Cesar Chavez leader della nonviolenza

Il 23 aprile scorso, all'età di 66 anni, è morto a San Louis (Arizona) César Estrada Chavez,
fondatore del sindacalismo nonviolento negli Stati Uniti. Era in casa di amici: l'hanno trovato nel suo letto, morto nel sonno. Una morte discreta, silenziosa, non spettacolare. Non riusciamo a crederlo: i grandi leaders della nonviolenza non hanno conosciuto una morte così pacifica, così naturale (ricordate Gandhi, Luthuli, Luther King!). Eppure era stato un uomo attivissimo, aveva avuto avversari potentissimi, non solo i grandi proprietari terrieri della California e i padroni dei grandi supermarket, ma anche la mafia americana e il potente sindacato dei camionisti, diretto da Jim Hoffa e Fitz-Simmons, personaggi senza scrupoli notoriamente legati alla mafia. Era sfuggito più volte a degli attentati, era sopravvissuto a lunghi digiuni di protesta. La sua lotta è stata lunga, difficile, mai terminata.
Anche se verrà precisandosi nel corso del tempo, l'opzione di Chavez per la nonviolenza è già
esplicita fin dal primo momento. Ma la non violenza di Chavez non è nata da una ricerca teorica, che ha soppesato tutti i pro e i contro delle forme di azione violente e di quelle nonviolente. D'altronde Chavez non era un ideologo e sicuramente non avrebbe voluto diventarlo. Il suo regno, come leader del movimento nonviolento, era quello dell' azione. Quanti andavano a trovarlo rimanevano sempre colpiti dal suo cocciuto rifiuto a teorizzare (la teoria percepita come una mistificazione!), dall'assenza di sistemi di riferimento categoriali e di una visione politica globale. Questo può sconcertare noi europei, sempre molto ideologizzati, ma non dobbiamo sottovalutare la controparte positiva di quest'atteggiamento: l'audacia e la felice creatività nonviolenta derivante da questa libertà
nei confronti delle norme e delle filosofie politiche. "La nostra nonviolenza - soleva dire - è molto terra-terra. Deve far fronte prima di ogni altra cosa a dei problemi economici. ( ... ) Posso solo dire che vi è attualmente una pratica della nonviolenza ( ... ) E' molto difficile parlare di nonviolenza a livello intellettuale, perché la nonviolenza è la gente e il modo con cui si comporta ( ... ) La nonviolenza è in grande difficoltà quando deve rispondere a tutte quelle domande che cominciano con il se: "Cosa succede se un uomo tira fuori il coltello o un fucile, o se ... , e se ... ". La non violenza non è questo. Se capitassero tali cose, Dio solo sa cosa si potrebbe fare".
Chavez rifiutava la nonviolenza "a buon mercato" di quanti impiegavano la retorica moralistica e non si assumevano le proprie responsabilità di fronte alle sofferenze umane. Per Chavez non è questa la nonviolenza. Non c'è ragione di essere nonviolenti se manca il fine, se non si vive per gli altri. Come Alinsky, Chavez è un pragmatico; come Gandhi, di cui ha letto le opere, si muove in modo sperimentale ("idealismo pratico"), facendo i "suoi esperimenti con la verità". Alinsky e Gandhi gli sono stati maestri di strategia. Chavez ha cercato di metterla in pratica. L'argomento decisivo a favore della nonviolenza è per Chavez la sua efficacia. Per provarla non c'è altro da fare che agire. Per questo dava molta importanza all'azione. "Senza azioni nonviolente - diceva - la nonviolenza non funziona e
la gente diventa violenta. Bisogna agire, per poter dire alla gente che la nonviolenza funziona, è efficace ( ... ). La nonviolenza da sola è una energia senza forza. Il suo solo valore è quello che acquista nel contesto di una lotta attiva per la giustizia. Se questo manca, è inutile parlare di nonviolenza, perché non ha alcun senso nella nostra vita".
La nonviolenza per Chavez è soprattutto organizzazione. Organizzare significa per lui: "comunicare con la gente", "aggregare della gente", "restare insieme" e "agire insieme", creare un movimento che permetta alle moltitudini di sfruttati di agire e di perseverare nell' azione. Egli stesso si riteneva soprattutto un organizzatore. Si era buttato ad organizzare un gruppo che nessuno era mai riuscito ad organizzare. Prima che lui arrivasse, gran parte dei suoi seguaci non solo non sapevano che cosa fosse la nonviolenza, ma non avevano mai partecipato' ad uno sciopero. Chavez si era rivolto ad essi non imponendo la nonviolenza dall' alto ma facendo in modo che l'accettassero indirettamente, facendo il primo passo e incominciando a praticarla. E' riuscito a trasformare quei contadini rozzi e analfabeti in attivisti nonviolenti. Anche se occasionalmente qualcuno lanciava dei sassi, nessuno ha più portato armi o coltelli o bastoni durante gli scioperi. Queste sono rimaste le armi dell' avversario. La gente ha avuto spirito di sacrificio. Non è stato difficile. La gente chicana accettava e comprendeva il concetto di sacrificio perché faceva parte della sua tradizione. Chavez ha dato ad esso un senso nuovo, quello della nonviolenza: non rassegnazione, ma capacità di sopportare la sofferenza che deriva dalla lotta per la causa giusta. E' importante sottolineare anche il ruolo che la religione ha occupato nel movimento di Chavez. I chicanos sono molto religiosi (la maggior parte sono cattolici). La religione ha dato loro la forza di impegnarsi e di perseverare nella nonviolenza. Anche Chavez era molto religioso. Si sentiva impegnato alla nonviolenza dalla sua religione e durante le marce non mancava di portare, oltre ai cartelli, la sua croce. Ha cercato subito l'appoggio delle chiese e nei momenti più difficili un contributo, a volte decisivo, gli è venuto da sacerdoti cattolici e da pastori protestanti. Ma non equivochiamo sulla natura religiosa della nonviolenza: "Noi non siamo non violenti - diceva Chavez, - perché vogliamo salvare le nostre anime. Siamo nonviolenti perché vogliamo ottenere
la giustizia sociale per gli operai".

