Convegno Pretioperai 1-4 maggio a Firenze

Al posto delle mie solite riflessioni, mi è sembrato giusto rileggere agli amici la relazione che ho letto nel secondo giorno del Convegno Pretioperai che si è tenuto a Firenze nei giorni 1-4 maggio.
È chiaro che la relazione racconta di quello che l'incontro ha significato assai più interiormente che nel concreto dei problemi che investono il mondo del lavoro. Ma ormai mi sono abituato ad ascoltare "le voci" che mi rimbalzano nella mia interiorità e a raccogliere i riflessi della realtà nella quale vivo, in questo specchio interiore.
Chissà come è possibile: ma è vero che mi sembra di ascoltare e di vedere assai di più e quindi di partecipare più intensamente.
Tutto questo per chiarire che la mia relazione non riflette se non la visione del ritrovarci noi pretioperai nei confronti delle novità che travagliano il mondo del lavoro e nei confronti delle novità(!?!) che sta perseguendo la Chiesa...
Il convegno di Firenze è stato come il raccogliersi di una coscienza, seriamente informata e responsabile, a giudicare questo nostro tempo considerato più nel domani per il semplice motivo che il domani è conseguenza di questo nostro "oggi".
E che questa coscienza sia la coscienza di un gruppo di preti è sempre costatazione esaltante, allietata da profonde speranze...
La coscienza di questa fede: Dio è padrone dell'impossibile.
La coscienza di questo Amore: perché Dio è Amore e l'Amore è più forte della morte civile e più forte della morte ecclesiastica.

