La marcia di tutti i giorni

La manifestazione per la pace del 24 ottobre è stata una grande cosa per molti aspetti. Tra l'altro una indimenticabile occasione per riaccendere entusiasmi ridotti in cenere dalla piallatura del quotidiano.
Quando incontri quelli che hanno partecipato vedi brillare gli occhi di una giovinezza ritrovata. È tutto molto ingenuo, ma non per questo meno bello. E vedere sfilare le centinaia di gruppi del movimento era come assistere al passaggio di un vestito d'Arlecchino fatte di inventività, di freschezze miracolose, di resistenze testarde che hanno reso possibile la fiumana di Roma.
Credo che forse mai, prima d'ora, era stato dato di considerare questa variopinta articolazio-ne di un lavoro quotidiano che non dirada l'opacità di tutti i giorni, ma che conserva la vivacità e la forza improvvisamente per trovare confluenze ed innesti con sorprendente facilità.
È certo che il discorso contro la guerra comporta scontri in direzione ben precisa, ma è altret-tanto vero che appartiene all'esperienza popolare più disincantata forse, certo più matura, la determinazione di costruire con le proprie mani una diversità.
Si tratta quindi di distruggere tutto ciò che esiste per la guerra, ma si tratta anche di costruire rapporti nuovi per lottare alla radice con la generazione della violenza.
Penso al lavoro nel nostro capannone. Non conta quelle che abbiamo realizzato fin qui (ma poi chi può vantarsi di azioni decisive in questo sistema?), quanto il progetto, e, se preferito, l'utopia che portiamo dentro. L'affiorare di stanchezze è comprensibile, ma non giustificabile quando ci si rende conto della potenzialità rappresentante da un discorso di lavoro che accetta di percorrere le strade dell'emarginazione per una diversa esperienza di solidarietà. Perché il progetto del capannone è seriamente agganciato alla lotta contro le radici della guerra
Non dico che è sufficiente lavorare da noi per vivere la pace. Non è perché ci sono handicappati che allora si diventa contro ogni emarginazione. Non è perché lavoriamo con obiettori di coscienza che è lontana da noi ogni violenza. Non sono i singoli fatti o l'attenzione portata a fette di emarginazione che di per sé configurano un atteggiamento alternativo al rapporto selettivo e discriminante dal nostro tempo. Si possono inseguire ricordi di paradiso terrestre oppure pitturare a nuovo un sempre vivo spirito assistenziale e, peggio ancora, considerare la fatica chiusa e darsi al riposo del sabato.
Occorre che al di là del lavoro feriale sia vivo il progetto che si radica nelle problematiche della vita di questa umanità, nelle tensioni dei rapporti sociali, nel confronto con i bisogni che intendiamo accogliere. E questo mi pare che lo facciamo nella misura in cui abbiamo la forza di rompere le incrostazioni burocratiche, le resistenze dettate dalla paura e dell'egoismo individuale e politico. Si tratta di rischiare una realtà di lavoro che consenta di produrre oltre a dei beni anche dei rapporti umani e viceversa.
La cooperativa, la convenzione ecc. sono semplicemente strumenti che possiamo utilizzare e meno seconda che siano utili per la crescita dei nostri scopi. Non rappresentano sicuramente dei traguardi.
D'altra parte rimane vero che il progetto ha bisogno di gambe per camminare. E queste, tra l'altro, sono costituite dal lavoro quotidiano che appare, a volte in modo più marcato, un prezzo troppo alto nei confronti delle tante azioni che potrebbero venir compiute, di una presenza troppo costretta ai metri quadri e alle persone del laboratorio. Non ci sono certo regole, né assoluti, ma occorre interpretare la marcia di Roma ed altre manifestazioni popolari a impensabile presenza popolare come confluire di gente che non ha mai perso la voglia di camminare, che ha cercato di non arrestarsi mai nel quotidiano, di non darla mai vinta.
Il fondatore dei boyscout raccontava questa favoletta: "Due ranocchi saltellando qua e là vanno a finire in un secchio pieno di latte e non trovano nessun appiglio per poterne saltare fuori. Uno si stanca presto di nuotare e disperato si lascia affogare. L'altro, dotato forse unicamente di maggior caparbietà, si mette a nuotare intorno al bordo del secchio e non pensa neppure un momento di arrendersi. Sta di fatto che a poco a poco il latte, agitato dal movimento del ranocchio, acquista consistenza e si trasforma in burro offrendo al ranocchio quel minimo di resistenza che gli consente di saltare fuori". Un apologo allo stakanovismo rivoluzionario? Credo piuttosto una spinta ad incrociare progetti e tendenze con elaborazioni concrete e quotidiane.


Luigi


in Lotta come Amore: LcA novembre 1981, Novembre 1981

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