Il mio incontro con il carcere

Voglio continuare a raccontare di me. Non perché credo di poter significare qualcosa di più di una semplice storia personale come ce ne sono tante, ma in quanto - in questi ultimi anni - la vita mi ha portato in acque dense e profonde che portano con sé i riflessi dell'eterna avventura umana. Così è stato per quanto riguarda l'avventura del mio essere prete che ho raccolto nel giornalino precedente. Così è stato l'incontro con il carcere.
La parrocchia e il carcere mi sono precipitati addosso per la morte, precoce e veloce, di don Giuseppe Giordano (Beppone, perché gli amici più vicini hanno conosciuto un altro don Beppe, questo abitante per anni alla Chiesetta e conosciuto anche come Beppino), vicino di casa a Lucca, sulla stessa scia dei preti operai, amico ritrovato da quando - ormai quasi 20 anni fa, con la morte questa davvero precoce e veloce per infarto devastante, di don Beppe-Beppino - sono rimasto l'unico abitante della Chiesetta del Porto.
Don Beppe-Beppone, era stato nominato (parlo di 8 anni fa) cappellano della Casa Circondariale di Lucca, alla morte del precedente cappellano don Renzo Tambellini, prete dall'animo umano che unì, negli ultimi anni di vita, la cura dei carcerati alla accoglienza dei giovani al Villaggio del Fanciullo della stessa città.
Il vescovo, nel presentarlo alla Direzione, al personale e ai detenuti, se n'era uscito con queste parole: "Don Beppe è nato in manicomio (suo padre, psichiatra, era stato medico e direttore del manicomio di Maggiano, quello del più famoso medico e scrittore Mario Tobino) e ora morirà in carcere...". La battuta - ancorché discutibile - fu profetica.
Fin da subito Beppone mi offrì di condividere il lavoro in S. Giorgio (così è popolarmente chiamato il carcere a Lucca, dall'omonima via). Ci vedevamo spesso a quel tempo e, immancabilmente eravamo presenti agli incontri dei preti della diocesi e ad altri appuntamenti suggeriti dall'amicizia e dai contatti con il gruppo dei preti operai in Italia. Il vescovo - quello delle battute - ne aveva coniata una anche per noi: "Attenti a quei due!".
Quando, per la prima volta, arrivai con Beppone di fronte alla porta del carcere, mi riaffiorarono memorie che erano rimaste sepolte sotto anni di vita. A 50 metri dal carcere, è vero che c'era (c'è ancora ma sotto diversa denominazione e gestione) il Bar La Patria, acquistato dal padre di don Rolando (compagno di don Sirio a Bicchio) con i soldi sudati in anni di duro lavoro in Argentina, ma fu proprio il varcare la soglia del carcere a farmi ricordare che - in qualche modo - potevo dire anch'io che in carcere c'ero nato!
Oddio, proprio nato no; ma, qund'ero ragazzo mio padre, che alla morte fu insignito di medaglia al merito della redenzione sociale, - per marcare la differenza con le mie sorelle più piccole - mi portava con se quando faceva cose con gli amici che mi potevano dare buoni insegnamenti. Così una sera al mese mi ritrovavo intorno a un tavolone a dare una mano a mettere dentro grandi sacchetti di carta maglie di lana, calzerotti, un pacchetto di sigarette, sapone, e cose simili per i carcerati in S. Giorgio. Avevo imparato da subito - nelle prime avventure da bambino sulle Mura che circondano Lucca - dov'era il carcere e il muro che si alzava di qualche metro sulla parte interna delle Mura con le feritoie e la guardia armata che faceva la ronda. Sbirciavo, insieme ai compagni, oltre il muro, le finestre rovesciate a bocca di lupo e i panni stesi fuori che segnavano una presenza umana altrimenti invisibile.
Qualche anno ancora e poi sarei entrato lì dentro, in occasione della pasqua in carcere.
Era il 1961 e, da poco, avevo manifestato ai miei la decisione di interrompere gli studi universitari ed entrare in seminario. Mio padre mi inserì nell'elenco dei volontari per assistere alla messa del precetto pasquale. Ricordo solo parte della cappella, come una fotografia. Le facce assiepate dei detenuti, se ben ricordo, ancora con la tradizionale divisa. E, ben individuabile per la caratteristica fisionomia, il famoso trombettista americano Chet Baker, arrestato mesi prima per uso di droga. Chet rimase in carcere poco più di un anno e le cronache nazionali si occuparono del suo caso anche se allora il vento della contestazione che cominciava a soffiare forte prevalse nelle descrizioni della vita notturna della Versilia e della Bussola, il locale più famoso in cui Chet si esibiva nei suoi concerti in Italia. Per anni è rimasta a Lucca la traccia di quel trombettista carcerato, cultore di un jazz raffinato e melanconico che aveva avuto il permesso di esercitarsi per due volte il giorno in cella con la tromba. E dei gruppetti di giovani, sempre più numerosi, che si davano appuntamento sulle Mura, proprio lì davanti al carcere e ascoltavano in silenzio le note che si liberavano oltre le sbarre.
Un tempo in cui ancora nel carcere di Lucca fervevano lavori di ogni tipo, dal restauro dei mobili alla conciatura delle pelli e alla sartoria. Un mondo in movimento che, nell'antico stabile delle monache di una famiglia domenicana, comunicava con il vecchio quartiere lucchese di Pelleria, con le strette strade animate da botteghe artigiane, dal fabbro al falegname, al rilegatore di libri e al restauratore di antiche stampe.
Quando con Beppone entrai - quasi 50 anni dopo - di nuovo in S. Giorgio, quel mondo non esisteva più. Cancellato da normative - giustissime per altro - di sicurezza degli ambienti di lavoro e da regolamenti che non facevano distinzione né degli scopi sociali, né del volume di lavoro di laboratori nati per dare dignità e normalità a un tempo altrimenti perduto.

Luigi


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