Una chiesetta racconta

Una voce dice: Grida!
E io rispondo: che dovrò gridare?
(Isaia 40,6)

C'era una volta una terra, pochi metri quadrati, di scarico, abbandonata e rovi e scepi vi erano cresciuti appena dominate dalla chioma di quattro pini. Un antico muro, basso, di pietre e mattoni all'intorno e poco oltre sciacquava la banchina, specialmente quando passavano le barche, l'acqua del porto e a quel tempo l'acqua che dal padule scende al mare, era limpida tant'è vero che qui intorno le reti a bilancia pescavano le triglie, pesce di mare.
Di tra il bosco di rovi, fra cordami catramosi, resti di barche morte e ciarpame marinaro, quattro mura diroccate, brandelli di tetto e una povera donna, giovane ancora, invecchiata di prostituzione, di malattia, di fame. Intorno le barche da pesca, vecchi trabaccoli a vela e ormai con un motore nel ventre gonfio, a staminare scrostate di vernice e reti a pencolare tirate su, color di ruggine antica, dal bigo a forza di braccia. Accovacciate come vecchi gabbiani a farsi cullare sulle acque, in attesa di virare qui all'angolo, lungo il canale a prendere il largo.
Un angolo abbandonato, rattristato di sporcizia e di cattiva fama tant'è vero che la gente lo chiamava "il cantaccio".
Un giorno sono capitati qui due stranissimi tipi che da tutto un modo di fare apparivano amici. Uno era un prete assai giovane ma di aspetto fragile, ecclesiastico ancora, come trasognato, guardava e non sapeva forse nemmeno lui cosa vedeva. L'altro, evidentemente uomo pratico, ateo anticlericale e sembrava che anche lui intravedesse qualcosa che l'affascinava. lo mi sono sempre ricordata di lui anche dopo il colpo di fucile nella landa del vialone, perché se io sono qui, in quest'angolo del porto, prima che ad ogni altro, compreso il prete, lo devo a lui e il suo nome è scritto sulle mie pietre e fa parte del mistero che mi riguarda, io, piccola chiesa, venuta al mondo nascendo da mura diroccate, costruite, almeno tre secoli fa, perché i navigatori a vela disponessero di un lazzaretto dove, in quarantena, purificarsi dai contagi raccattati nei porti delle "indie".
Poi le mura rappezzate hanno servito per alloggiare i canottieri, remigatori famosi a quei tempi. Durante la guerra e dopo quei ruderi nascondevano la prostituzione a servizio della soldataglia tedesca e americana, finché un prete e un ateo vi hanno immaginato una chiesa.
Era un'estate di trent'anni fa.
Non sto a fare il racconto delle difficoltà perché questo "cantaccio" è terra demaniale e poi è anche dentro i confini di una parrocchia, complicazioni quindi ma disinvoltamente risolte e manovali e muratori hanno rifilato i muri, l'albero maestro di un veliero ha fatto da trave portante, i travicelli come un'ossatura di barca e il tetto ha ricoperto il nuovo pavimento in mezzane di cotto. Sul fondo pietre di travertino e un vecchio comunista ha costruito il Tabernacolo in ferro con due pezzi di catena incrociati davanti.
Cominciavo a diventare una chiesa ma poi sono venuti gli scaricatori del porto e con le loro autogrù hanno sistemato un grosso blocco di travertino a mo' di altare, un pittore, anticlericale e di un gran cuore, ha dipinto (ha digiunato dalla prima pennellata fino all'ultima) Gesù crocifisso su una larga tavola di rovere... ed ecco, sono diventata realmente una chiesa. Quest'anno erano trent'anni da quel 15 agosto quando fu celebrata la prima Messa.
E fra le mie vecchie mura rimesse a nuovo ha cominciato ad abitarvi il mio adorabile ospite, Gesù. Mi piace raccontare delle mie origini perché, nel riandare alla memoria di questi trent'anni, mi sembra che tutta la mia storia sia significativa, emblematica di tutto lo scorrere del tempo e di tutta l'avventura che, piccola chiesetta, ho vissuto in quest'angolo che, nell'andare degli anni, gli alberi hanno traboccato di verde, fin quasi a nascondermi in un nascondimento di umiltà e di silenzio, che, in fondo, avevo sognato fin quasi dall'inizio, povera piccola chiesa.
Non vi sono mai state feste nell'ombra della mia solitudine e nemmeno all'intorno. Nessuna pastorale né ricerca liturgica e mi viene ancora da ridacchiare (una piccola chiesa come sono io può concedersi rapporti umoristicamente disinvolti nei confronti della grande Chiesa) quando, siamo nel '56, mi arrivò un'ingiunzione da una Congregazione Romana di appoggiare il masso-altare al muro di fondo, smurare il tabernacolo, gettarlo e costruirne uno a guisa di tempietto da collocare sull'altare... dopo cinque, sei anni, tutte le parrocchie e le cattedrali si dettero da fare a costruirsi altari per celebrare la Messa, i sacerdoti voltando la faccia, invece delle spalle, al popolo... Eh! si, confesso che per me, piccola, insignificante, nascosta chiesetta, ritrovarmi un po' profetica mi ha fatto sempre assai soddisfazione.
A volte mi domando, quando mi capita un momento di tristezza, cioè di ripiegamento su me stessa, specialmente da quando ho lasciato la campanella senza la corda, così che nemmeno mi posso dare un po' d'arie di chiesa sul serio suonando la campana, mi domando che significato ha una chiesetta che proprio non serve a nulla.
