Le vie di Dio che percorrono il mondo

Vorrei comunicare una direzione di ricerca che mi si riflette partendo dalla constatazione di come Sirio abbia incontrato uomini e donne che vivono su un terreno di idee e di motivazioni non religiose e di come tra loro sia spesso nato un rispetto, una stima, una confidenza, una amicizia così profondamente segnata di umanità. Eppure Sirio non ha mai nascosto né diluito la sua fede, il suo essere sacerdote, la radicazione in Dio della sua vita non solo nelle espressioni essenziali, ma anche nella quotidianeità.
Credo che la testimonianza di Leonardo, uno degli amici viareggini a lui più vicini dagli anni della militanza per il disarmo unilaterale, possa essere - a questo proposito - assai eloquente. Leonardo, coetaneo di Sirio, comunista, eppure di libero pensiero...

«Sono un vecchio amico di Sirio Politi. Ci ha uniti una lunga militanza di anni nella Lega per il Disarmo fondata da Carlo Cassola. .
Io ateo, lui religioso. Senza mai fare un'obiezione: io perché lui era religioso o lui perché io ero ateo.
Il rispetto reciproco.
Uniti in una lotta che ci ha visto sempre a fianco a fianco: per l'autonomia dei popoli, per il disarmo. E ci ha visto anche, negli ultimi tempi, insieme. lo uscivo dall'ospedale di Pisa il 17 settembre dell'87. Il 18, sempre dallo stesso ospedale mi venne una lettera di Siria, una lettera affettuosissima. lo ritenni mio dovere di farmi accompagnare, malgrado le mie condizioni, a trovarlo. Quando arrivai era già colpito fortemente dalla malattia. Mi abbracciò e cominciò a piangere disperatamente. C'era tanto affetto in quel pianto. E c'era un ricordo di tutte le nostre battaglie.
L'amica che ha parlato prima ha detto di non aver mai visto Sirio dire la messa. Io l'ho visto dirla in occasione della morte di un compagno comunista, il compagno Edo.
"Quest'uomo - non fece nomi Sirio, non disse questo è lo Zoppi, disse soltanto: - ricordatelo, voi che siete qua, quest'uomo donava il suo sangue per dare parte della sua vita ed essere partecipe della vita di tutti"».

Ed ancora vorrei riprendere le parole di Mario, uomo di una generazione più giovane eppure anche lui legato a Sirio da affettuosa amicizia fiorita negli ultimi anni. Sono parole pronunciate nella stessa occasione:
« ...ed era un progetto di pace il progetto di Sirio. E mi piaceva tanto perché quella non era una pace nell'astensione come un ritirarsi, un allontanarsi dai problemi e dalle difficoltà.
Era una pace fatta di presenza nelle cose, una pace di lotta, una pace fatta in tribunale, in cantiere, nel porto, fatta di fronte alla centrale nucleare, fatta di presenza e di partecipazione. Una pace dura, quindi.
E questo progetto di pace era portato avanti da Sirio con una tenacia, con una forza nel rifuggire il compromesso che - direi - non aveva uguali. Ma in questo - ed è il lato che ricordo con tanto amore - non ho mai sentito l'assenza, ma anzi drammatica presenza di ricca umanità.
L'ideologia, l'inseguire la contrapposizione netta in assenza di compromessi, non mascherava, ma al contrario, faceva venir fuori l'uomo. E quest'uomo che io amo molto; quest'uomo che sapeva godere delle cose e non si lasciava sfuggire la bellezza, il vivere; quest'uomo che sapeva commuoversi e piangere.
Devo dire ancora un'altra cosa importante: questa pace era una pace totalmente nonviolenta.
Anch'io sono ateo, sono non credente, ma mai Sirio ha avuto con me un rapporto di catechiz-zazione, mai ha cercato di farmi condividere le sue idee.
Siamo sempre stati per questo profondamente amici.
Io, mai, per niente, ho cercato di calpestare le sue convinzioni e la cosa che più amo di lui è di avermi dato un progetto di umanità».

