A scuola di pazienza

La prima cosa che dovetti imparare fu la pazienza. Una pazienza a tutto tondo perché ogni movimento era preceduto da attese di durata variabile difficilmente prevedibile. E tante porte per me rimasero chiuse per alcuni mesi. Anzi, all'inizio e per settimane, solo due porte si aprirono: il portone di ingresso che mi metteva di fronte al piantone che presidiava all'area "esterna". E la porta del "magazzino", sempre in area esterna. Uno stanzone neppure troppo grande in cui venivano ammucchiate cose eterogenee, da divise degli agenti avanzate a per lo più ormai inutili grossi registri di una documentazione obsoleta, agli indumenti per i detenuti che venivano confezionati in sacchetti con spillato il contenuto che doveva corrispondere e mai eccedere il contenuto della "domandina" scritta che regolava ogni atto, ogni richiesta, ogni cosa che mettesse in relazione il detenuto con l'organizzazione penitenziaria e che veniva documentata per iscritto su moduli che si ammonticchiavano via via e costituivano la traccia di una vita che si perdeva in scatoloni a loro volta ammassati in "soffitte", vere e proprie catacombe destinate a macerarne i resti. Ancora oggi Tilde, con l'aiuto di volontarie della Caritas, dietro l'impulso di Beppone, continua a preparare sacchetti per uomini di cui si conosce il nome, ma si ignora il volto, l'aspetto fisico, e di cui si sanno solo le misure approssimative dei pantaloni, del collo della camicia, delle scarpe... E venne anche per me la prima volta in cui fui ammesso nella parte "interna" di S. Giorgio. Il cellulare spento e consegnato, il coltellino che abitualmente porto in tasca con non più di 4 dita di lama messo accanto, la carta di identità aperta, mentre l'agente addetto scriveva in un grande registro i miei dati personali, l'ora e il motivo del mio ingresso. Poi una porta aperta con la grossa chiave e subito dopo il cancello che si apriva una volta che la porta si chiudeva alle spalle...
Ciò che mi colpì fin dall'inizio non fu tanto la varia umanità che vi incontrai, dai detenuti dei tre bracci agli agenti, al personale sanitario e amministrativo (organico di lavoratori sempre a corto di risorse tra cui, come in ogni altro posto di lavoro, si potevano incontrare gente che aveva sbagliato mestiere, onesti lavoratori per riscuotere uno stipendio, ma anche persone dalla carattura professionale e umana di fronte a cui veniva da togliersi il cappello...) che lavora in uffici ricavati in locali costruiti per tutt'altro e raggiungibili tramite un dedalo di scale di pochi gradini che rendono il tracciato incomprensibile e misterioso nello stesso tempo come le quinte di un teatro che si aprono all'improvviso svelando la presenza di personaggi diversi accumunati da enormi registri.
Ciò che mi colpì fu la desolazione di ambienti TRISTI. Muri scrostati, pareti da cui cola un umidore che impasta i diversi strati di tinteggiatura aggiunti nel tempo... Pulito in terra, perché lo scopino è uno dei pochi lavori interni riconosciuti e retribuiti.... ma anche dove una parete viene rinfrescata, rimane fredda e anonima. E tanto silenzio... rotto talvolta da qualche richiamo a voce alta, da un lato all'altro del grande chiostro. Forse per questo la protesta degli oggetti metallici battuti ritmicamente sulle sbarre ha un impatto così violento.

L.


in Lotta come Amore: LcA Dicembre 2016, Dicembre 2016

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