Una scelta di pace

È sicuramente vero che «pace» non può significare soltanto assenza di guerra, silenzio delle armi, disarmo, diminuzione degli effettivi degli eserciti...
Anche se è altrettanto vero che «pace» deve assolutamente significare tutto questo: cammino di conversione e riconversione di tutto un potenziale umano, di energie, mezzi tecnici ed economici, di orientamento politico che sempre più, anche se in modo inevitabilmente graduale, proceda verso una realtà di vita collettiva dominata sempre meno dagli strumenti della morte legalizzata e programmata.
In questa linea di cammino mi pare si collochi molto bene la scelta compiuta dalla maggioranza del nostro. parlamento italiano (anche se si tratta di una «maggioranza» estremamente risicata, 209 voti contro 205) che si è pronunciato per l'abolizione della pena di morte prevista dal codice militare di guerra, dell' ergastolo dal codice penale, delle sentenze di condanna a morte pronunciate da tribunali di tutto il mondo.
Si tratta indubbiamente di una scelta altamente «civile», di grande rilievo morale, sociale, po-litico.
È sicuramente una grande scelta di «pace»: appunto perché la «pace» deve significare un processo di idee e di fatti concreti, anche legislativi e quindi vincolanti a livello giuridico, che ci aiu-tino a stabilire rapporti umani sempre meno fondati sulla forza di una giustizia vendicativa, sulla violenza legalizzata che alla fine diventa soltanto «vendetta».
Liberare i rapporti sociali dalla tentazione sempre ricorrente di risolvere il problema della de-vianza usando la morte come ragione di giustizia mi sembra un impegno da portare avanti con sempre maggiore decisione; può essere un «programma» politico e sociale, profondamente umano e altrettanto profondamente evangelico che può stimolare la crescita di una storia umana sempre più illuminata dalle ragioni di una vita sottratta alle energie della distruzione, della giustizia vendicativa, del «potere della morte». Ricordo in maniera molto lucida la proposta fatta dal grande filosofo ebreo Martin Buber a proposito della condanna da infliggere ad uno dei più tristi criminali nazisti, Eichman.
Egli fu condannato a morte dal tribunale ebraico che ha dato la caccia per anni ai criminali nazisti rifugiatisi in vari paesi del mondo, e la sua condanna fu eseguita di conseguenza.
Ma Buber aveva proposto una condanna non a morte, ma a «vita»; egli propose di condannare Eichman a vivere il resto dei suoi giorni nello stato d'Israele, perché vedesse ogni giorno quelli che erano scampati alla tragedia dei campi di sterminio, vedesse i loro figli crescere sotto i suoi occhi e potesse «capire» lo spessore terribile del suo crimine, l'assurda follia del nazismo e quindi giungere ad una «condanna» del suo operato in forza della sua stessa esperienza di vita in mezzo al popolo che aveva oppresso in modo tanto crudele e spietato.
Ricordo che la proposta di Buber suscitò furiose polemiche; essa aveva certamente qualcosa di profetico, nasceva da una visione della devianza (anche la più atroce ed abbietta) che non poteva essere risolta in modo matematico, seguendo la vecchia legge del taglione: «occhio per occhio dente per dente».
Ho ritrovato lo spirito di Martin Buber nelle indicazioni coraggiose ed illuminanti di quella parte del nostro parlamento che ai primi di Agosto si è espressa contro la pena di morte e contro l'er-gastolo.
Queste indicazioni sono certamente cariche di profondi significati, possono innescare dei processi di revisione e di cambiamento in ordine al rapporto che deve esistere fra delitto e pena. Sono indicazioni che si muovono sulla linea di quel processo di pacificazione che deve abbracciare tutto il complesso tessuto della vita sociale di ogni popolo.
Dal mio punto di vista, l'abolizione della pena di morte prevista dal nostro codice militare di guerra potrebbe contribuire all'approfondimento delle ragioni stesse che hanno tenuto in piedi, per secoli, la necessità della guerra e quindi degli eserciti.
In fondo, la guerra nella sua sostanza è una grande «pena di morte» che è sempre stata legalizzata come ragione ultima per risolvere le controversie e i conflitti interni o esterni alla storia dei popoli.
Annientare il nemico, distruggerlo, piegarlo alle proprie ragioni con l'uso di mezzi sempre più potenti di distruzione.
Usare la morte per affermare ragioni e motivi della propria esistenza. Una vecchia frase latina dice: «mors tua, vita mea»; e cioè, la tua morte ha ragione di essere perché io abbia la vita; tu devi morire, perché io possa vivere. Che altro è la guerra, se non questo?
Se siamo disposti a scavare sotto la scorza di quella che potrebbe sembrare una evidente nor-malità di pensiero e di azione, potremmo scoprire la contraddizione presente in tutto l'ordinamento militare e procedere verso un orizzonte umano sempre meno offuscato dalle nubi delle armi e degli eserciti.
Si potrebbe scoprire il grande valore della «disobbedienza» in ordine ad un sistema fondato sul concetto di nemico, sul metodo della violenza armata, sulla distruzione preparata con tecniche sempre più precise e raffinate. Potrebbe venire alla luce !'istinto di morte racchiuso dietro la facciata della legittima difesa, del concetto di patria, dell'idea di nazione, di razza, di religione...
Il sentimento di sacro rispetto che circonda ancora i corpi militari che sfilano in occasione delle grandi parate nazionali mostrando con orgoglio la loro perfetta sincronia nel passo e i loro lucidi strumenti di guerra potrebbe mutarsi in sentimento di rifiuto, di respinta e di non condivisione. «Disertare la guerra» potrebbe apparirci l'unica cosa civile da fare, se vogliamo un mondo non più dilaniato dalle bombe, dal napalm, dalle armi chimiche, dalle bombe atomiche. Essere «disertori» da questo ingranaggio di morte potrebbe apparirci come l'unica via da percorrere, come una morale nuova da insegnare e trasmettere ai ragazzi e ai giovani perché non cadano nella illusione che uccidere il nemico possa costruire una umanità più giusta e più vera. I monumenti ai caduti, i cimiteri di guerra, potrebbero allora essere a buon diritto méta di pellegrinaggi ed oggetto di attenta considerazione: ma non per raccogliere chi sa quali «glorie» del passato, ma per acquistare una coscienza sempre più limpida di ciò che non deve accadere mai più.


don Beppe


in Lotta come Amore: LcA settembre 1989, Settembre 1989

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