Bisogno di parole dal sapore buono del pane

Vorrei continuare la riflessione iniziata nel primo numero 2009 di Lotta come Amore: "Vivere e morire nell'amore e nella libertà". Nel frattempo si è svolto, dal 21 al 25 agosto, alla Pro Civitate Christiana di Assisi il 6r Corso internazionale di studi cristiani dal titolo "Se alzi la lanterna sul mistero della fine... le nuove frontiere della vita e della morte", organizzato in collaborazione con la comunità ecumenica di Bose e l'editrice Queriniana.
La ricchezza dei temi trattati ne fa un "luogo" davvero importante per chi desidera approfondire la riflessione sul mistero del confine ultimo della fine. A partire dalla relazione finale di Enzo Bianchi, priore di di Bose, dal titolo "Può la morte tradire la vita? La svolta di Gesù di Nazareth". Di fronte all' enigma assoluto e insanabile della fine della vita, Enzo Bianchi ha proposto l'esempio di Gesù: "Nell'ottica cristiana la vera opposizione non sta tra la vita e la morte, ma tra l'amore e la morte. La realtà dell'amore, vissuto da Gesù fino alla fine, ci fa cogliere la vita, la morte e la risurrezione di Gesù. La Croce va letta a partire dalla vita di Gesù. Non è la Croce a spiegare Gesù, ma è Gesù che spiega la Croce. Gesù è andato verso la morte liberamente e per amore. Il vero duello non è tra vita e morte, ma tra amore e morte" (Ingrid Colanicchia in Adista 12 settembre 2009).
E' questo un orizzonte condivisibile? Certamente sposta la questione del fine-vita dal "duello" tra principi all'invito a considerare la reale condizione dei viventi nelle storie e nelle relazioni intessute nel quotidiano. Con queste parole si è espresso il filosofo Roberto Mancini nella relazione di apertura: "Credo che chi, avendo un legame profondo e una storia comune, sta vicino al morente, potrà e dovrà valutare quando, nel quadro di condizioni stabilite dalla legge, sarà il caso di desistere dal prolungato ricorso alle macchine per tenere formalmente in vita un proprio caro. Quando invece non esiste nessuna figura familiare accanto al morente, questa valutazione spetterà alla responsabilità dei medici. In ogni caso, il principio del rispetto della vita deve tradursi nel rispetto per ciascuno, per ogni storia, per ogni volto".
E, di conseguenza, "La legge non può calpestare questa delicatezza in nome del principio della sacralità della vita affermato senza considerare la reale condizione dei viventi, come non può farlo neanche in nome di un'autodeterminazione assoluta dell'individuo, senza criteri e senza responsabilità" (I. Colanicchia, ibid.).
"Certamente - nota Angelo Bertani sulla copertina di Adista n. 54/2009 -la vita umana va tutelata sempre, valorizzata, accudita. E tuttavia che senso ha dire che essa è sempre, assolutamente indisponibile? Non abbiamo visto né udito una così radicale condanna della guerra, della pena di morte, della "legittima difesa", persino della retorica "chi per la patria muor... ". Sappiamo viceversa che "non c'è amore più grande di chi dà la vita per un amico (se non, forse, l'amore di colui che dà la vita per un nemico o un uomo vile).
Certo, siamo in una grande emergenza educativa perché educatori laici e credenti troppo spesso si limitano a dire "si fa così" , "così è bene e così è male". Capisco che lo possano pensare i figli del positivismo giuridico (ed etico...). Ma certo non i cristiani. Loro sanno che tutto è relativo: soltanto Dio è assoluto (sebbene anche Lui abbia messo a rischio la sua assolutezza a causa del suo amore per gli uomini). Considerare "assolute" altre cose, idee, persone è follia e idolatria: "Felice chi non aderisce per nulla alla terra e cammina in eterno fervore attraverso l'eterna mobilità" (Gide).
