Vecchie utopie

Mi piacerebbe che ci fosse un vescovo (anche uno soltanto) che una mattina, al sorgere del sole, in una qualunque diocesi d'Italia, dopo aver partecipato ad una delle tante "tavole rotonde" sulla lettera enciclica di papa Giovanni Paolo II "Centesimus Annus", avesse l'illuminazione di cominciare a vivere del lavoro delle proprie mani.
E quando dico "lavoro" intendo proprio un lavoro reale, semplice magari, ma vero: il lavoro del contadino, dell'operaio agricolo, del ciabattino, del fabbro, del falegname...
E quindi attrezzare (questo vescovo della mia vecchia utopia sicuramente ingenua e fuori del tempo) una qualche stanza del suo episcopio a piccola "bottega di lavoro"; oppure uscire all'ora prescritta per andare alla quotidiana fatica per guadagnarsi il "pezzo di pane".
Mi piacerebbe molto che una simile cosa accadesse molto semplicemente, quasi in silenzio, come nel silenzio carico di vita si aprono i fiori in alta montagna.
Un avvenimento senza pubblicità, ma nella chiarezza di una scelta pubblica, fraterna, gioiosa, convinta.
Una scelta che nascesse a seguito di un amore traboccante per Gesù di Nazareth, il "figlio del fabbro", lavoratore anche lui negli anni sconosciuti e "silenziosi" che formano la maggior parte della sua vita.
Magari passando attraverso la memoria dell'apostolo Paolo che ricorda con schietto orgoglio (se non sbaglio, ai cristiani di Corinto) che il suo annuncio del Vangelo si era intrecciato con i fili del tessitore di tende.
Mi piacerebbe, dicevo, venire a sapere che questa inutile, ingenua, meravigliosa, semplice cosa è accaduta in qualche diocesi italiana il cui vescovo e pastore avesse deciso di intraprendere un cammino di povertà nella "riscoperta" della teologia di Nazareth: una teologia rimasta, forse, sepolta sotto la cenere di una immagine della Chiesa che e' ancora sicuramente troppo legata al modello che proviene dalla cultura imperiale romana (da Costantino in avanti).
Un simile avvenimento probabilmente non provocherebbe la fioritura di convegni, giornate di studio, seminari, dibattiti culturali ecc., ma sarebbe una straordinaria lettera pastorale a tutta la Chiesa di Dio pellegrina nel mondo.
Mi piacerebbe anche che nella solita mattina, colma di sole e di brezza leggera, tutti gli operai che lavorano nelle molte fabbriche di armi italiane, al Nord, al Centro, al Sud, fossero presi da una improvvisa, assurda, straordinaria voglia di ribellione, di rifiuto, di lotta dura e tenace, a seguito di un inspiegabile "rigurgito della coscienza".
Voglia di recuperare in un solo momento la propria dignità di uomini, di lavoratori segnati dall'assurdo destino di fabbricare con le proprie mani e la propria fatica dolore, distruzione e morte.
E allora, tutti insieme, nello stesso momento, assumessero per sempre la storica decisione di non costruire più armi, di non spendere una goccia di sudore, un grammo di energia, di intelligenza, di vita, per la realizzazione di tutto quell'orribile arsenale militare che in tempo di pace mangia miliardi sulla pelle dei poveri, degli affamati, dei deboli della terra, e in tempo di guerra produce fiumi di sofferenza e di strazio senza fine.
Non sarebbe un giorno meraviglioso quello in cui la scure fosse decisamente calata alla radice della "mala pianta" di un' industria che prospera soltanto succhiando il sangue dei poveri e degrada la dignità' del lavoro umano?
Mi piacerebbe moltissimo, nella stessa dolce, luminosa, straordinaria mattina, partire dal piccolo angolo della darsena dove è' ancorata la casa che mi protegge e mi accoglie soprattutto di notte, per mettermi in cammino, a piedi, lungo le strade. Vorrei tanto camminare fra la gente, semplicemente camminare. Salutare, stringere qualche mano, scambiare qualche parola e soprattutto dire "pace". Vivete in pace, cercate la pace, non vi stancate di impastare ogni giorno il pane della pace: in tutto, con tutti, a costo di tutto, sempre. Pace con le creature della terra, pace con gli alberi, il cielo, l'acqua, le strade, gli uccelli che ancora resistono nelle campagne e nello smog delle città, i palazzi che ricordano la sovrappopolazione degli alveari, il rumore dei motori nel traffico quotidiano... Ogni tanto, qua e là, mi piacerebbe continuare il gesto bellissimo, colmo di speranza, fatto dai giovani palestinesi di Gaza nei giorni della Conferenza di Madrid: offrire qualche ramo d'olivo e un boccone di pane a chi vive con il fucile in mano e l'orgoglio del padrone. Ma, soprattutto camminare, perché nel cammino mi sia data la possibilità di accogliere dentro l'anima il mistero umano nella sua radice, l'attesa inespressa di ogni essere, il gemito della creazione, la voglia d'infinito che a volte muore entro le strette misure del quotidiano, la necessità di una vita fraterna che si realizzi nell'incontro con ogni persona, di ogni colore, di qualsiasi tendenza, di qualunque credo politico o religioso. E, camminando, allargare il cuore e l'anima alla ricerca del volto di Dio. Raccogliere il mistero della sua Presenza nei colori dell'alba e del tramonto, nella pioggia, nel vento, nella luce del sole, nella fatica della gente, nella solitudine e nella speranza. E soprattutto approfondire nel lento ritmo della strada il mio rapporto con Gesù di Nazareth, via e strada che conduce alla pienezza del mistero di Dio. Anche Gesù, dopo i lunghi anni "silenziosi" della sua bottega di fabbrofalegname, si mise sulla strada e, camminando, aprì a tutti il meraviglioso tesoro del regno dei cieli. II Vangelo è nato nella lunga gestazione di Nazareth, ma poi è fiorito e maturato in pienezza nel vento e nel sole ardente delle strade di Palestina.
Mi piacerebbe farmi pellegrino non per "fare" qualcosa di particolare, ma semplicemente per tentare di essere più autenticamente ciò che devo essere. Scoprire più radicalmente il mio rapporto di amore e di comunione con la creazione, con le creature, con il Creatore. Fare della strada lo spazio vitale di una "scuola" di umanità più profonda, di accoglienza più vera, di confronto, di scambio, di una possibilità di dare e di ricevere le infinite provocazioni che il cammino racchiude dentro di sé.
Ora che ho scritto sul foglio di carta queste "vecchie utopie" che dormivano chissà dove dentro di me, mi viene quasi il timore di essermi lasciato andare ad assurde e vuote immaginazioni, come uno scolaro sbadato che va "fuori tema". La realtà concreta delle cose, lo spessore della vita quotidiana, le vicende sociali, politiche, economiche sembrano prevalere su qualsiasi tentativo di illuminare la scena sulla quale si svolge la grande rappresentazione umana con la luce dell'utopia, del sogno, della logica dell'impossibile. Eppure mi sembra, a volte, che l'unica possibilità di "salvezza" dalla folle e assurda logica del pensiero dominante, stia proprio nella capacità di lasciarsi prendere sulle ali del vento e farsi condurre verso nuovi orizzonti, in nuovi spazi dove il mistero di Dio e il mistero umano possano tessere rapporti nuovi di libertà, di amore e di più profonda comunione.


don Beppe


in Lotta come Amore: LcA dicembre 1991, Dicembre 1991

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