La morsa liberata

Alla fine di agosto ero impegnatissimo nei lavori di pavimentazione del capannone di via Virgilio dove si sono svolte le nostre attività lavorative nell'ultima quindicina d'anni.
Dovendo gettare un nuovo manto di cemento, c'è stato da realizzare un completo sgombero delle attrezzature. Questo ha comportato la decisione di sacrificare la grande morsa a gambo che troneggiava davanti alla forgia di Rolando. Una morsa portata dalla officina di Bicchio insieme all'ormai inamovibile maglio. Un pezzo d'acciaio di vecchia fattura dove sono stati piegati, battuti, storti e serrati quintali e quintali di ferro incandescente. Per reggere i robusti colpi di mazza, ma soprattutto la forza della leva vincente dei lunghi ferri che venivano arrotolati pian piano sulle forme e che la morsa - una volta afferrate - non mollava più.
Ero davanti ad un pezzo di storia!
Ricordo che quando la gettammo, avendo timore che potesse muoversi, facemmo un lavoro di ancoraggio veramente superbo. Aiutati in ciò - devo dire - dall'ironia di Sirio che usava mettere avanti il suo desiderio di faticar poco per costringerci (da bastian contrari quali lui ci conosceva...!) a concludere l'opera nel modo migliore possibile.
Armato di un piccolo percussore, mi sono messo a sfare la base: volevo tirarla fuori intatta, come un enorme dente estratto dalla preistoria delle nostre fatiche di fabbri gelosi del loro mestiere, avvampati di sudore in una lotta d'amore con la materia che il fuoco rendeva duttile e plasmabile. Ma mi sono presto trovato di fronte ad un lavoro immane. I muratori che lavoravano nei locali attigui, ogni tanto venivano a guardare e scuotevano la testa: "ci vuole la fiamma ossidrica, altrimenti fra tre giorni sei sempre lì a scavare!".
I pavimentisti sarebbero stati lì dopo due giorni e quando iniziavano non si potevano più fermare. Ho continuato con ostinazione.
Ma, la sera dopo, ho lasciato il percussore e con fredda rabbia e determinazione, con il frullino in mano e la protezione incollata in faccia, in poco più di un'ora ho tagliato gli attacchi della morsa e l'ho liberata sia pure in due pezzi.
Ho raccontato questa piccola vicenda sentimentale (ma si può fare l'amore con una morsa?!?) non perché abbia importanza in sé, ma in quanto mi accompagnava, in quei giorni, una riflessione sulla "Lettera aperta ai preti operai italiani" che il Coordinamento Nazionale e la Redazione della Rivista omonima, hanno inviato a due mesi di distanza dal Convegno di Salsomaggiore (vedi l'ultimo numero di Lotta come Amore) in vista di un nuovo incontro da tenersi probabilmente nell'aprile '96: un invito a pensare, a prendere la penna...
E' verissimo il richiamo contenuto nel titolo del Convegno di Salsomaggiore alla resistenza: oggi, per chiunque - e perché quindi non anche per noi? -, sono grandi le tentazioni di resa.
Nel senso letterale di alzare le braccia di fronte alla realtà vincente delle nuove divinità, dei ricatti, della confusione paralizzante.
Ma come, dove, a cosa resistere? Al fatto di piangerei addosso? E' già qualcosa! Ci si lamenta anche troppo. Alla tentazione di smettere di lavorare? Perché? Qualcuno può permetterselo? Buon per lui, lo faccia subito!
Resistere negli impegni quotidiani personali, sindacali, politici cercando di fare del nostro meglio? Più che resistenza, la chiamerei onestà e coerenza. La resistenza sembra più connaturata ad eventi eccezionali: ma noi non rischiamo, al contrario, di essere inghiottiti dal mare grigio di una piatta banalità alla quale ci costringe quello che noi chiamiamo "pensiero unico"? Ed anche quando su qualcuno di noi si abbatte la violenza del sistema, sembra più che ciò sia dovuto all'esigenza del potere di pianificare le sue vittime, piuttosto che alla necessità del potere stesso di contrastare nostre strategie di lotta. L'invito alla resistenza, se non chiarisce questi nodi, rischia di apparire un po' demagogico e quindi di illudere che vi sia un'unica bandiera intorno alla quale stringersi.