Un lungo cammino

Umilmente e quasi sussurrando le parole. Ma non perché il respiro si fa sempre più affaticato e stanco e tanto meno perché si affievolisce la forza interiore o si annebbia la trasparente chiarezza del pensiero. Ma unicamente perché i tempi si fanno, ad ogni giorno che passa, più sopraffacenti, l'assedio si stringe, gli spazi diminuiscono, che quasi sembra di non trovare più i venti centimetri quadrati dove posare i piedi.
Alla mia età, data la lunghezza della strada percorsa e i lunghi tempi consumati, non è evitabile l'impressione - e non sto qui a dimostrarne la giustificazione - che il cammino nel quale stiamo camminando è obbligato a camminare in un tracciato a imbuto: ad ogni passo si restringe, sempre più la strada si snoda costretta fra terrapieni che la opprimono, la soffocano a destra e a sinistra, così che quasi perfino la visione del Cielo azzurro ha perduto la sua vastità quasi a renderne impossibile la visione contemplativa della sua spaziosità.
No, non stiamo vivendo a cuore morto. Ma è unicamente perché per una profonda, misteriosa vitalità interiore, un'effervescenza di convincimenti, fino alle misure della sicurezza, ci anima dal di dentro di quelle scelte che si confondono e sono tutt'uno con la propria identità personale. È andata rafforzandosi e siamo alle misure estreme, quella fedeltà a se stessi a seguito della quale, il giocare tutto, ma realmente tutto è cosa straordinariamente semplice: cioè è come respirare, come continuare a vivere.
Può essere che nei confronti della realtà attuale e tanto più in quella di domani, come dal giudizio della storia di questo nostro tempo tutto fa prevedere, può essere che questa fedeltà, questa linearità e coerenza, sia come cadere non tanto in un precipizio, quanto nel vuoto, nell'inutile e cioè nella perdizione.
Non ha importanza quando si porta, vivente acceso fiammante, nel proprio destino (e cioè nella ricerca di risposta alla volontà di Dio) il convincimento che questa è la ragion d'essere della propria vita e del proprio rapporto con resistenza, la costatazione di camminare verso il vuoto, l'inutile.
Può essere (e non occorre poi tanta fede per crederlo) che questo camminare, questo cadere nel vuoto, possa essere assai più importante e valga assai di più che il costruire grattacieli, la potenza economica, politica, realizzare organizzazioni da sopraffazione, dilagare il mondo con la propria presenza, volando dovunque.
C'è un'esigenza, un bisogno vitale, nell'anima dell'uomo, nell'anima dei popoli, di una profezia, cioè di una rivelazione, nel senso più biblico della parola, di verità coperte e sempre più sopraffatte, ma che non possono essere dimenticate. Di una profezia e cioè che siano visibili agli occhi e da poter toccare con le mani, valori che è assurdo pensare che abbiano a sparire o che possano essere sostituiti. L'umanità e tanto più la chiesa, quella gerarchica, ma anche in conseguenza, quella periferica, stanno perpetrando il peccato più mostruoso, anche perché raffinato di cultura, di scienza, di progresso ecc., il peccato del surrogato, assai più micidiale di quello dell' idolatria. È nella lotta a questo disorientamento, a questa sofisticazione che sta la profezia del non adattamento, allineamento, della rassegnazione. La profezia cioè della dissociazione, della ribellione, della diversificazione...
La profezia della liberazione perché siano ritrovati e risultino aperti ed evidenti gli spazi dove unicamente l'uomo è uomo e l'umanità umanità e anche, e soprattutto, Dio è Dio.
La parola di questa profezia attualmente è il vuoto, l'inutile, I'emarginato, il non meritevole nemmeno di uno sguardo, di un'ombra di attenzione.
Perché la libertà è dentro questo vuoto, la dignità umana è sotto la scorsa di questo inutile, la speranza va scavata sotto la crosta.
E anche Dio e Gesù Cristo va scoperto e amato nelle profondità, al di sotto della religione e della sua chiesa. Così per l'uomo, per l'umanità.
Mi rendo conto quanto sia "velato" (ma poi non troppo) il mio discorso, ma è perché sono certo che in ognuno di voi è la luce accesa dello Spirito di Dio e la dolce, adorabile sapienza che proviene dalla grande fatica del lavoro, della solitudine, della stanchezza, dalla estenuante prova alla quale è continuamente sottoposta la fede e la Speranza. E tanto più è la coscienza quotidiana, ma ancora di più in certi momenti, è quel camminare a vuoto, inghiottiti dall'inutile, ad ottenere in voi l'illuminazione nelle penombre e spesso nel buio di questo nostro tempo.
Penso e credo che questa illuminazione interiore di ognuno di noi doni e ravvivi in questi giorni del nostro convegno, uno schiarore da essere luce accesa così che illumini tutta la casa: non intendiamo lasciarla illanguidire e spengere, né vogliamo tenerla nascosta sotto il moggio.
È per questo che siamo qui.
