Rwanda: e come un anno dopo?

(da Goma, Zaire)
La donna giace sul nero terreno vulcanico del viale di una delle strade principali di Goma. Un uomo - forse suo marito? -, si china accanto a lei e stende un panno sopra il suo corpo esile. Migliaia di rifugiati Rwandesi camminano avanti e indietro portandosi dietro le loro povere cose e li scansano appena. Le macchine delle organizzazioni assistenziali passano veloci sollevando nuvole di polvere cercando di portare aiuto alla sofferenza di milioni di persone. L'uomo sussurra qualcosa alla donna e alza le spalle in segno di impotenza. La tiene tra le sue braccia emaciate. La donna fa una smorfia di dolore, ha un sussulto e muore. L'uomo le sta un momento silenzioso accanto, poi la avvolge tutta strettamente con il panno e lentamente si allontana. Quasi nessuno avverte quella straziante tragedia che si è consumata in quell' incubo che è lo Zaire orientale. Ognuno sta cercando di sopravvivere anche solo un giorno di più.
C'è gente dappertutto. Le strade sono intasate da un mare di umanità. Chiese e cortili sono pieni di gente che giace su misere stuoie o semplicemente distesa fianco a fianco su quella dura terra rocciosa. I viali, le traverse, i parchi e le spiagge del lago Kivu, ogni possibile spazio aperto di Goma e in direzione nord è affollato di Rwandesi disperati che hanno lasciato in massa le loro case per cercare rifugio in Zaire.
"E' il peggior disastro mai accaduto al mondo", dice un portavoce della Croce Rossa Internazionale, "e noi non possiamo farci nulla: ogni giorno va sempre peggio".
Non ci sono più alberi, quasi più erba. Le strade così congestionate da gente esausta che le macchine dei soccorsi quasi non si possono muovere. Una nuvola di fumo e di polvere stagna sopra la piccola città di provincia con i suoi 150.000 abitanti divenuti ora oltre un milione.
Ci sono corpi dappertutto. Esili corpi infagottati di coperte, stuoie e pezzi di stoffa; bambini, ragazzi, donne, uomini, vecchi. Corpi abbandonati da coloro che possono muoversi e vagare in cerca di acqua, cibo, medicine, qualunque cosa possa sostenere i loro corpi esausti. Muoiono dove cadono, a migliaia.
E' una scena di dimensioni apocalittiche.
E' un inferno.
Ma, come dice l'arcidiacono Katanga Masingo della diocesi Anglicana di Goma, cominciano ad apparire fragili segnali di speranza: "Cerchiamo bambini che sono stati separati dai loro genitori e li stiamo radunando in un posto in modo tale che possano essere ritrovati dai loro genitori, se questi sono ancora vivi. Offriamo parole di incoraggiamento e diamo una mano per provvedere cibo e acqua per coloro che sono troppo deboli per andare ai campi, adesso meglio organizzati, fuori di Goma. I cristiani in Zaire sono molto generosi". In effetti è nei recinti delle chiese dove vengono effettuati alcuni degli interventi più ardui. File di ammalati di colera giacciono tremanti contro un muro. In ogni braccio c'è un'endovena. I volontari cercano di far qualcosa per gli ammalati di colera e dissenteria che affluiscono senza fine in condizioni così disperate da non credersi. Trenta corpi sono messi in un angolo l'uno sopra l'altro nelle ultime 24 ore e si aspettano i volontari Zairesi e i militari Francesi per trasportarli in una fossa comune scavata dai bulldozers nella roccia dura vicino l'aeroporto.
Quasi ogni cristiano, prete o laico, in Goma ha dei rifugiati in casa, dice il Rev. Paluku Musavabo, presidente locale del Consiglio Cristiano dello Zaire. "Non abbiamo mai visto così tanto la morte. Solo morte, morte, morte. E' una catastrofe e noi non sappiamo neppure immaginare su quali risorse contare per lottare contro. E' tutto ben oltre le nostre capacità. Tutti i nostri pastori sono esausti, le chiese sono stipate, ogni famiglia qui ha dei rifugiati che vivono con loro. Non sappiamo come fare di più. Non riusciamo neppure a seppellire tutti i morti.
