Un ragazzo del '99

Poco tempo fa è morto un mio parente e cosi com'era giusto ho partecipato al suo funerale. Un uomo semplice, come tanti; un vecchio contadino, bloccato negli ultimi tempi su una carrozzina, che si è spento come una candela sopraffatto dal vento troppo forte della vecchiaia. Era un "ragazzo del 99" ed aveva quindi compiuto il suo cammino. La sua morte è stata dolce, a confronto di questi nostri tempi amari e insanguinati, questi nostri "anni di piombo" dove la morte spesso è morte violenta, a furore, di pallottole, di droga, di mille forme di disumana crudeltà.
Ho voluto parlare di lui su queste semplici pagine del nostro giornalino non perché la sua storia cosi uguale a quella di milioni di "poveri" avesse la gloria di un altrettanto povero pezzo di carta, ma perché la sua vita mi è parsa colma di profondi significati. Mi verrebbe quasi da dire colma di richiami evangelici.
La vita dei poveri, di quelli che non hanno mai contato niente, che sono stati semplicemente "un uomo" - "una donna", spesso è cosi carica di valori e di provocazioni che è doveroso raccogliere con infinito rispetto e amore. Una vita come la sua (84 anni) è una lunga pagina di storia che racchiude avvenimenti dei quali portiamo ancora i segni, le speranze, le amarezze e i sogni. La sua prima esperienza fuori del piccolo spazio della sua terra, del suo podere di mezzadro di una grande fattoria di una famiglia principesca fu la "grande guerra".
Lui che la guerra non sapeva neppure cos'era (non aveva letto nemmeno il libro di storia) si trovò sbalzato sul fronte del Piave a soli 18 anni. E fece di tutto per venirsene via e ci riuscì col suo istinto contadino che lo richiamava ad un concetto di patria concepita come la casa, il campo, la stalla, gli amici, il paese dov'era nato e cresciuto, dopo quella bufera di cui forse non capì né il significato né la portata se ne tornò a seminare i suoi campi, alle sue vigne, ai suoi olivi, al suo bestiame. E per tutta la vita, senza stancarsi ha continuato a seminare, a mietere, a vendemmiare, a spremere olio, a tirare avanti la sua famiglia.
A lottare anche per una società più giusta, per il 51 per cento ai mezzadri, per una eguaglianza sociale sognata attraverso tutto il periodo fascista, la seconda guerra mondiale, il tempo della ricostruzione e del nascere della repubblica.
La Storia lui l'ha vissuta, subita, fatta giorno dopo giorno nella semplicità della sua vita fra le colline toscane piene di vigne e di oliveti.
E anche la sua Fede, semplice e povera come quella di tanto popolo, se l'è portata nel cuore con quello stile tutto particolare del mondo contadino, con l'arguzia e la semplicità della gente umile che aveva capito tante cose anche della Chiesa, ma che non riusciva ad esprimere con parole che solo gli intellettuali sanno usare a proposito. Ma il Vangelo, la sostanza del Vangelo, l'aveva capito e gli piaceva, anche se rimaneva dubbioso di fronte al grande mistero della morte.
La morte non gli piaceva, gli faceva .paura, l'avrebbe rimandata fino all'ultimo giorno. Amava la vita e la vita era tutto. Da lui, come da tanti altri "senza nome", ho imparato tante cose, fin da quando ero giovane seminarista e credo che tante intuizioni riguardo al Vangelo mi sono arrivate attraverso questo stile autentico di vivere e di lavorare. Penso che sia stato realmente uno che ha "posseduto la terra", perché di certo lui l'ha amata molto di più del principe Corsini di cui era mezzadro, che aveva 40 famiglie di contadini nella sua fattoria, ma per il quale la terra era solo un oggetto, un modo di far soldi, una maniera di continuare ad essere "il padrone". Penso anche che sia stato un "costruttore di pace", per istinto, a fiuto, certamente non per una scelta consapevole: lui che aveva dovuto imparare a dire "signorsì" a soli 18 anni e andarsene sul Piave a difendere i sacri confini della patria.
La patria lui l'ha difesa con l'aratro, con i buoi che curava in modo straordinario, con il grano, il vino e l'olio prodotti ogni anno col sudore della fronte, compiendo la grande obbedienza al primo comandamento della Genesi (lui che non sapeva neppure esistesse un libro chiamato così). E senza saperlo è stato fedele enche all'impegno di rendere migliore la vita, la società più giusta, più fraterna. Perché credeva che bisognava cambiare le cose, che non era giusto che ci fosse un padrone che si prendeva la fatica e il sudore dei contadini semplicemente perché era il padrone.
E ha fatto le sue lotte, le sue scelte politiche semplici ma convinte, anche se questo signi-ficava rischiare con la propria coscienza e la propria fede.
A quest'uomo istintivamente evangelico la sua Chiesa, quella che lui ha conosciuto e con la quale è vissuto fianco a fianco, non ha mai detto che era nel giusto, che la strada da battere era quella del rifiuto della guerra, del possesso della terra, della lotta non violenta ma decisa al sopruso e allo sfruttamento. Cosi ha sempre pensato che fra la sua vita e la sua Chiesa non c'era armonia, anzi c'era del contrasto e della separazione. Per questo credo che avesse capito che c'era qualcosa di bello nella scelta di uno della sua famiglia di essere prete-operaio, che celebrava la messa con le mani callose, che conosceva la fatica del pezzo di pane guadagnato col proprio sudore, che aveva scelto di stare dalla parte di chi è oppresso e sfruttato dai servitori del "dio-quattrino".
Anche se diceva sempre, seguendo il suo istinto arguto e sapiente, che forse sarebbe stato meglio rimanere all'ombra di uno dei tanti dolci campanili delle colline toscane, senza tentare evasioni troppo allo scoperto.
Ho voluto condividere con gli amici questa semplice storia di famiglia, perché per me ha il sapore del pane appena sfamato, di un bicchiere di vino buono, di una sorsata d'acqua fresca. È storia di popolo, affaticato e oppresso da mille padroni (compresa la Chiesa) ma che ha portato avanti la sete di giustizia e di pace. E questo popolo ha il diritto di essere ascoltato.


Beppe


in Lotta come Amore: LcA marzo 1983, Marzo 1983

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