Di quell'unica bandiera, nella frammentazione attuale, non riusciamo neppure a ritrovare l'asta...!
A me sembra che l'unica resistenza possibile e auspicabile oggi, (per i preti operai che non sono più residuali, ma unicamente dispersi in una di quelle ben più vaste operazioni di rimozione che la storia ciclicamente compie e che azzerano processi storici anche importanti all'insegna della normalizzazione), l'unica resistenza praticabile sia... resistere contro la tentazione di resistere!
Ci richiamiamo molto spesso a Bonhoeffer e quindi la parola resa non dovrebbe avere solo il significato negativo dell'accettazione di una sconfitta, ma anche quello positivo del lasciare che le cime siano allentate e la barca della propria vita possa affrontare liberamente il mare aperto spinta unicamente dal soffio del vento.
Ho apprezzato della "Lettera aperta" soprattutto il richiamo alla complicità, ad una nuova complicità tra noi.
Essere complici significa che ciascuno ha ben chiaro qual' è il proprio "interesse". La messa in opera della complicità è il risultato di un "conto" che ciascuno deve fare, nella propria solitudine, tra il proprio "rendiconto" e la impossibilità di un risultato adeguato se non si trovano, appunto, dei complici.
Va da sé che gli "interessi" personali, non solo non si discutono, ma possono essere anche legittimamente diversi. Quello che importa è che siano non solo componibili tra loro, ma anche che il loro grado di sia pur parziale fusione porti ad una crescita non meramente aritmetica delle energie con cui si può affrontare l'obiettivo comune.
E se quest'obiettivo non è la resistenza, o, più chiaramente la continuità ad ogni costo dell'esistenza del gruppo dei pretioperai, può esserlo la resa?
E cioè la liberazione di tutte le energie per lasciarsi andare incontro al futuro senza possedere il futuro? O addirittura senza averlo, come non lo abbiamo noi, almeno come gruppo nella Chiesa italiana?
Tale resa è aprire la porta al cambiamento vissuto non come tradimento, ma come esigenza di vita. Come trasformazione perché il processo di maturazione e di crescita possa compiersi e la terra generi i suoi frutti. Come diversificazione perché il processo di sintesi della vita non segue le vie dell'omologazione, ma quelle della polifonica esuberanza nella creatività.
Io non lavoro più con le mani ed è lontano ormai il tempo della mia assimilazione almeno nella fatica quotidiana alla realtà operaia. I pochi anni di vita come lavoratore dipendente nel mondo operaio, quelli davvero sono racchiusi nei fascicoli irrimediabilmente polverosi della memoria.
Come posso sentirmi complice?
Dovrò vestirmi dei vecchi panni, intervenendo al prossimo incontro del '96, ricorrendo alle vecchie cicatrici insieme alle ferite nuove e rimarcando la continuità della resistenza all'offesa contro la dignità umana?
Oppure potrò letteralmente arrendermi e lasciarmi andare ed ascoltare e partecipare i racconti di quanti di noi camminano e lasciano dietro di sé le tracce di una strada perché altri la possano percorrere, approfondire, portare avanti in nuove direzioni?
Perché allora la storiella iniziale della morsa? Beh, vorrei ritrovarmi insieme agli amici preti operai nell'aprile del '96. E spero, in quell' occasione, di non essere costretto a scavare sempre le radici della fondazione, ma, liberato dalla paura di non avere futuro, (in fondo, in fondo questa paura è il riflesso della paura ben più forte che la storia vissuta non sia stata vera...), di poter prendere coraggio a due mani e di liberare, con l'aiuto dei miei compagni, pezzi di novella progettualità.


Luigi


in Lotta come Amore: LcA novembre 1995, Novembre 1995

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