Alcuni dei 2 milioni di rifugiati R wandesi nello Zaire orientale stanno lentamente spostandosi nei campi fuori Goma organizzati dall' Alto Commissariato ONU, ma oltre un milione rimane ancora nella città o nell'immediata vicinanza. In circa 2.000 hanno iniziato un viaggio molto incerto per ritornare alle loro case piuttosto che affrontare la morte in Zaire.
50.000 persone moriranno ugualmente di colera a meno che cibo e acqua non arrivino al più presto. Già almeno 12.500 sono morti e i sanitari Zairesi dicono che la malattia è fuori di ogni possibilità di controllo. Un morto per colera ogni mille abitanti è normale da queste parti, due per mille significa già epidemia, 10 per mille vuol dire catastrofe, "ma qui - come dice un volontario stravolto ed esausto, - siamo già oltre il 30 per mille, tra i rifugiati".
La sicurezza inoltre è appesa ad un filo.
Migliaia di soldati dell' esercito dell'ultimo governo rwandese sono fuggiti con i rifugiati. Il posto di confine di Gisenyi-Goma è pieno di armi ammassate in alte pile. Granate, fucili automatici e perfino mortai con altro equipaggiamento militare sono stati sequestrati dai soldati dello Zaire che hanno messo i soldati fuggitivi in campi separati. Ma in questi campi si spara ogni notte e la tensione è altissima.
Nell'area di Goma ci sono almeno 100.000 bambini rimasti soli.
Lunedì' mattina, 25 luglio, le autorità dello Zaire si accordarono per permettere a quelli che desideravano tornare in Rwanda di partire. Il Fronte Patriottico Rwandese (RPF) assicurò loro la vita. I rifugiati, macilenti e impauriti dissero di voler tornare indietro. "E' meglio correre il rischio di essere uccisi che morire di fame qui. Se resto ancora un giorno, rischio di morire ugualmente: non mangio nulla da una settimana. Meglio esser uccisi in patria che morire di fame qui in Zaire. Ci hanno rubato tutto; il cibo che abbiamo portato, le scarpe, le coperte, i vestiti. Voglio correre il rischio con il RPF", dice un uomo ad una piccola folla che si raduna intorno a due visitatori. Altri dicono che le condizioni in Zaire non sono poi così disperate e che preferiscono rimanere: "Ma fondamentalmente siamo spinti a tornare indietro perché qui si muore di fame e quindi si cerca una via per sopravvivere".
E' l'alba. Il sole sta sorgendo sul bellissimo lago Kivu. Gruppi di gente cominciano a sollevarsi dal suolo dove hanno cercato un po' di riposo. Fa freddo. I fuochi sono ancora accesi con pezzi di legno ancora ardenti. C'è un sordo sussurrare ovunque nella città e quella massa umana è come un solo corpo scosso dalla disperazione, dalla paura, dalla malattia. La gente si alza in piedi per rispondere alle domande di ogni inizio di giornata: troverò da mangiare?, acqua da bere? ci muoveremo nei campi?, che cosa succederà oggi? Ma non tutti si rialzano. Si muore di più, di notte. E cresce la malattia e l'esaurimento delle energie. I sopravvissuti avvolgono in miseri panni i corpi dei loro congiunti, delle persone amate. Si chinano su di loro cercando di fare qualcosa che lenisca la febbre che li divora. Un sorso d'acqua di dubbia provenienza, appena per bagnare le labbra dei più deboli. E i volontari locali con i lavoratori dei gruppi assistenziali cominciano a muoversi per portare incoraggiamento e speranza là dove ce n'è veramente rimasto ben poco.

Joseph Ngala




in Lotta come Amore: LcA luglio 1995, Luglio 1995

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