Ma i cristiani sanno che l'unico punto fermo è l'amore nelle sue molte, indefinibili rifrazioni. Lo stesso gesto ha un valore oppure un senso diverso a seconda del contesto, del soggetto che lo pone, talora persino della cultura, certo dell'intenzione... Ciò non significa rinunciare ad offrire criteri, esempi, valutazioni. Ma senza mai sostituirsi alla coscienza, senza mai mettere un relativo al posto dell'assoluto. I credenti sanno e vivono che tutto è relativo: relativo agli altri, alla storia, alla cultura, alla coscienza. Che sia relativo non significa che sia indifferente, che una scelta valga l'altra; il valore di una scelta è relativo al contesto e alle concause e soprattutto all'intenzione, alla scelta fondamentale. Ha ragione Agostino: se si sceglie per amore, qualunque scelta è giusta. E ciò accade più frequentemente di quel che si crede, nella Chiesa e nel mondo. Dovremmo essere ammirati per la bontà, la generosità, l'eroismo che vengono esercitati in forme e momenti diversi. Ecco perché è molto brutto vedere i cattolici (e anche la gerarchia) comportarsi come i farisei e i dottori della legge; e giudicare in modo severo e sprezzante le scelte di altri uomini e donne, magari "lontani" dalla fede. Meglio sarebbe annunciare, con misericordia e cordialità, che "l'uomo non è mai solo" perché ha sempre dei fratelli e un padre; e che l'unica cosa importante è che i nostri gesti quotidiani e quelli supremi non siano guidati dall'egoismo, ma siano illuminati dall'amore per gli altri".
Possiamo allora tornare con la memoria ai giorni in cui la vicenda di Eluana teneva banco sui giornali e nei dibattiti radiofonici e televisivi. E cercare di rientrare in contatto con quella difficoltà a schierarsi che molti tra i lettori, credo, hanno provato. L'abbiamo sperimentata come debolezza, fragilità, forse come confusione, inadeguatezza. Da una parte, forse, con un oscuro senso di colpa per questo. Dall'altra, con un inizio di collera sorda e trattenuta dentro per tutto un mondo intorno di persone "sicure" che proclamavano con toni spesso spregiativi nei confronti degli avversari, le loro opposte convinzioni. Le parole scritte da don Angelo Casati, in quei giorni, possono, almeno in parte, riflettere quei nostri sentimenti?
Don Angelo scrive, in quel recente e insieme ormai lontano febbraio di quest'anno, agli amici, per un bisogno di confidarsi i pensieri - addirittura - in ore diverse di uno stesso giorno:
Parole impastate di silenzio
"9 febbraio ore 18: Che cos'è questa apparente contraddizione che mi segna dolorosamente da giorni? Da un lato una repulsione, un disgusto per le parole che senza il minimo pudore, spudo-rate, stanno violando il mistero che avvolge la vita di Eluana. Repulsione, disgusto per le parole e bisogno incontenibile di silenzio.
Ho letto nella Bibbia ciò che è bene. Ho letto: "E' bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore". Poi ho visto credenti non aspettare in silenzio. Loro non aspettano. Loro non hanno niente da aspettare. Loro sanno.
Bisogno incontenibile di silenzio e paradossalmente bisogno di parole che abbiano il sapore buono del pane, da spartire con gli amici. Con gli amici e con la cerchia sconfinata di coloro che ancora aspettano la salvezza: non l'hanno imprigionata nei loro fantasmi, dando ad essi il nome di verità. Piccola sorella verità, piccola mia sorella, dissacrata come Eluana".
Non abbiamo forse anche noi bisogno di queste parole "dal sapore buono come il pane"? Di parole "da spartire con gli amici". Tanto, tanto più lancinante e insieme segreto, questo bisogno di quello di verità splendide da "impartire" agli altri...". Bisogno dunque di altre parole - continua a scrivere don Angelo -, di parole impastate paradossalmente di silenzio, il silenzio del confidarsi. Il bisogno di sentire una voce, prima ancora e più ancora che sentire parole. Quasi per un bisogno di sentire di esistere, dentro il vuoto. Un bisogno di sostenersi gli uni gli altri, dentro la depravazione. Mi colpì in questi giorni un amico. Squilla il telefono, mi dice: "Sentivo il bisogno della tua voce". Sono, questi, giorni in cui sentiamo il bisogno di voci, il timbro della voce".
Una voce? Qualsiasi voce? Non è forse questo il tempo in cui ogni voce sembra levarsi solo per sovrastare le altre? Come fare perché non si debba sentirsi costretti a chiudere porte e finestre per evitare il frastuono di voci inconsistenti? A quale voce schiudere la porta del cuore e provare ad ascoltare vincendo il dolore di antiche e recenti ferite? Anche quelle provocate da una religione che credevamo amica?
