Elogio dell'imperfezione

Un grande dipinto ad olio, dai colori brillanti, è appeso ora a Tepeyac, la casa per gli ospiti del CAC e continua ad intrigarci con la sua bellezza e a riconciliarci attraverso le sue immagini. Le foglie delloquar che si aprono dal centro sembrano richiamare una comune esperienza: la fertilità e la fruttificazione piena che viene dalla riconciliazione con l'io timoroso - e dal timore dell'altro. Ho perso così tanto tempo per correr via dall' alterità anche se, come dice Emmanuel Levinas, è sempre l'alterità che ci converte.
Non sono sicuro se ho paura delle ferite che l'altro sempre porta o se ho paura che l'altro ferirà me, ma so che voglio evitare e negare questo senso della vita assolutamente tragico. Poiché sono stato attratto dalla croce con il passare degli anni e sto imparando ad essere immensamente grato alla dottrina della croce. Essa mi prepara, mi colloca e mi consola nello svolgersi di questo dramma che è la vita umana. Essa mi dice, allo stesso modo di una iniziazione classica, che la vita è difficile e che la mia piccola vita è qualcosa che vale assai più di me.
Forse i nostri antenati sapevano che non avremmo voluto credervi, così trovarono altre modalità per dirlo. Uccidendo i più deboli di noi, come è avvenuto, o calandoci il messaggio a poco a poco in modo che potessimo assorbirne l'impatto. Le forme primitive includono la credenza nel peccato originale, la pratica pro-attiva della mortificazione e la pratica re-attiva del digiuno. Tutte erano viste come esercizio necessario per il combattimento spirituale che stava incombendo. Stranamente, esse non sono attualmente più viste come necessarie o anche solo importanti.
La ricerca della integrità è oggi così intensa e disperata che noi insistiamo nell'enfatizzare la nostra benedizione originale invece del peccato originale. Entrambi sono veri, naturalmente. All'inizio siamo stati creati come imago Dei-immagine di Dio (Genesi 1,27). Non si può essere benedetti più di così! Ma questa "immagine di Dio" prova paura "perché io sono nudo" (Genesi 3,10). Questa esperienza di paura e nudità è un'eccellente descrizione di ciò che più tardi chiameremo peccato originale. Piuttosto che una fondazione negativa, tuttavia, la dottrina del peccato originale è una veritiera e perciò misericordiosa descrizione di ciò che siamo. Non è necessario spendere un mucchio di tempo dimostrando sorpresa, comparando, giudicando, o anche perfino odiando la difficile situazione umana. Ci è stato detto al principio: "Tu sei contenuto in una comunità di non integrità e di imperfezione". Il nostro peccato è condiviso da tutti, è passato attraverso le nostre famiglie di origine, indietro fino agli inizi, ad Adamo ed Eva. Questo è realmente un consolante messaggio di interdipendenza, anche se rappresenta contemporaneamente un onere e una delusione. Peraltro dobbiamo ammettere che il Cristianesimo dà ai suoi membri il necessario senso del tragico. Sia la dottrina del peccato originale che quella della croce sono un invito e una iniziazione alla nostra comune natura incrinata. Siamo insieme in questo; condividiamo un certo handicap, e non ci è davvero utile stare su un qualsiasi piedistallo di superiorità o cercare di scorgere da qualche parte I'incontaminato nobile selvaggio. Quell'essere non esiste se non nella mente dei romantici. La vera fede non è mai romanticismo.
Il peccato originale è anche il peccato universale e perciò il grande equilibratore che ci tiene tutti in ricerca, opportunamente umiliati e nel bisogno l'uno dell'altro. Se siamo onesti, ammetteremo che siamo parte di una comunità di sofferenza. Sofferenza che abbiamo ricevuto l'uno dall'altro e che inevitabilmente ci passiamo l'un l'altro. Come dice il profeta Zaccaria: "Essi ti chiederanno: Cosa sono queste ferite sul tuo corpo? E quando lo faranno tu dovrai rispondere:
"Queste sono le ferite che ho ricevuto in casa dei miei amici" (13,16). Sì, sembra proprio che le nostre ferite più profonde vengano quasi sempre da un compagno, un caro amico, uno (tu) con cui hai camminato nella casa di Dio (Ps 55,14).