È vero che intorno a me, nella saletta qui accanto, molte cose sono avvenute anni fa. E spesso la sera ascoltavo trepidando discussioni di operai a cercare giustizia, dignità, solidarietà e poi tanta scuola per ragazzi e adulti. E notavo e certo con pena, anche se non era proprio quello il mio programma, che quasi nessuno varcava la soglia per fermarsi un po' fra le mie mura.
Ma anche queste e tante altre "opere" (le chiamano così nella pastorale) non giustificavano questa mia presenza nel "cantaccio".
Forse però (e la cosa mi piace molto, è chiaro) per il fatto che ci sono io, qui accanto, esattamente sotto il mio stesso tetto, ha sempre, fin dal primo giorno, abitato un prete. Poi è successo che ve ne sono stati due e poi tre, poi due e di nuovo, attualmente, tre.
Beh! Tre preti fanno grande una chiesa anche se è piccola, insignificante, pastoralmente inutile. Forse per questi preti e per tutti i loro amici (mi domando spesso quanti saranno qui in Darsena, in città, qua e là per l'Italia e oltre ancora) anch'io significo qualcosa e sono conosciuta assai più di quello che mi risulta a stare a contare chi viene qui, a pregare, a cercare un momento di silenzio e di Fede.
Si, è vero, questi miei preti sono davvero un po' strani e un tantino assurdi. Pretioperai si definiscono, preti cioè la cui giornata è come quella di chi campa del lavoro delle proprie braccia: difatti e la cosa mi commuove molto e mi piace tantissimo, nella mia penombra non si accendono candele votive, non esistono cassette che chiedono elemosine con lo spacchetto adatto e, cosa davvero che mi entusiasma, qui non c'è giro di soldi nemmeno per le Messe... Posso dire che, piccola e insignificante quanto volete, ma io non sono una bottega del sacro, qui non si vede e non si compra assolutamente nulla, nemmeno, è chiaro, la simpatia di chi conta in qualsiasi campo, compreso quello ecclesiastico.
E tante cose potrei raccontare. Di ore di preghiera, spesso angosciata ma più spesso ancora, silenziosa, raccolta eppure dilatata nel mondo intero. E io mi sono sempre sentita come una madre che stringe fra le sue braccia il sognare del suo bambino. Perché qui si è sempre rianimato e riacceso il progetto, l'impegno, la ricerca, spesso oppressa e soffocata, di una Chiesa povera, libera da ogni privilegio, unicamente accoglienza e dono di forza, di coraggio, di speranza, di fraternità, di Amore.
Le mie povere mura rimediate dall'antico lazzaretto spesso avrei voluto spalancare per abbracciare tutta la Darsena, tutta la città e il mondo intero. Ma dalla mia porta sempre aperta continuamente è entrato ogni dolore, tutta la fatica, questo rumore spesso assordante di motori, di cantieri navali, del vociare di imprecazioni, di richiami di tutta una vita di gente a strappare il pezzo di pane.
E ogni notte ho sempre benedetto quando le barche da pesca virano alla curva qui accanto e penso che i pescatori non possono non farsi il segno di croce passandomi intorno e al ritorno un'occhiata certamente me la rivolgono perché il rientro, con le ceste di pesce per il mercato, è sempre uno scampato pericolo. Forse può anche essere che nemmeno si accorgano di me ma Chi abita qui, fedelmente da trentanni, nel silenzio di quella piccola prigione di ferro fra le mie pietre di travertino, ha detto di un piccolo seme nascosto sotto le zolle che morendo porta frutto e diventa albero da raccogliere sotto la sua ombra l'umanità tutta e ha raccontato anche del lievito nella massa di farina, del sale che dà sapore... E che il cielo e la terra passeranno ma che le sue parole non passeranno...
Insomma, lo dico sinceramente, sono contenta del mio silenzio, del mio essere nascosta fra gli alberi e di essere conosciuta soltanto da chi cerca la mia riposante penombra per trovare un po' di Luce di Fede e un momento di respirazione a cuore aperto nella pace del Mistero di Dio.
Da qualche giorno sento raccontare e in piccole riunioni sento discutere di un certo progetto.
Qui intorno dove anticamente erano rovi e spine c'è l'idea di realizzare, come lo chiamano già, un "Campo della Pace". Monumenti, bassorilievi, murales, iscrizioni ecc. per rendere visibile cosa vuol dire Pace e che cos'è che la insidia e la compromette nel cuore dell'uomo e dell'umanità.
Speriamo bene, ma io, piccola e insignificante chiesetta, ho fiducia e mi sento alquanto orgogliosa a pensarmi circondata da un sogno di pace e quindi anch'io, povera chiesucola, abitazione di Cristo e di tre scagnozzi di preti, diventata assai più di una cattedrale, la Chiesa della Pace.

Chiesetta del porto

Mi hai sedotto, Signore
E io mi sono lasciato sedurre
Mi hai fatto forza e hai prevalso.

Son diventato oggetto di scherno
Ogni giorno: ognuno si fa beffe di me.
Quando parlo, devo gridare,
devo proclamare: "Violenza! Oppressione!".

Così la parola del Signore è diventata per me
Motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno.
Mi dicevo: "Non penserò più a lui
Non parlerò più in suo nome!".

Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente,
chiuso nelle mie ossa,
mi sforzavo di contenerlo,
ma non potevo..

Geremia 20, 7


in Lotta come Amore: LcA ottobre 1986, Ottobre 1986

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