"Da povero uomo come sono, da povero cristiano in avventura, dentro l'avventura della vita, mi sono dato un punto di discernimento. Discutibile fin che vuoi, ma in qualche misura, penso, efficace. Non dico "infallibile", ma "efficace". Mi sono detto: "quando parlano, osservali, capirai dalla loro voce, capirai dai loro occhi, capirai. Capirai dove vanno i pensieri che li muovono. Dal tono della loro voce, dalla piega dei loro occhi, capirai ciò che veramente sta loro a cuore" .
Ti dirò di più: anche le pagine scritte, se le ascolti svelano la voce e gli occhi. Li ho sorpresi in alcuni scritti in questi giorni. Ma se non trovi pietà, un'umana pietà, né nella voce né negli occhi, non indugiare, cerca altrove.
Mi sono guardato intorno in questi giorni e mi sono ricordato di Gesù, vangelo di Giovanni. Era il giorno in cui aveva rischiato le pietre, le aveva rischiate, dentro lo spazio sacro del tempio, le aveva rischiate dagli uomini della religione, quelli che la fede l'avviliscono al rango grigio di un prontuario di norme. "Uscì dal tempio" è scritto, quasi a dire che quando la religione subisce un tale avvilimento, devi uscire. Cercare altrove".
Uscire dagli stretti recinti della sottomissione religiosa a dei comandamenti umani, anche se espressi con sacra autorità. Ma senza l'illusione di essersi liberati solo perché si cerca di essere illuminati dalla propria coscienza e si prendono giuste distanze dall'essere gregge senza parola. Il cammino si fa difficile e faticoso, ancora di più, perché anche tra le autorità di questo mondo "i teoremi contano più del dolore":
"E il racconto, il racconto della vita, continua per le strade: "e mentre passava, vide un uomo cieco dalla nascita. E i suoi discepoli lo interrogarono dicendo: Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori perché nascesse cieco?" (Gv 9,1-2). Il verbo "vedere" è al singolare. Giusto il singolare! Gesù lo vede. Non ditemi che i discepoli lo "videro".Quel povero cieco per loro era un caso, un caso su cui discutere. Nessuno di loro a misurare quel dolore degli occhi spenti, un dolore che aveva il tempo di una vita: dalla nascita. E lui Gesù, infastidito dalle discussioni teologiche, in cui Dio è assente, perché Dio o è il Dio della compassione o non è! Loro discutevano il caso. Lui guardava il cieco con compassione, quella che ti prende per fremito alle viscere.
Ti dirò che ho sentito in questi giorno uomini politici e uomini di chiesa parlare come quei discepoli: Eluana per loro è un caso, una bandiera senz'anima, senza più colori. Guardali, ascoltali: parlano con gli occhi asciutti. I teoremi contano più del dolore. Si permettono - e dovremmo tutti insorgere per sacra indignazione - parole oscene, dentro l'abisso del dolore. Parole che feriscono, come lama, il cuore. Parlano senza sapere, senza il vero sapere che o è sposato alla vita, quella reale o non è. O è sposato alla compassione o non è. Parlano da fuori, dai palazzi, come nei giorni di Welby, senza aver visitato, senza essersi seduti ad ascoltare. Non conoscono case, inseguono disegni, i loro, difendono se stessi con la più spudorata delle menzogne. Agitano bandiere, senza colore, perché se una donna o un uomo li defraudi della libertà di decidere, hai tolto tu loro ogni goccia di sangue, ogni colore, hai tolto loro il sangue e il colore della vita. Mi è capitato spesso di chiedermi, in giorni come questi che ci tocca di vivere, se, in assenza di certezze assolute, non dovremmo tutti batterci, come fa con spirito indomito - faccio un nome tra i tanti - un'amica, Roberta De Monticelli, perché almeno sia salva quest'ultima e prima istanza, quella della libertà, senza la quale non si è viventi, ma manichini, in mano ai poteri e ai loro disegni, fantasmi e cortigiani del nulla"
(don Angelo Casati, ibid.).
E sorge, amarissima, la constatazione della assenza di ogni autentica pietà, in questo nostro mondo, in questa nostra Chiesa. Così conclude don Angelo:
"Ho sentito parole oscene, ma ho anche visto immagini per me, dico per me, oscene. Ho negli occhi da giorni l'immagine di un'autolettiga che esce da una clinica, presa quasi d'assalto, quasi si trattasse di una preda da conquistare. Guardavo gli occhi: erano induriti dal livore, ho cercato invano segni di una umana pietà. Si mescolano rosari a urla minacciose, una pietà senza pietà e dunque spietata. Non ho visto silenzio di pianto. Ho visto difesa di bandiere. Ho sentito rabbrividendo parole infami, come quelle di chi gridava: "lasciatela a noi" quasi si parlasse di una cosa da tenere, come se Eluana non avesse né padre né madre, come se toccasse ad altri un possesso, per disconoscimento di padre e di madre. Le grida mi parvero per un attimo oscene. Dopo tanti discorsi tesi a rivalutare la famiglia, ora siamo giunti all'esproprio. E, ancora una volta, a chiedermi che cosa sia mai accaduto per renderei maledettamente senza pietà".