Molti credono che un' organizzazione che usa metodi nonviolenti per raggiungere i propri) obiettivi debba continuamente riportare vittorie una dopo l'altra per convincersi a rimanere nonviolenta. Se cosi fosse, moltissimi sforzi sarebbero segnati solo da miserabili fallimenti. C'è qualcosa di molto più grande in gioco di quanto lo sia la vittoria. La mia esperienza mi dice che i poveri conoscono la violenza molto più da vicino di tutti gli altri, perché è una parte della loro vita. Sia la violenza delle armi che quella della miseria e del bisogno. Non sottoscrivo la diceria che la non violenza sia sintomo di paura, come dicono diversi gruppi militanti. In tante istanze la non violenza richiede uno spirito di militanza più forte della violenza. La non violenza costringe ad abbandonare l'uso di mezzi sbrigativi per ottenere qualcosa e cercare di cambiare l'ordine sociale esistente. La violenza, il metodo spiccio di avere qualcosa, è la trappola in cui cade la gente quando comincia a credere che questo sia l'unico modo per ottenere un risultato. Quando il popolo imbocca la strada della violenza, questa sarà sempre della specie più brutale. Quando la gente è coinvolta in qualcosa di costruttivo, cercando di contribuire a cambiare qualcosa, ha meno bisogno di essere violenta al contrario di coloro che non sono affatto impegnati nel ricostruire qualcosa o in qualcosa di creativo. La nonviolenza spinge ad essere creativi; costringe ogni leader a confrontarsi con la gente e a coinvolgerla fino al punto che questa ne venga fuori con nuove idee. Credo che una volta che il popolo comprende la forza della non violenza - la forza che genera, l'amore che produce, la qualità della risposta da parte dell' intera comunità - non l'abbandonerà più tanto facilmente.

César Chavez




in Lotta come Amore: LcA gennaio 1994, Gennaio 1994

menù del sito


Home | Chi siamo |

ARCHIVIO

Don Sirio Politi

Don Beppe Socci

Contatto

Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455

Link consigliati | Ricerca globale |

INFO: Luigi Sonnenfeld - tel. 0584-46455 -