L'abitudine

È sempre più difficile credere alla pace e l'utopia di una lotta per la pace sta rischiando ad ogni giorno che passa, l'assurdità.
C'è un inquinamento da polvere da sparo (tanto per usare un'immagine ormai quasi poetica) entrato in profondità nello spirito umano e l'agita, intorbidandolo, fino al punto che è assolutamente negato, impedito anche soltanto intravedere possibilità di pace.
Sta crescendo di giorno in giorno la normalizzazione della guerra o, se si vuole arrotondare la parola e l'impazzimento spaventoso del pericolo, sta aggravandosi la normalizzazione del ricorso alla "forza" come risoluzione di diritti, di doveri, disonesta copertura dell'irrazionalità e della disumanità.
Qua e là per il mondo esplode e sempre con una improvvisazione sbalorditiva, questa normalità guerresca, come un vulcano maledetto a eruttare lava di fuoco e sangue, come un terremoto spietato a fare rovine e macerie di morte.
E tutto avviene perché tutto il dispositivo per la violenza è pronto all'uso e accumulato in misure tali che è in forza dell'accumulo che deve succedere il traboccare e cioè la guerra.
A questa orrenda realtà, ad ogni minuto che passa, sempre più incontrollata e incontrollabile, c'è da aggiungere la scienza che evidentemente non dorme sugli allori, paga di quello che ha inventa-to, perché è vero che invenzione chiama invenzione (il salmo direbbe: "un abisso scava un altro abisso") e quindi vengono fuori "le novità", la capacità di più uccidere, e i generali, la strategia mi-litare, il bellicismo del potere, ha urgenza, smania, ha una voglia pazza di provare, di esperimentare, di vedere in concreto cosa possono, in fatto di morte, i nuovi potenziali.
E le tante guerre, da Hiroshima in poi, alla radice sono esercitazioni per affilare le armi, provare le novità e inventarne di nuove. Disumani poligoni di tiro inventati e provocati dalle strategie del potere e dall'economia di guerra per il potenziamento delle fabbriche e del commercio di armamenti. Anche la guerra in quelle scogliere del sud Atlantico, per il possesso di pecore e il dominio su neanche duemila abitanti, non ha altra spiegazione, insieme a quella di governi ammalati fradici del cancro del potere e di popolazioni (inglese e argentina) ancora in stato di schizofrenia nazionalistica, non ha altre spiegazioni che la maledetta sopravvivenza della fede nella guerra.
Ma è cosi in ogni angolo di questo povero mondo. Dovunque, si producono, si vendono e si comprano armi, dalle pistole ai missili a testata nucleare, dovunque, si ammucchiano armi si ammassa la voglia di uccidere. L'essere pronti ad uccidere, è nel cassetto dell'armadio di casa, nella tasca dei pantaloni, negli immensi, misteriosi arsenali nel ventre delle montagne o nei sommergibili acquattati nelle profondità dei mari.
La morte è in agguato, a ribollire la maledizione sempre in attesa di sfondare la crosta protettiva dell'illusione dei popoli, della falsità politica, del più redditizio profitto economico. La morte la strage lo sterminio è pronto ad esplodere dove e quando vuole, sembra perfino senza un disegno preordinato, nell'imprevedibilità più assoluta, nell'incertezza più drammatica della sua incontenibilità.
È realtà storica, è condizione esistenziale attuale e più ancora futura, al di là di ogni immaginazione. La vita umana, individuale e collettiva, di popoli e di continenti, vive, lavora, cerca il benessere, le proprie sistemazioni, distrazioni ecc. su un campo minato, cercando soltanto di non mettere il piede sull'esplosivo, di girare intorno al missile, senza toccarlo, di evitare lo scontro con il carro armato o col cacciabombardiere... di non incappare cioè nella disgrazia di essere coinvolti e travolti, pur sapendo, e stranamente non fa impressione, che prima o poi dovrà succedere, è impos-sibile che non succeda.
Sta sopravvenendo e ormai dilaga straripando oltre le difese della ragione, del sentimento e perfino dell'istinto alla sopravvivenza, l'abitudine, l'assuefazione, l'adattamento, la stupida e criminale rassegnazione, a che le grandi manovre degli imperialismi che incancreniscono la storia, si tramutino in guerra guerreggiata, cioè con il conteggio dei morti e il racconto spettacolarizzato degli orrori.
Assistiamo tutti ai fatti e ai misfatti con un'impossibilità, forse data la lontananza e la trascurabile (!!!) entità dei conflitti, come se non avvenisse automaticamente l'esserne coinvolti e quasi con la coscienza tranquilla per la non diretta, personale responsabilità.
Il fuoco che non tocca la pelle non brucia.
La morte che non porta in casa un funerale non ci riguarda.
La guerra che non esplode una bomba sulla nostra testa non è niente di più di uno spettacolo fra i tanti spettacoli.
Perché nel criterio che giudica della civiltà o della barbarie non é scritto che chi tace acconsente.
E nella morale non si legge che chi porta in tasca una pistola giustifica gli arsenali di bombe atomiche.
È punibile con anni di carcere il cosiddetto fiancheggiatore che ha versato un po' di alcool e fasciato le ferite di un terrorista, ma non è condannato come criminale chi si schiera da una parte o dall'altra, in guerra o mentre si prepara la guerra. Perché ormai stiamo vivendo in questa civiltà dei consumi, che sta consumando tutto, dalla più elementare moralità e umanità fino all'ultime sopravvivenze di speranza della pace, in una normalizzazione di conflittualità, di scontro, di guerra. Impunemente e senza scomuniche si gioca alla distruzione dell'umanità e del mondo.
È un fatto spaventoso, orrendo, ma è la realtà e è miserabile incoscienza alzare gli occhi al cielo per non guardare, che questo nostro benessere, vanto e pomposità della nostra civiltà occidentale, sia tutto (o quasi) fondato sulla morte. Il mercato che più tira è quello delle armi. Subito dopo è quello della droga. L'industrializzazione sta finendo di rendere irrespirabile l'atmosfera e imbevibile l'acqua e avvelenando ciò che si mangia e fa morire di fame e di sete milioni di esseri umani, di animali e distrugge progressivamente le foreste.
E sempre più il denaro è il micidiale nemico che semina di ammazzati le strade e distrugge ogni possibilità di buoni rapporti, di rispetto vicendevole, di dignità umana.
Perché a livelli mondiali e a quelli individuali e familiari, ormai pare proprio e la sciagura è suprema, assoluta, che la pace sia possibile unicamente se e quanto più è fondata sul terrore.
E a questa realtà storica abbiamo fatto l'abitudine. Non ci turba i sonni, né ci guasta la digestione.
E tanto meno mette sottosopra e in crisi la coscienza. Anche perché "la morale del Vangelo" non è interrogata e quella tradizionale dei codici, niente dice circa il bene o il male della progressiva distruzione ecologica, questa adorabile creazione di Dio, donataci dal suo Amore e dell'annientamento, dell'assassinio dell'umanità, questa misteriosa famiglia di figli di Dio.
Anche la Fede cristiana non è interpellata e pare che dal Cielo non scenda più la profezia a far piangere e gridare, a digiunare, coprirsi di cenere e cambiare vita e imboccare altra strada nel cammino della storia.
Sono grandiose le imprese di pace che compie la Chiesa, ma forse la Fede chiede ed esige altro e forse non sappiamo bene cosa o non si vuole sapere.
Può anche essere che predicazione di pace non sia più sufficiente. E può essere perché forse la parola non è la Parola.


in Lotta come Amore: LcA settembre 1982, Settembre 1982

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