Lettera ai parrocchiani

... Penso spesso - da un pezzo a questa parte - che cosa vuol dire per dei preti operai essere parroci e - di converso - cosa può significare per una parrocchia avere come parroci dei preti operai. Una grande sfortuna, innanzitutto! I preti operai sono in estinzione. Se ne contano ormai un centinaio e senza possibilità di riproduzione. Neppure il W.W.F. può fare più niente per noi... E allora, voi direte? Proprio a noi doveva toccarcene una coppia? Oh, che parrocchia disgraziata!
Sì, disgraziata per più ragioni. Non ci sarà, innanzitutto, come dicevamo, continuità. Sarà come arare la terra nella parte del campo dove sappiamo che tra poco verrà costruita una strada. O il contrario. La disgrazia comunque di quel "fare e disfare" a seconda del vento che tira (e cioè del parroco...) che è il frustante tran tran di tante - troppe - comunità parrocchiali.
Non siamo poi neppure un Ordine come i Servi di Maria, i Francescani, i Cappuccini, tanto per citare alcune famiglie religiose che hanno la responsabilità di una parrocchia nella città. Queste famiglie hanno sì il loro vestito, le loro devozioni, le loro regole, ma esprimono anche un parroco che fa il parroco come si deve! Certo che noi non siamo un Ordine, ma semmai un disordine l'avrete capito da quel dì... e quindi avete anche visto che non ci preoccupiamo né tanto né poco di organizzare la nostra vita in modo che almeno uno di noi sia presente con regolarità nei diversi momenti di vita parrocchiale. Ed infine avete constatato che tutto questo non ci fa problema, non lo portiamo dietro come un'imbarazzante condizione, non ce ne scusiamo neppure! Come se fosse la cosa più normale di questo mondo che un prete si occupi dei problemi della comunità solo dopo il lavoro come un qualsiasi padre di famiglia che torna verso sera per portare a casa il pane e partecipare della vita familiare.
Ci chiamiamo e ci chiamano preti operai. Ma che razza di preti sono questi preti operai? Nel nostro caso non è facile rispondere. Ci sono, nella mia vita e in quella di Beppe, elementi di possibile e prevedibile confusione che non aiutano ad una risposta immediata e semplice. Un elemento di
facciamo, ormai da lungo tempo, un lavoro operaio. Ancora di più: il lavoro che facciamo attualmente complica le cose trattandosi di un lavoro sociale. Un lavoro, quindi, assai in linea con molti dei compiti che il prete esplica in gran parte del suo ministero e non certo così dichiaratamente diverso come il fare l'operaio. Il tutto aggravato per di più dal fatto che per qualche anno (non per colpa nostra, ma per mancanza di energie, io in Etiopia, ecc. ecc.) abbiamo navigato sul filo della pura assistenza all'handicap e di un lavoro che - dal punto di vista economico - era poco più che un rimborso spese (però siamo stati bravi a sopravvivere...). E quando ci siamo incontrati, per la prima volta nella chiesa parrocchiale, era proprio così.
Non risulta quindi chiaro, non può risultarvi chiaro, visto che ci occupiamo di handicappati, perché siamo così "trasandati" nel nostro essere parroci. Mentre ci sono preti che si occupano dei poveri, dei drogati, degli extracomunitari e sono parroci nella norma e fanno tutto meglio di noi occupandosi di problemi sociali e di liturgie, di gesti concreti di solidarietà ed insieme di catechismi e di pastorale.
Perché noi ci ostiniamo a parlare di ciò che facciamo al Capannone di via Virgilio in termini di lavoro e non di missione o di impegno caritativo?
Non sarebbe molto più semplice se accettassimo di vivere quell'impegno di solidarietà insieme all'impegno parrocchiale come un'unica testimonianza?
Ho cercato, in questi ultimi tempi, di fare uno sforzo perché risulti più chiaro che il capannone che è in Via Virgilio 222 non è il nostro capannone e che la cooperativa non è la nostra cooperativa. Nostra e cioè, mia e di Beppe. Come se fosse un'altra parrocchia, un'altra iniziativa, un hobby sia pure buono e santo - di due preti che sarebbero pure bravi parroci, ma hanno da trafficare nel loro ambiente e nel loro lavoro. Sono contento che ora, in cooperativa, so di lavorare (e lo sanno anche gli altri che lavorano con me) non perché sono un prete, ma perché ho alcune capacità direttive e Beppe, non perché è un prete, ma perché sa impagliare le seggiole e sa usare questa sua capacità per orientare le piccole autonomie di soggetti gravemente handicappati.
