Rompere l'isolamento

Ci attende un futuro incerto, enigmatico. E non solo per la pesante crisi economica e occupazionale, la pressione fiscale di una amministrazione statale famelica anche dello spicciolo, le manovre destabilizzanti di chi spera di pescare nel torbido. L'incertezza del futuro risiede tutta nella mancanza di alternative.
Ci stavamo adattando alla ricostruzione di un mondo messo in ginocchio dalla concorrenza bipolare. Ci stavamo attrezzando a prendere confidenza con nuove regole del gioco sociale, politico, economico. A lasciare al mercato (non solo delle cose, ma anche delle idee e dei rapporti) il ruolo guida di questa fase storica. E il linguaggio recepiva i nuovi slogan sulla necessità di ridare ossigeno alla politica rinnovando le istituzioni e spingendo verso nuove aggregazioni, affrontando con realismo i sacrifici imposti dal limite severo delle risorse, ecc. ecc.
Già, il linguaggio. Tangentopoli, come una magica lanterna, ha iniziato a filtrare raggi che illuminano tessere di una realtà diversa, impossibile da descrivere utilizzando l'universo simbolico conosciuto.
Le regole del mercato appaiono manovrate da buchi neri. La democrazia un giocattolo per scegliere il colore dell'erba di un prato. Il lavoro una condanna alla inutilità e alla nullità. La città un enorme letto di Procuste perché ogni differenza sia digerita e livellata. E l'amore di un uomo e di una donna inconcepibile se non è distillato nelle provette dei laboratori.
Lo svelarsi di sipari in caleidoscopiche sequenze ci lascia ogni volta più soli, prigionieri di una incomunicabilità che deriva non solo dalla mancanza di punti fermi, ma anche dalla percezione di aver vissuto fin qui una realtà dimezzata. Una realtà tronca in uno sfondo ben più complesso del nostro universo di valori, delle nostre regole, della stessa identità che ci riconoscevamo. Dove altri si muovevano e si muovono a cerchi indefinitamente più ampi. E l'incomunicabilità nasce non dalla impossibilità di gridare, ma di dare anche ad un solo grido un significato compiuto, traducibile per l'altro. Ci guardiamo in viso, in silenzio, le labbra strette dalla paura di esplodere anche solo in una civilissima protesta che ci lascerebbe comunque, se possibile - più soli di prima: protesta da parte di chi, insieme a chi? Per chi e per che cosa?
La diffidenza, il timore che la persona che abbiamo accanto per la strada si riveli un ectoplasma, un alieno, un essere clonato e non abbia nelle vene sangue caldo, né cuore a battere nel petto, né pelle sensibile che risponde alle carezze... questa paura non può non venire di fronte al rivelarsi di uomini come De Lorenzo. E delle migliaia di sosia e replicanti che il sistema - e se no che sistema sarebbe?! - ha disseminato negli uffici, nelle scuole, nelle sedi decisionali, nelle commissioni di ogni ordine e grado vere e proprie metastasi che irretiscono ogni aspetto della vita collettiva. E non parlo di loro in quanto artefici, complici, conniventi negli imbrogli, ladrocini e abusi per cui sono (saranno?) indagati, ma della loro nullità e assurdità umana che non sprigiona nessuna passione, nessun autentico calore umano: squallide maschere in via di imbalsamazione aurea da cui - ed è la maledizione del Re Mida - fugge ogni alito di vita. Fino a provocare un rigurgito di simpatia per quel vecchio pirata di Gardini!
Per questo forse gli scritti di questo numero contengono richiami alla pazzia. Per tentare di rompere l'isolamento che ci imprigiona e ci toglie ogni energia, ogni vitalità. Perché solo con una irrazionale, istintiva ostinazione, chiudendo occhi ed orecchi di fronte alle lusinghe delle sirene di turno, potremo avere la forza di incrinare la crosta dorata di passività che impedisce ai nostri sensi di vigilare e ci consegna, mani e piedi legati, alla separatezza e, per conseguenza, alla solitudine. E' necessario impegnare le forze in un ascolto sincero e nudo di sé, nella ricerca instancabile di rompere i muri della incomunicabilità ricostruendo con pazienza brandelli di linguaggio comune con le voci di oggi. Senza paura di ferirsi contro gli ostacoli di cui è disseminata ogni strada o di farsi del male negli incontri/scontri provocati dal procedere a tentoni.
Occorre liberarsi da una voglia di pace che sono sempre gli altri a dover fare perché da spettatori la si possa acclamare. E cercare pace in una inquietudine instancabile; nel mettersi in viaggio con il bagaglio leggero di chi non conosce dimora stabile, nel denudare le proprie e altrui ferite perché il sangue abbia ancora a mescolarsi tra gli umani.
Pazzia che rischia il contagio anche con tutto ciò che ci hanno insegnato ad evitare pur di poter mettere insieme olio sufficiente nelle lucerne per illuminare la via e attendere l'incontro che libera.
Pazzia che permette di fissare una rotta anche quando mare e cielo sembrano diventare una cosa sola per ingoiare tutto. Pazzia di uno sguardo che teneramente raccoglie anche le briciole per evitare che il nulla prevalga.
Parole, e sono poco più di un bisbiglio. Eppure evocano altre parole dette e scritte, prima che sulle pagine bianche di un libro, sulla carne e sul sangue di un uomo. Parole che non passeranno, al contrario della terra e del cielo. Ma anche queste parole devono trovare labbra e cuori capaci di ripeterle come se fosse la prima volta. Non è possibile sottrarre creatura a questa legge che unisce in un unico avvenimento e in un'unica ora tutti i tempi e i luoghi del mondo. Anche il Cristianesimo deve umiliarsi sotto le forche caudine di questo nostro tempo che ne misurano l'eternità - come altri momenti epocali in passato - attraverso la capacità di liberare e di liberarsi da una esperienza storica in cui sembra aver trovato la sua espressione massima. Per non rimanere prigioniero di se stesso e imbalsamato in una realtà non più reale. Ed è sfida alla quale la Chiesa di oggi appare particolarmente impreparata. Chiusa in una unità sempre più uniforme. Forte della sua indiscussa capacità di parlare ai diseredati della terra, ma lontana - ahi, quanto lontana! - dal parlare la loro lingua. Impegnata nel salvaguardare l'universalità di un pensiero ormai chiaramente delimitato nell'ambito di una delle provincie del mondo. Anche e soprattutto la Fede in Gesù Cristo deve liberarsi da contenitori che la imprigionano e la soffocano, isolandola dai contesti attualmente vitali, ponendola al centro di ogni tentativo di recupero e di restaurazione, rendendola omogenea alle grandi amnesie storiche battezzate spesso come perdono.
Una sottile vena di follia dovrebbe serpeggiare nello spirito di chi non si rassegna a considerare chiusa ogni possibilità di profezia. E cioè la forza di credere che la coscienza, nel cuore dell'uomo, è scintilla della Sua luce. E la dolce fiducia che a noi sia chiesto solo di abbandonarvisi.



La Redazione


in Lotta come Amore: LcA ottobre 1993, Ottobre 1993

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