Molte delle nostre ferite hanno a che fare con il modo con cui gli altri ci vedono e ci giudicano e, perciò, come noi giudichiamo noi stessi. Siamo essenzialmente animali sociali. Noi siamo irritati e imbarazzati nello stesso tempo dalla nostra intelligenza limitata, dai nostri doni limitati, dal nostro limitatissimo potere e dalla nostra limitata capacità di amare - ognuno e ogni cosa ci ricorda questo in ogni momento.
Dio sa che queste voci negative saranno rivolte a noi prima della voce della verità. Così l'intera rivelazione biblica sta cercando di volgere l'attenzione al giudizio di Dio piuttosto che a quello dell'umanità - non come una minaccia, ma come una consolazione - come una madre che avvicina al suo il volto del bambino - e lontano da ogni distrazione. Ascoltami, essa dice, questa è l'unica verità che devi .conoscere, Nello stesso momento che fa notare l'errore al bambino tenendo lo sguardo fisso su di lui, essa gli dà, attraverso l'umiliazione, una via per uscire dalla vergogna. Gli occhi dicono con insistenza, "Ti amo e mi interessa molto ciò che stai facendo della tua vita. Sono con te nella tua fragilità". Alterità non è solo giudizio ma anche conforto e vicinanza. Molta della nostra fragilità oggi deriva dal fatto che siamo esposti a così tanti differenti giudizi invece di uno che si interessi, definisca e dichiari.
Un Signore è molto meglio di tante voci che spadroneggiano su di noi. Uno specchio è molto più utile che vivere in questa rivoltante sala degli specchi che è la disintegrazione del moderno io. Per questo essere l'Assoluto (e l'Unico!) per ricordare a noi i nostri limiti e nello stesso tempo invitarci all'unione amorevole è il compito essenziale del Dio della Bibbia. (E' anche il compito di ogni buon psicologo...).
Giobbe finalmente realizza che l'unico di cui ha paura come il suo giudice più critico è il suo più grande vendicatore. I suoi cosiddetti amici, i quattro consiglieri, gli offrono solo ideologia fondata, ortodossia religiosa, saggezza convenzionale ed eroico idealismo. Sembrano buoni consiglieri, ma in realtà essi respingono e abbandonano il povero Giobbe. Dio, al contrario, non dà a Giobbe nessuna risposta corretta: Dio dà, in verità, se stesso.
Se non udiamo Dio dirci cosa è il peccato, e che cosa sono le ferite, lo udremo da migliaia di altre voci. Se non ascoltiamo Dio dirci che siamo imperfetti e bisognosi, lo impareremo nelle nostre relazioni. Se non ascoltiamo Dio dirci che siamo responsabili, saremo un bersaglio mobile sotto il tiro incrociato di chiunque ci richiami a qualsiasi genere di responsabilità. Avere un solo Signore ci salva dalle onnipresenti voci di accusa - da noi stessi e da ogni nuova corrente di pensiero. Proprio quando abbiamo liberato noi stessi dalle colpe avvelenate della religione, troviamo quelle rimpiazzate dai giudizi e dalle accuse dei giornali popolari, degli avvocati, degli ecologisti, dei puristi, dei commedianti, dei patrioti, degli ospiti dei talk show e di chiunque ha un'opinione da vendere o una dichiarazione da fare. A chi dovremmo credere? Forse un poco di tutto? O nulla e nessuno? Così è il moderno io - insicuro, dispersivo e ribelle contro questo sistema, per sopravvivere. Nessuna meraviglia se i santi desiderano che Dio solo sia il loro giudice!
Robert Bly, nel suo nuovo libro, The Sibling Society, argomenta che nel nostro giusto tentativo di correggere i patriarchi, li abbiamo rimpiazzati con la tirannia dei molti. Ora diffidiamo di ogni sguardo diretto verso l'alto ("prospettiva verticale") e semplicemente ci guardiamo dietro e davanti per cogliere le approvazioni e le condanne che ci riguardano... Io non credo che Bly voglia ritornare al malsano controllo dei più da parte di uno solo, ma egli vuole che noi riconosciamo che molti gruppi e individui nel nostro paese, oggi, stanno realizzando che l'uno è ora paralizzato dalla tirannia delle molte voci competitive tra loro - tutte tese a urlare qualche principio morale assoluto. E' sorprendente ciò che non è fattibile e ciò che non può essere fatto nei gruppi a causa della assenza della vera idea di leadership. Ho trovato questo come una sfida in molte comunità non istituzionali e in molti gruppi liberali, militanti, femministi.
