Verso un'etica del confronto

Siamo arrivati all'estate, eppure non sembra questo il tempo per andare in vacanza. Un periodo di riposo è certamente un giusto desiderio e speriamo che i più lo possano realizzare. Ma la vacanza, - intesa come una parentesi entro cui racchiudere sogni ed attese di un tempo diverso, per ritornare puntualmente a rivestire i soliti panni al ritorno non sembra a portata di mano. O meglio, non sembra a portata di mano quel ritorno nei soliti panni che ha rappresentato per anni la tappa obbligata di una affermata tradizione consumistica celebrata su strade e autostrade: il cosiddetto rientro. Perché nessuno più si illude di ritrovare le cose come prima, di ormeggiare la propria barchetta allo stesso approdo. Il "nuovo" che avanza ha contorni tutt' altro che rassicuranti: la consapevolezza di aver tanto sprecato ed assai poco realmente goduto, la nausea conseguente la lunga sbornia della felicità ad ogni costo, ci consegnano ad un senso di colpa variamente verniciato di nuove furberie e vecchie rassegnazioni. E il senso di colpa è quasi sempre sabbia mobile sulla quale niente si costruisce e dalla quale ora speriamo di uscire aggrappati alla coda del destriero del Cavaliere.
La posizione scomoda, l'umiliazione di trovarci così vicini al sottocoda, l'irritante constatazione di uno scenario destinato con ogni probabilità a durare, sono fastidi che neppure i primi freddi dell'autunno sembrano poter scacciare come le zanzare. E sono preoccupazioni capaci di succhiarci ben più di una goccia di sangue e cioè la speranza e la vitalità che alimentano ogni umana relazione.
E' sempre più necessario scrollarsi di dosso ogni atteggiamento vittimista, ogni schema semplicistico che riduce la complessità del reale all'eterno scontro tra il Bene e il Male, e rimboccarsi le maniche. Lo dicevamo già nell'articolo di apertura del numero scorso intitolato proprio "Il coraggio di operare". Ma ora ci chiediamo (ed è una domanda ricorrente su queste pagine, e non solo... ): che cosa fare?
Innanzitutto, riprendendo l'articolo appena citato, dobbiamo cercare di tenere tutti e due i piedi bene per terra.
E' quindi decisiva una presa d'atto della realtà, mettendo un freno - come dice Simone Weil- all'immaginazione capace di sostituire la realtà stessa con schemi che anestetizzano la sofferenza personale incanalata nei grandi destini della "causa" e ci impediscono di agire.
Questo lo si può fare se guardiamo la realtà non "da lontano" (ci immaginiamo le stelle tutte uguali, lassù nel cielo; forse solo un po' più piccole o un po' più grandi... ), ma "da vicino", come Maria Cavalleri "compañera" di un altro popolo (vedi pag.l0) o come fratel Arturo (vedi pag.3). Lo sguardo "ravvicinato" esplicitato da Alessandra Bocchetti in una recente conferenza a Viareggio per il Centro Lilith, non fa ordine, non produce verità incontrovertibili. Anzi, spesso chi ne fa esperienza, può rimanere intrappolato dalle contraddizioni delle diversità riscontrate fino a reagire impietosamente al male con il male (non si aiuta forse più volentieri chi ha fame e sta lontano e ce lo immaginiamo come vogliamo, piuttosto di chi ci sta vicino e di cui soffriamo l'arroganza o la disperazione?). Come è possibile quindi sostenere lo sguardo "da vicino"? Accettando di non immaginare di essere buoni perché indifferenti (cioè incapaci di fare differenza e quindi giusti perché trattiamo gli altri tutti allo stesso modo... ) ma lasciandoci coinvolgere e preparare alla pietà.
"Nei rapporti con gli altri - scrive Roberto Berton nell'articolo citato a pag.l0 - si è nella ricerca di sé, si confessa la propria fame e la si lascia allo scontro con la fame degli altri e al confronto". Quando il rarefarsi delle relazioni significative ci consegna alla necessità di tenere sempre alta la guardia, diffidando di tutto e di tutti, allora misuriamo con mano come siamo lontani dalla consapevolezza delle urgenze che la realtà presente ci propone. Occorre scuotersi da simili ipnotismi, prima di verificare quanto sia spaventosamente breve il passo tra l'indifferenza e l'odio. Prendere il proprio sacco sulle spalle e addentrarsi, convivendo con mille paure, nei vasti territori del confronto, è avventura semplicemente doverosa per rimanere vivi e ritrovare le ragioni delle essenzialità (vedi la riproposizione di uno scritto di Sirio a pag.8).
E dal deserto severo e scarno delle nostre individualità spogliate dalle tentazioni di assoluto, occorre riprendere a progettare e costruire ponti con la realtà di questo mondo e con l'altrui diversità.
Scrive ancora Berton nell'articolo per Maria Cavalleri: "Non una politica di potenza o di tolleranza che ritiene in fondo sciocche le verità degli altri, ma di confronto. Così l'andare, il restare, il ritornare, il ripartire di Maria e di tante altre sue sorelle e fratelli non è inquietudine, ma sta dentro al pellegrinaggio in cui tutti siamo costretti. Anche la democrazia si fonda su questo".
E, su questo accenno alla democrazia lui stesso cita Cacciari (Geofilosofia dell'Europa, ed. Adelphi): "La democrazia è un sistema di 'sradicamento'. Tutti i suoi comportamenti presuppongono un' assenza di sede, di dimora. In questo senso siamo ormai tutti quanti degli extracomunitari. E per questo è necessario inventare un paradossale ethos di pellegrinaggio. Ma attenzione. Non nel senso bolso oggi in circolazione come ricerca di un punto intermedio. Come sistematica sospensione dei valori in gioco. O come assoluto relativismo, che è poi il massimo dell' intolleranza...
No, la democrazia è il confronto tra posizioni animate da una fortissima etica della convinzione, per dirla con Weber. lo tengo ferma la mia posizione. Parlo con te quando sono convinto, persuaso. E per questo riconosco la necessità della tua persuasione. Così come sono pronto a subire un contraccolpo da questo confronto".
Acquista qui una luce particolare la riproposizione che Beppe fa (vedi pag.4) del secondo Libro della Pace di B.Benson. Uno che tiene ferma la sua posizione e cerca di agire e non nasconde la propria immobilità dietro la pazzia altrui. "Ma sono pazzi!" - esclama il figlio dopo aver ascoltato le ragioni dei Paesi Civili che continuano a fabbricare armi per il mercato e per l'occupazione. "La pazzia - risponde Benson -, è semplicemente una questione di come si vedono le cose, figliolo. Per chi ama rannicchiarsi su un divano e guardare la TV, scalare il Monte Everest è semplicemente una pazzia, dipende dal punto di vista". Scopriamo quindi che ci sono persone - e possono essere tantissime - che vedono le cose diversamente da noi. Che cosa fare, allora? Se siamo "tutti extracomunitari", come dice Cacciari e nota Berton, abbiamo tutti lo stesso compito: vivere da uomini e da donne con altri uomini e donne. Per questo è necessario alleggerire le nostre grandi verità che a noi sembrano assolute e rendere più forte l'etica del confronto.




La Redazione


in Lotta come Amore: LcA agosto 1994, Agosto 1994

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