E spero risulti sempre più chiaro che il nostro è un lavoro come un altro e che non lo facciamo
meglio di altri perché siamo preti. Nella cooperativa c'è gente che lavora almeno con altrettanta professionalità ed è il saper fare che conta, non l'intenzione anche se sorretta da santità di vita! Se di una cosa mi sento di chiedervi perdono, non è davvero perché pratico poco la Chiesa (che ostinazione, direte voi!), ma perché ho lasciato che questa chiarezza non risultasse così viva per una condizione di vita, buona e generosa quanto volete, ma purtroppo poco attenta ad una essenzialità di modi e di atteggiamenti e di trasparente semplice messaggio. Il messaggio che noi preti operai portiamo scritto dentro la fedeltà (non ad una scelta, ma ad una vocazione) della nostra vita, lo portiamo scritto nel nostro stesso nome: prete operaio. Un nome fatto di due termini quasi opposti, vissuto da una sola persona. Come un problema di equilibrio su due appoggi distanti, assai distanti tra loro. Perché si liberi un confronto tra la fede e la vita. Un confronto che spesso viene risolto separando il tempo in cui nella vita si lavora, si sta insieme, si gioisce e si soffre e il tempo per pregare e per i propri doveri religiosi.
Sì, noi preti operai siamo divisi tra il lavoro e la religione, ma quanta (tanta) gente non lo è? Questa divisione la assumiamo su di noi e cerchiamo, attraverso la nostra povera testimonianza, di indicare la frattura. Perché non accada - ma quando mai non accade!?... - che la connessione tra la fede e la vita sia ricomposta a spese dell'una o dell'altra dimensione sacralizzando la vita o togliendo ogni tensione storica alla fede. Così capite meglio che non è la mancanza di tempo e di energie che ci tengono lontano dalla chiesa e dalle sue attività.
E' perché per noi non si tratta della cosa più importante! Questo non significa: tra le cose che non contano. Tutt'altro. Ma per noi è più importante che la gente senta la presenza e la vicinanza di Dio in officina, in casa, nella scuola. E' qui che mettiamo le energie! Ci interessa meno sforzarci perché la gente venga in Chiesa, perché la parrocchia attiri, perché sia un centro funzionale e funzionante, ecc. ecc.
E perché la gente preghi in casa, in ufficio, in officina, a scuola, in cucina, ecc. ecc. non ha bisogno di maestri che dal di fuori insegnino questo. Ha bisogno di riprendere fiducia nella propria capacità di incontrare Dio attraverso la preghiera della vita ed ha bisogno di credenti e di preti capaci di aiutarli a sbrogliare pian piano la matassa che ha avviluppato la religione in una serie di pratiche, di devozioni, di intenzioni, di liturgie, di forme di vita tali da soddisfare coloro che le praticano, ma incapace per lo più di creare rapporti nuovi con la storia e l'esistenza dell'umanità.
Non è che questo lo possiamo fare solo noi preti operai. Sarebbe presunzione assurda e inaccettabile. Siamo solo segno di questa sete, di questa fatica, di questa lotta.
Come preti operai viviamo coscientemente la divisione. Non siamo la divisione, ma conviviamo con essa, con chiara avvertenza. Divisione tra corpo e anima, materia e spirito, dipendenza e soggettività e divisione nell'umanità tra oppressi e oppressori, popoli sviluppati e popoli depressi, culture dominanti e culture destinate a scomparire...
Considerateci "infedeli" allora, non quando non ci trovate in chiesa o in parrocchia, ma quando lasciamo la vita, le sue contraddizioni, le sue lotte, fuori della porta di chiesa, quando ci prestiamo a piegare il Vangelo alle condizioni di questo mondo perché nessuno si inquieti e Dio sia il solito tappabuchi. Quando il nostro lavoro risulta il facile lavoro di due scapoloni, quando sa troppo di opera pia e cioè quando non si capisce più dove sia il lavoro e si vedono solo due preti che si affaccendano a fare del bene!
La fedeltà passa attraverso una linea sottile e fragile che si cala, fino anche a scomparire, nelle pieghe della vita quotidiana. In essa dobbiamo prima ritrovarci come comunità e quindi essere sostenuti vicendevolmente dai doni e dai misteri di cui ci sovrabbonda la dolce bontà di Dio.
Con affetto.


Luigi


in Lotta come Amore: LcA gennaio 1994, Gennaio 1994

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