È per la coscienza e il senso di responsabilità, di avere pane di grano da offrire a chi ha seriamente fame. E vino genuino di vite, senza metanolo, per un buon bicchiere a chi desidera ravvivare lo Spirito. Pensiamo di essere, e non è certamente presunzione, quella libertà e semplicità di fede da donarci la chiarezza d'idee e il coraggio del cuore per interrogare i progetti: quei progetti di nuova esistenza e di novità di rapporti umani che il tempo storico nel quale ci troviamo a vivere, apre e sulle quali ormai, come autostrade a senso unico, l'umanità è obbligata, costretta a percorrere il suo cammino.
È forse questo il nocciolo, il midollo di questo nostro convegno.
Perché forse proprio noi, gente del vuoto e dell'inutile, per le nostre radici e il percorso esistenziale vissuto, abbiamo e siamo quella Fede, unicamente ormai capace d'interpretazione di questi tempi e d'immaginazione, di fantasia per quelli futuri.
Per grazia di Dio, non è la Fede religiosa, della religiosità: quella della volontà e della ricerca, a costo di tutto (anche della dimenticanza del Vangelo) di cristianizzare il mondo, sottomettendolo ad un magistero equivalente a supremazie assolute. Non è la Fede sacerdotale espressa attraverso la sacramentalizzazione fatta più di ritualità che di miracolo di Dio, attraverso la Parola, ad ogni giorno che passa, sempre più parola d'uomo che di Gesù Cristo...
Non è la Fede che della sua trascendenza vuoi farne strumento, potenza per determinare e costruire il regno di questo mondo in progetti scopertamente temporalistici...
Non è la Fede degli anni'50 (tanto per stare vicino a noi) messa in crisi dal Concilio e ripristinata d'autorità alla Domus Pacis (tanto per ricordare qualcosa di vicinissimo a noi..).
Nei confronti di questa Fede siamo dei miscredenti, degli apostati, degli spretati e non per nulla, per quello che dalla Chiesa clericale dipende, la strada sulla quale camminiamo si fa sempre più stretta, a imbuto.
La nostra Fede è Fede liberata a seguito di quella liberazione avvenuta oltre i cancelli della fabbrica lasciandoci alle spalle la sagrestia. E per un sacerdozio a servizio e in comunione del "regale Sacerdozio" del popolo di Dio unicamente partecipe del Sacerdozio di Cristo.
La nostra Fede laica perché non ideologia, non assolutizzazione e nemmeno magistero... semplicemente servizio e gratuità.
Una Fede che sappia indicare con la chiarezza del Vangelo dove è l'ultimo posto, anche perché li è l'abitazione di Dio.
Ma non è nemmeno la fede per la liberazione, per la dignità umana, nella progettualità del progresso scientifico, tecnologico, nel potenziamento, fin quasi all'assolutizzazione, della ragione economica, del potere politico e conseguentemente militare.
Dovunque è in aumento, in crescita paurosa, la devozione del computer e la religione, la fede nei robot sta realizzando i suoi popoli, disciplinatamente perfetti nella sottomissione e nell'obbedienza a garanzia di produttività.
Non siamo dei nostalgici, è chiaro, ma gente che ha amato e ama la classe operaia, ha creduto e confidato disperatamente nel sindacato e nella viva e sofferta attesa dell'alternativa di sinistra.
Ma anche qui forse la strada sulla quale abbiamo camminato e camminiamo, è a imbuto.
Con la differenza che qui disgraziatamente non si tratta soltanto di noi, ma di tutto il mondo del lavoro: mondo del lavoro e cioè quello operaio dipendente, quello artigianale, agricolo, del diploma. E tanto più in maniera e misura sconcertante, la disoccupazione, questo capro espiatorio sempre più sacrificato alla divinità della tecnologia e della produttività.
Non abbiamo perduto questa Fede: diversamente non saremmo qui a scavare, al di sotto della sopraffazione, le radici di possibilità di rapporto umano fra mondo del lavoro e "civiltà tecnologica", fra la dignità dell'uomo del lavoro e "emarginazione e sfruttamento" come è scritto nel manifesto del convegno.
Non abbiamo perduto questa Fede, ma è giocoforza costatare che forse anche questa Fede operaia non basta più: a meno che non riesca a indicare, adesso come una volta, possibilità e capacità di lotta.
Quale Fede allora per interrogare i cosiddetti progetti?
Il problema è complesso e ci auguriamo che il coraggio col quale l'affrontiamo in questo nostro convegno, sia premiato, se non altro, per l'individuazione di prospettive o almeno di chiare e fondate speranze. Perché più che tutto oggi forse c'è bisogno e urgente, di speranze. Se non altro e prima di tutto di speranza che l'umanità non cammini più verso l'autodistruzione e che i pazzi che la governano non siano pazzi del tutto.
Vorrei concludere queste mie lamentazioni di Geremia profeta, con le parole che sono incise sul monumento della Pace innalzato ad Hiroshima: "lo ho in cuore sogni eterni, come un bambino che non sa odiare".
Non so quanto la Fede in Dio e nell'umanità può aiutare nell'interpretazione dei progetti... ma meno ancora forse è possibile intuire se e quanto nei progetti vi è o vi può essere Amore.



SIRIO POLITI
Viareggio



in Lotta come Amore: LcA giugno 1986, Giugno 1986

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