Ascoltando ancora una volta queste testimonianze, sono andato alla ricerca - tra gli scritti di Sirio - di quale radice poteva aver avuto questo suo atteggiamento che non gli derivava da un semplice senso della misura e del rispetto, né certo da istanze dettate da proselitismo o ricerca del consenso. Sirio godeva nell' avere una platea, ma con tale gioiosa e scoperta teatralità da coinvolgere sempre e comunque anche gli altri in questo suo gioco.
Non è pensabile quindi che questi due amici, con tanti altri, si siano lasciati trascinare da emozioni e risonanze di superficie nel momento in cui raccolgono in loro stessi i segni di un rapporto profondo. E l'intuizione implicita di una dimensione giocata nella solitudine della sua fede. E Dio, che per lui era veramente tutto, non era Dio di una religione e di una chiesa, ma Dio che si avventura sulla via della umanità e nell'uomo rivela Se stesso.
Con questa idea, mi sono ritrovato davanti l'ultimo capitoletto di «Antico sogno nuovo» e la figura di un vescovo che entra nell'eremo dell'utopia cristiana. È il completamento, il sigillo, la pienezza della Chiesa che con il vescovo si affaccia alle vie di Dio che percorrono il mondo.

«Un Vescovo è alla porta dell'eremo, rozza per antiche assi, consunte e inaridite, con la cordicella in mano. Nemmeno un attimo di incertezza perché forse sono secoli il tempo che aveva maturato questa decisione. Un rimbalzare di vicende storiche, come di onde provenienti e sospinte da un mare quasi senza orizzonti e mosse implacabilmente da fondali misteriosi, da venti che non è possibile sapere di dove vengono e dove vanno e anche dagli influssi delle stelle che scendono dalle profondità dei cieli.
Si sentiva obbediente con serena docilità alla spinta interiore che a poco a poco si era dilatata in tutto se stesso. Non era per stanchezza o delusione e tanto meno perché gli si era spento nell'anima il convincimento di una utilità umana e pastorale nel suo essere Vescovo. Nemmeno minimamente gli si era annebbiata la chiarezza della sua identità personale...
... Gli era chiarissimo che l'aver salito la strada stretta e tortuosa che porta al cancello dell'eremo non era una fuga. Era semplicemente dare continuità ad una scelta, spazio ad un donarsi, possibilità più concrete per un coinvolgersi nel Mistero di Dio e cioè dell'Amore per Lui e per l'umanità.
Era un liberarsi per compromettersi più liberamente e più totalmente nel regno di Dio. Perché l'istituzione la sentiva non soltanto palla al piede ma, più che tutto, spazio ristretto, spesso soffocante. E gli era andata crescendo nell'anima la necessità sempre più urgente e pressante che la sua scelta di Fede, fino al suo essere Vescovo, potesse respirare gli spazi di Dio e perdersi dove sono assurdità i confini e perfino gli orizzonti.
Anche se un po' confusamente ma con sempre maggior chiarezza aveva avvertito che il suo episcopato poteva trovare la sua diocesi soltanto se a dimensioni universali. Di qui il bisogno della solitudine, perché unica possibilità di universalità, la libertà di essere di nessuno per poter appartenere a tutti, di scomparire per una presenza più viva e intensa. E non soltanto misticamente, nella preghiera, nell'immolazione quotidiana della vita monastica, ma camminando nelle vie di Dio che percorrono il mondo, acqua corrente del fiume della storia, carne e sangue di umanità.
E l'idea dell'eremo si è affacciata e, piano piano, è andata convincendolo, come quando un venticello e poi un vento gagliardo spazza via le nubi, apre squarci di azzurro che si allargano fino a tutto il cielo, da orizzonte a orizzonte, inondato di sole e gremito di stelle la notte.
Si sentiva al portone dell'eremo, con la cordicella in mano, come chi sta per salire sulla nave, un'occhiata intorno, insieme nostalgia e liberazione, e poi il piede e tutta la speranza è sulla nave, perché i mari e gli oceani sono già nell'anima, distesi e aperti ad ogni avventura». (Da «Antico sogno nuovo» pagg. 209-211).