Come credente, uno si chiede come queste persone faranno mai il loro percorso formativo. Cosa faremo quando Dio e la Realtà diranno "NO"? Da dove verrà l'obbedienza di cui abbiamo bisogno? Credo che tutto ciò dipende da dove collochiamo la nostra meta finale. Per me, è chiaro. La mia meta è l'unione. Unione con Dio. Qualunque cosa mi insegna e mi allena alla scuola dell'unione è ciò che io voglio e ciò di cui ho bisogno. Dio è uno che ferisce; così pare. Se lasciamo che Dio ci ferisca, le altre ferite non saranno poi così importanti. Se non permettiamo a Dio di ferirci, ogni altro essere lo farà. E noi non sappiamo quali ferite meritano o a chi darne la colpa.
Le nostre ferite ci insegnano ad interrogarci. I nostri peccati sono lo spazio che ci prepara alla salvezza e che crea il desiderio di ciò. E' una danza con la morte quella che ci guida all'unione con Dio. E' sempre una danza di una persona che non si regge bene in piedi; è l'andatura zoppicante di Giacobbe che annunzia la sua benedizione e lo fa forte contro Dio (Genesi 32, 26-29). Forse non c'è altra strada per diventare Israele. Lo schema sembra essere quello della persona prima azzoppata e quindi benedetta e rinnovata nel proprio nome. Come dice S. Giuliana di Norwich: "Prima la caduta, e poi la redenzione dalla caduta, ma entrambe sono misericordia di Dio". La santità è sempre peccato trasformato e ferita trasfigurata. Avverrà sempre come una sorpresa. E' toccato alla Rivelazione Divina dircelo ma, in effetti, molta della chiesa ufficiale ancora lo nega.
Nel loro libro dallo stile pastorale e narrativo "La spiritualità dell'imperfezione", Emest Kurtz e Katherine Ketcham dicono che c'è sempre stata una tradizione "impefetta" della spiritualità che affiora attraverso la spiritualità assolutamente dominante della scalata, della ascesa e crescita e pienezza e dei più alti gradini della consapevolezza. L'umanità ha sempre operato il tentativo di uscire fuori da questa imperfezione ad una qualche specie di perfezione. Il risultato è usualmente una spiritualità elitaria, una lettura minimalista dei Vangeli (enfatizzando una piccola area dove possiamo immaginare di ottenere una qual sorte di perfezione - come obbedire sempre all'autorità o non perdere mai una Messa), varie teorie ideali nella testa (Gnosticismo), o giusto un vivere in una facile negazione e l'annullamento del proprio lato oscuro. Molta gente nasconde la propria vita nelle loro aree di forza così da non rivelare mai le loro debolezze - neppure a se stessi. Ciò sembra possibile, ma si finisce per essere come pesciolini in una pozzanghera piena di pesci che la pensano allo stesso modo. Non proprio ancora chiesa; ancora meno il grande Regno di Dio.
n desiderio di una completa sicurezza e fantasie di controllo su tutto ciò che ci riguarda, catalizzano nel cercare di superare questa dolorosa imperfezione trovando qualche pietra filosofale, qualcosa di obiettivo, sicuro, assoluto che ci sollevi per sempre dalla polvere fino ad un livello di alta morale. La rivelazione biblica ci dice chiaramente che non c'è assoluto che ci tiri fuori dalla nostra fragilità che un incontro con l'Altro.
Siamo esseri essenzialmente sociali, imitativi, sempre alla ricerca della nostra identità, il nostro abito, il nostro nome. Non c'è altro modo. E' l'alterità che mi confronta, mi limita, corregge, si schiera dalla mia parte e mi salva. E' sempre la faccia dell'Altro che non si sottrae alla vista del mio insuccesso. E' la faccia dell'Altro che mi vede fin nell'interiorità, nudo e povero come veramente sono. Troveremo noi stessi attraverso l'altro e perderemo noi stessi attraverso l'altro. Tutto dipende da quale altro stiamo rimirando.
"E Dio fece loro delle vesti e ricoprì la loro nudità"(Genesi 3,21).


Richard Rohr


in Lotta come Amore: LcA ottobre 1996, Ottobre 1996

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