutta quell'insistenza dei buoni predicatori di esercizi spirituali in
seminario tendente a valorizzare in noi aspiranti preti un futuro ruolo in parrocchia che si
esprimesse nel fare "da babbo e da mamma" ai propri parrocchiani. Quel modo un po' pretesco di
esprimersi parlando "della mia parrocchia" con un tono che va oltre un ovvio senso di appartenenza.
Non essendo nel mio curriculum e neppure nelle possibilità concrete dell'attuale incarico di parroco
"a distanza" (come dico a volte giocando con le parole...) il fare "da babbo e da mamma", rimane
per me il ruolo di "babbo", se non altro per la responsabilità di "legale rappresentante" che non
consente condivisioni di potere, anche solo per il "potere di firma". A far da "mamma" le donne
che, da volontarie, collaborano nella catechesi, la liturgia, la cura degli arredi e degli ambienti, il
rapporto con i malati cronici ecc. Ci sono anche uomini, ma, in genere son le donne a prendersi cura
delle attività di relazione e di conservazione.
Lo schema che ne deriva è quella di un "babbo" e di più "mamme" e quello che ne viene è una non
consapevole tendenza ad un atteggiamento per cui i parrocchiani finiscono per essere un po' come
dei "figlioli" curati e allevati ma senza mai entrare nella prospettiva di diventare "adulti" e
partecipare a pieno titolo alla vita della comunità, corresponsabili nelle decisioni e non solo
collaboratori o semplicemente fruitori di servizi.
E' possibile, e se possibile in che direzione, andare oltre questa divisione dei ruoli in una comunità
cristiana?
La direzione è quella di riprendere con forza la centralità della comunità in quanto tale ed i
"carismi" a servizio del tutto. Per quanto riguarda il ruolo del prete potrebbe essere sufficiente
guardare meglio nella definizione del sacerdozio presbiterale quale sacerdozio ministeriale e cioè di
servizio. Servizio al sacerdozio del popolo di Dio, direi. E riprendere l'etimologia della parola
presbitero che si avvicina al significato di anziano. L'anzianità non è solo determinata dall'età. Anzi,
a volte la si rileva in gente anagraficamente giovane (al contrario di vecchi che corrono il rischio di
"rimbambire" con il passare del tempo). Ora, tra le caratteristiche dell'anziano per definizione c'è la
diminuita spinta alla competizione, al bisogno istintivo di toccare con mano i limiti delle proprie
possibilità misurandole con quelle degli altri. Si fa meno pressante il bisogno di sentire in qualche
modo il riscontro della propria presenza e del ruolo nella vita sociale attraverso la partecipazione
attiva alle discussioni, alle strategie che vengono messe in atto nella elaborazione collettiva del
pensiero che guida l'attività del gruppo di appartenenza. L'anziano (ripeto, per definizione e non
anagraficamente inteso) ha quella giusta distanza che lo rende partecipe della vita comune e insieme
che lo mette in grado di ascoltare anche le voci più deboli; e di rilanciarle, in modo che non restino
soffocate dalle voci più forti e "importanti". Il sacerdote al servizio del sacerdozio di tutti dovrebbe
essere l'opposto dell'uomo che ha sempre diritto all'ultima parola. Semmai l'uomo che abitando la
povertà e la solitudine si fa ascolto dello Spirito che anima la comunità con criteri sempre
sorprendenti e non inquadrabili dalla sapienza umana. Lo Spirito che ci "parla" attraverso ogni voce
umana a partire da quelle più inattese per la fragilità e lo sbriciolamento della loro testimonianza.
Ciò permetterebbe la fioritura di carismi quali quelli tratteggiati da san Paolo, al maschile come al
femminile, nell'integrazione di relazioni interpersonali dettate dalla fiducia e dalla ricerca di
cammini di autentica crescita umana.
Andare verso un rovesciamento della piramide ecclesiastica che vede il clero al vertice, nei ruoli di
potere decisionali, vuol dire quindi riaprire il Vangelo e leggere quelle parole che sono state
sorvolate perché le parole da sottolineare sembravano altre.
Come ha detto don Marcello Brunini nell'omelia della notte di Pasqua,
la comunità del Risorto è la
Chiesa delle donne. Sono loro ad ascoltare l'annuncio della resurrezione di Gesù. Sono loro che lo
incontrano. Sono sempre loro che ricevono l'incarico di annunciare ai discepoli la vittoria del
Maestro sulla morte, contro la mentalità dell'epoca che non dava valore alla testimonianza della
donna. E' una missione e una testimonianza fondamentale.

Luigi


in Lotta come Amore: LcA Giugno 2017, Giugno 2017

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