Leggere queste pagine mi provoca una serena nostalgia di Sirio, della sua umanità. E mi sento liberato da ogni tentazione di imitarlo pedissequamente nei suoi pensieri o nelle sue azioni. Capisco che l'unica cosa da fare è prendere la bisaccia, il sacco, e percorrere la propria avventura interiore avendo l'anima colma di mari e di oceani.
Rileggendo anche quest'ultima pagina di «Antico sogno nuovo» si potrebbe pensare che i momenti di silenzio che Sirio stesso cercava fossero anticipazioni o sostituzioni di fuga. Si potrebbe pensare che egli ci indichi questa strada, come al Vescovo sembra che indichi l'eremo quale spazio di libertà universale al di fuori dell'istituzione.
Ma in effetti il Vescovo, entrando nell' eremo, si libera per compromettersi più liberamente ed entra in una regola ancora più regola. E il silenzio può essere ricerca di acclimatazione al mistero di Dio-Uomo inseparabilmente unito nella Creazione.
Questo Vescovo cerca la libertà, non nel chiostro, nell'eremo, ma nel mondo, nel saltare il muro delle strutture soffocanti: «corrente del fiume della storia, carne e sangue di umanità».
È un punto essenziale per capire da quale radice Sirio traeva quel suo approccio con gli altri e la vita che non è apparso mai né ovvio né banale. Poteva essere di grosso contrasto, capace anche di suscitare sofferenza e disagio e inquietudine. Un approccio spesso scomodo. Ma coloro che a lui consentivano come quelli che anche fortemente dissentivano si sono sempre sentiti ugualmente presi sul serio. Coinvolti sempre in una dimensione di rapporto non chiusa nella personalizzazione, ma dilatata nell'universale .
...«Sirio univa Dio - Umanità - Creazione - Storia e questo gli dava un'universalità di approccio alla realtà, di attesa di speranza in e con e per tutti: portava un po' più avanti la via di ciascuno percorrendola insieme, apriva al non ancora valorizzando il già fatto, offriva condivisione di orizzonti da scoprire e verso i quali aprirsi e così dava slanci e apertura nuova alla nostalgia di coloro che hanno fame e sete e cercano sorgenti, vino, carne... ».
La porta di quest'eremo dell'utopia - descritto come spesso accade a coloro che scrivono dell'utopico e cioè con immagini fortemente ancorate al tradizionale più scontato... - non si apre su un chiostro abitato dal silenzio di figure in preghiera, ma apre di nuovo sul mondo reale visto e vissuto in una dimensione rovesciata che contrasta con quel che di manicheo e di illuminista c'è nel comportamento di molti di noi, quello che ci fa sentire separati e non incarnati, lontani e senza terra e storia.
L'eredità di Sirio non sta in azioni e opere, in qualcosa da conservare e da crescere. È qual-cosa di ben più prezioso e che ciascuno può accogliere nella propria realtà. Egli continua ad invitarci «al portone dell'eremo, con la cordicella in mano, come chi sta per salire sulla nave, un'occhiata intorno, insieme nostalgia e liberazione, e poi il piede e tutta la speranza è sulla nave, perché i mari e gli oceani sono già nell' anima, distesi e aperti ad ogni avventura».
È l'invito per ognuno di noi a riprendere in mano la propria esistenza e a cercare - con quell'energia che in ciascuno può assumere misteriosamente forme diverse - di alimentare un senso profondo di unità che ci permetta di aprire la porta della vita e di comunicare realmente con essa.


Luigi


in Lotta come Amore: LcA luglio 1990, Luglio 1990

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