Sto leggendo - come stanno facendo altri, credo, perché uscito da poco - un interessante libretto di Luigi Zoja, "La morte del prossimo", edito da Einaudi. "Dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell'uomo" - scrive Zoja - "L'uomo cade in una fondamentale solitudine. E' un orfano senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale - è morto il suo Genitore Celeste - ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino. E' orfano dovunque volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la conseguenza ma anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni società, guardare i morti causa turbamento". E il tema della morte viene ripreso da Zoja che lo collega alla mancanza odierna di pietà che, secondo lui, non nasce innanzitutto per malvagità, ma per una difficoltà a comprendere che si fa indifferenza:
La morte del prossimo
"Da sempre si dice che l'uomo è uomo anche perché ha un rapporto con la morte diverso dagli altri animali. Quando muore il suo simile, l'animale si ferma accanto al corpo solo finché è caldo. L'uomo, a qualunque civiltà appartenga, compie riti e seppellisce il morto. In qualche modo, per lui, il morto continua a vivere.
Ma, a quest'antica coscienza i tempi ne stanno sovrapponendo una nuova. Eravamo diventati umani accorgendoci che anche i morti sono vivi. Diventiamo post-umani - o qualcosa che è altro dall'umano - quando cominciamo a convincerci che anche i vivi sono morti.
I vivi - la maggior parte dei vivi - sembrano avere smesso di vivere da un tempo che, quando ce ne accorgiamo, ci appare immemorabile: che non è, quindi, una conseguenza del nuovo secolo.
La maggioranza dei giovani non ha ancora cominciato a vivere. La maggior parte degli altri - non solo gli anziani, ma anche i quarantenni - pare irrigidirsi in un rigor mortis psichico, che contrasta con l'agitarsi fisico. Non si interessano agli uomini che 'hanno vicino, non per malvagità, ma perché non li capiscono. In una certa misura, questo avveniva in ogni epoca. Ma era più difficile vederlo riprodotto sui grandi pannelli della vita e restame ipnotizzati: era quindi più facile continuare ad essere società e umanità. Gli obblighi reciproci, la pietà, la compassione circolavano. Potevano continuare ad esistere e, a volte, esser creduti amore. Da quando il mondo si è fatto laico, e ogni cosa ha perso l'incanto divino ed è diventata misurabile, gli atti ripetitivi degli altri non sono più considerati rito - presenza di un contenitore universale - ma isolata nevrosi, ossessività, rigidità cadaverica. Il prossimo si è trasformato in lontano, uscendo dallo spazio.
E il vivo in morto, uscendo dal tempo.
Ma dove nasce questa sensazione? E' sensazione o proiezione? Inerte è l'osservato o chi osserva? Il mondo si rinnova a una velocità senza precedenti e non riconosce se stesso. Lo sguardo sente la distanza ma non sa se è nell' occhio o nel mondo osservato" (Zoja, ibid.)
Pensieri complessi, tutt' altro che facili da decifrare. Eppure si capisce molto bene che qualcosa è accaduto nel cuore dell'uomo di oggi. E non è cosa da poco: "il prossimo è morto, ma un certo prossimo più degli altri: quello vicino" (Zoja, ibid.). L'unica strada che abbiamo davanti è quella di cercare di recuperare il rapporto con questo vicino (il caso tipico può essere quello del migrante) per poter recuperare il rapporto con noi stessi. Ed è così che probabilmente può cessare la morte di Dio.
Il tema dei migranti ricorre qua e là frequentemente nel libro di Zoja sopra citato, e vi sono dedicati anche tre capitoletti dal titolo: "Migranti, capri espiatori, muri". Si legge con evidenza tra le righe la simpatia dell'autore per questa parte di umanità in movimento e il giudizio molto critico verso chi, ideologi o politici, intende alzare nuovi muri.



Luigi


in Lotta come Amore: LcA dicembre 2009, Dicembre 2009

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