Pace è stile di lotta

Chissà - quando questo giornalino raggiungerà i suoi lettori - chissà quale stadio avrà raggiunto la guerra del Golfo. Scrivendo alla fine di settembre, la situazione sembra via via avvitarsi su sé stessa rendendo drammaticamente più vicine le ipotesi più inquietanti e terribili. Lo scenario intravisto tramite i vari 'servizi speciali' è apocalittico. La potenza di fuoco raccolta in quel tratto di sabbia e di mare ha capacità distruttive folli. Una follia lucida il cui unico obiettivo è l'annientamento, la cauterizzazione traumatica del problema, di ogni problema.
Sembra che vi sia un punto, infatti, che affascina gli esperti della guerra ed è sapere se la scienza ha affinato le armi ad un punto tale per cui sia possibile operare con la massima potenza distruttiva in un conflitto locale senza correre il rischio di provocare un allargamento a macchia d'olio del conflitto stesso. E per far questo occorre operare in tempi brevissimi, tagliare, asportare e ricucire proprio come in una ben orchestrata operazione chirurgica. Con il bisturi dell' armamento nucleare, elettronico e batteriologico perfezionato al punto da calibrarne la portata mortale a ciò che si vuol toglier via.
Di fronte a questa ipotesi gli accordi per il disarmo est/ovest assomigliano alla svendita ai privati di mura, fortificazioni e castelli che intorno al 1500 fecero stati e staterelli essendo queste difese divenute inefficaci di fronte alla nascita della moderna artiglieria. E balza subito evidente all' occhio come il Medio Oriente sia divenuto in questi mesi terreno sperimentale ed insieme scenario reale di una mostra mercato di tecnologie e applicazioni scientifiche finora rimaste discretamente nascoste dalle cortine di riserbo del confronto russo americano. Inoltre la linea di confine tra industria bellica e industria civile sta divenendo sempre meno rilevante nell' ambito di una strategia globale. Sempre più si evidenzia la responsabilità etica e politica di coloro che comunque si preparano a sferrare il primo colpo, rispetto ad una discussione sulla legittimità di un regime, sui motivi immediati, sull'intrinseco essere malefico di persone strutture, attrezzi costituiti per uccidere.
Non sappiamo quanto importi in tutto questo che l'Emiro del Kuwait possa ritornare al suo posto e che sia ristabilito l'ordine internazionale. L'incancrenirsi dell' occupazione da parte di Israele di Gaza e della Cisgiordania e della tragedia libanese non sembrano lasciar dubbi sui secondi fini di tutta questa operazione a partecipazione corale.
«L'osso al cane non gli si leva», recita un proverbio popolare, e lo sviluppo in crescita dei paesi più industrializzati è da record assoluto. Il petrolio non si tocca. Finché Saddam Hussein tornava utile per contrapporlo a Komeini, non importava gran che sottilizzare sui suoi metodi. Ma quando ha deciso di mettersi in proprio... è diventato il nemico contro cui rivolgere un esercito (non solo targato USA) disattivato sulle frontiere ideologiche Est/Ovest e divenuto pericolosamente vagante, e quindi il banco di prova su cui verificare lo strumento di controllo mondiale che sostituisca il bipolarismo partorito a Yalta.
Sappiamo di trovarci di fronte ad un gioco antico quanto crudele nel suo rinnovarsi incessante.
Possiamo arrivare letteralmente alla disperazione se solo ci fermiamo alla constatazione delle cose, se solo ci lasciamo angosciare dal bisogno assoluto di arrivare ad un punto fermo. La pace non è tanto un traguardo quanto una dimensione della lotta per e della vita. A volte capita di dimenticarlo e il risveglio alla realtà può avere il sapore amaro della sconfitta. Ma non è così.
Se da una parte ci possiamo chiedere che fine ha fatto il movimento pacifista delle piazze e delle manifestazioni, dall' altra dovremmo anche saper valutare quanto circola in noi ed intorno a noi l'impegno in un discorso critico sullo sviluppo, nell' affrontare i nodi storicamente attuali della di-versità, nell' approfondire l'utopia nonviolenta di un confronto tanto radicale quanto incruento.
Certo, l'invio delle navi e dei Tornado, rimanendo nel nostro paese, è una sconfitta di una linea per la pace. Un tributo tipicamente 'italico' all'onore e all'onere dell'essere «mosca cocchiera» della CEE, non per questo meno in contrasto con iniziative costruttive nei confronti di un serio progetto di assunzione in sede ONU dell'intero problema. Ma non possiamo neppure nasconderci il fatto che questa missione militare è solo una ciliegina sulla torta di una presenza italiana in armi e sistemi d'arma tutt'altro che secondaria in Iraq e nel Golfo.
Una sconfitta non è mai evento da scuoter di dosso semplicemente le spalle. La si subisce, ma non la si esorcizza chiudendo gli occhi.
Il collegamento stretto tra modello di sviluppo e violenza armata deriva immediatamente dalla necessità di difendere se non addirittura di crescere il predominio a tutti i costi. E deve crescere nella consapevolezza collettiva il fatto che la bandiera italiana non si identifica più con una patria e dei «sacri» (?) confini, ma con un livello di benessere, con un livello di consumi, con un 'mercato' che va difeso contro ogni attentato che voglia mettere in discussione l'attuale assetto della distribuzione della ricchezza sul nostro pianeta.
La via della pace passa attraverso la capacità di mettere in crisi l'indiscusso diritto al livello di benessere e di sviluppo di cui attualmente godiamo. La via della pace passa attraverso la ricerca di soluzioni politiche riguardanti le nostre scelte energetiche, il nostro futuro di società multietnica, i tremendi squilibri esistenti nel campo dei diritti. Le soluzioni politiche - in una realtà sociale schiacciata dalla onnipresente immobilità partitica - possono nascere e crescere anche attraverso gesti utopici, piccoli ma vivaci segni profetici. Disponibili, come i semi dei grandi alberi, a mutare aspetto e dimensioni assecondando la vita che cresce.
Oggi, forse ancor più che ieri appare chiaro, che la via della pace è soprattutto uno stile di lotta.


La Redazione


in Lotta come Amore: LcA ottobre 1990, Ottobre 1990

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